Pedini Carlo

La sesta stagione

Pubblicato il: 22 Maggio 2012

Scrivere, e pubblicare, un romanzone di stampo ottocentesco in questi anni rappresenta una sfida che Cavallo di Ferro, casa editrice romana, ha voluto accettare e che vede ora un buon risultato, visto che il romanzo è tra i candidati al Premio Strega.

La sesta stagione” di Carlo Pedini, settecento intense pagine ricche di storie e personaggi, è quasi il romanzo di una vita – otto anni di scrittura e ricerche sono stati necessari per realizzarlo – e percorre cinquant’anni di storia italiana (1934-85) e soprattutto di storia della Chiesa, intesa come istituzione temporale. La vicenda è ambientata in una cittadina immaginaria dell’Appennino toscano, Civita Turrita, tra Arezzo e Sansepolcro, le cui vicende vengono ad intrecciarsi con quelle della Storia italiana, dal fascismo alla guerra, la Resistenza, gli anni post-bellici, il progressivo spopolamento del paese a causa dell’emigrazione interna, la speculazione edilizia e poi gli antagonismi tra democristiani e comunisti, il Concilio Vaticano II e via via fino alle stragi, al terrorismo, alle Brigate Rosse.

Per poter orchestrare una così vasta mole di fatti, Pedini ha cercato un modello di riferimento, così come fa il compositore che vuole comporre una sinfonia (e infatti Pedini è noto soprattutto come musicista) e l’ha trovato ne I Buddenbrook di Thomas Mann, del quale ha mantenuto la struttura (undici parti e capitoli relativi), cambiando argomento, ambientazione, personaggi. Naturalmente vi sono numerose corrispondenze sia a livello di personaggi che di scene, come Pedini stesso spiega nella sua nota conclusiva. Ad esempio in apertura, il pranzo in vescovado con tantissimi personaggi che arrivano, corrisponde alla cena d’incipit de I Buddenbrook, e così via per varie altre scene, che ciascun lettore potrà scoprire in base alla sua conoscenza dell’autore tedesco.

Il romanzo ha una struttura “musicale”, è in effetti come una sinfonia, con i suoi movimenti, il ritmo ora lento, ora più accelerato per l’incalzare degli eventi e lascia – come e più di Mann – ampi spazi a considerazioni sulla musica e a figure di musicisti sia immaginari che reali, come Lorenzo Perosi, che ha un ruolo importante per la sorte di uno dei protagonisti.

Tutta la passione di Pedini per la musica – e la sua profonda conoscenza della materia – emergono chiare tra le pagine. La musica è un’arte misteriosa, che viene direttamente da Dio, “costruita con la fredda razionalità dei numeri riesce a scaldare il cuore come la più irrazionale delle passioni” (p.522).

È la vera protagonista delle funzioni sacre.

In quest’ossatura molto precisa e scandita s’inseriscono i fatti e i personaggi: macrostoria italiana e microstoria di Civita, personaggi di fantasia e personaggi realmente esistiti come don Lorenzo Milani, padre Ernesto Balducci, i vari papi di quegli anni, ma anche lo storico dell’arte Carlo Ragghianti e molti altri.

Fulcro delle vicende è Civita Turrita con il suo santuario dell’Immacolata Concezione. Nel 1934, in apertura del romanzo, con una grande festa, il tempio viene inaugurato dopo dieci anni di lavori. Il vescovo, monsignor Angelici, aveva voluto che fosse ricostruito sulle spoglie di una vecchia chiesa agostiniana, abbandonata e distrutta da due terremoti e attorno a questo grande edificio ruoterà il destino della comunità tutta, fino all’inesorabile decadenza finale, che lo vedrà di nuovo ridotto, definitivamente, a un cumulo di rovine.

Il punto di vista della narrazione è costituito dalle esistenze di tre giovani seminaristi: il serissimo e introverso Ottavio Pettirossi, l’allegro e scanzonato Oreste Riccoboni e il timido e ingenuo Piero Menardi, voce narrante del romanzo, che comunque è scritto sia in prima che in terza persona.

Una volta ordinati sacerdoti diverranno, soprattutto Ottavio e Oreste, rivali e nemici, sviluppando idee e comportamenti molto diversi.

Don Ottavio si rivelerà un essere cinico e avido, innamorato del potere in se stesso, tanto da compiere atti vili e spregevoli. È un uomo intransigente e integralista, per nulla caritatevole o pietoso, crudele e inflessibile.

Don Oreste invece , nonostante i traumi subiti durante la guerra e la sua carriera di cantore della Cappella Sistina stroncata, sarà un prete gioviale ed allegro, vicino alla gente, aperto al cambiamento e convinto che il suo ministero vada vissuto anche fuori dalle mura della chiesa, lì dove i fedeli hanno bisogno di lui e possono incontrarlo.

Don Piero, un po’ più giovane degli altri due, rimarrà sempre timido e vivrà all’ombra dei due vescovi di Civita, protetto paternamente. Non sarà mai in grado di gestire una parrocchia tutta sua, anche perché viene preso da una grande ansia quando si tratta di predicare dall’alto di un pulpito.

A governare la diocesi, dapprima fiorente e poi sempre più malridotta, si susseguono due vescovi: monsignor Giuseppe Angelici, dalle marcate simpatie fasciste, uomo d’ordine e disciplina, di rigide convinzioni, deciso antimodernista, a suo tempo mandato a Civita proprio per riordinarla e tenerla sotto controllo; gli succede monsignor Tazio Rubini, più aperto alle novità e desideroso di portare pace e concordia tra le parti dopo la guerra. Non ha un carattere molto forte e subirà l’influenza del terribile don Ottavio, finendo per farsi esautorare e per lasciargli soprattutto il controllo economico della diocesi. Monsignor Rubini non è esente da dubbi sulle regole rigide dell’istituzione che serve.

Tutti questi ecclesiastici rappresentano modi diversi di vivere e intendere il sacerdozio, sempre però in un ambito molto istituzionale: non si parla della loro spiritualità, del loro modo di praticare la preghiera (a parte le formule rigorosamente in latino per buona parte del libro), ma di sacerdozio come mestiere più o meno obbligato.

In una realtà agricola e povera, entrare in seminario fin da bambini era un modo per studiare e soprattutto per assicurarsi il vitto e un lavoro sicuro, la vocazione viene dopo, col tempo, e può svilupparsi, come vedremo, anche in modo perverso.

Sarà lo zio di Piero, don Enea Mancini a non resistere a tale situazione e a chiedere di essere sciolto dai voti, cui era stato obbligato dal padre. Don Enea non avrà vita facile, la Chiesa tenterà in tutti i modi di ostacolarlo e di tenere nascosta ipocritamente la sua situazione. “Un segreto diventa tale non perché ignoto, ma solo perché la gente evita di parlarne”. (p.115)

Questi sacerdoti vengono visti mentre svolgono un lavoro, come tanti altri uomini: don Ottavio costituirà un’aberrazione, ma si rivelerà spesso un ottimo affarista, abile nel maneggiare ricchezze (che non disdegna) e nel concentrare nelle sue mani sempre più potere, anche compiendo impunemente atti indegni, tollerati e coperti con notevole ipocrisia da quella Chiesa che continua a tenerlo tra le sue fila.

Ed è la Chiesa, come struttura temporale, a manifestare la crisi: pian piano nel corso degli anni rivela una inarrestabile decadenza, perde i suoi fedeli, le chiese si svuotano, le vocazioni diminuiscono, lasciando vuoti e abbandonati i seminari. La società cambia e, mentre quella contadina rimaneva legata alla Chiesa e ai suoi ministri, la nuova realtà consumistica può esistere tranquillamente senza di loro, già appagata in se stessa.

Neppure il vento nuovo del Concilio Vaticano II sembra essere risolutivo, perché non mantiene quel che promette e ben presto alle istanze innovative subentrano chiusure e tradizionalismo.

L’amara considerazione finale di don Oreste è che il Concilio ha solo allungato l’agonia di un’istituzione già in decadenza, staccata dalla società, persa nella sua autoreferenzialità o negli intrighi politici, mentre i fedeli si cercano nuove religioni su misura. Non mancano le riflessioni su questi aspetti, specie da parte di don Oreste e del vescovo Rubini, che si scontra con l’inflessibilità delle regole ecclesiastiche e con la tendenza a formare militanti e sudditi e non fedeli consapevoli e ragionanti. La Chiesa si rivela un’istituzione tanto cieca da lasciare crescere e prosperare al suo interno una vera incarnazione diabolica.

Il finale non è ottimista, è quasi gotico per certe immagini e fa intuire che forse un cambiamento, a livello istituzionale, non è più possibile, tanta è la distanza che si è creata tra la Chiesa e il suo popolo. La barca di Pietro dopo oltre duemila anni di storia sembra attraversare una delle sue crisi più profonde, la sesta stagione, quella che non vedrà una settima, a meno che dei giusti non fioriscano ancora o non siano già presenti in esigua minoranza.

Il romanzo si chiude con un cupo assolo solenne.

Opera complessa e ponderosa, impegnativa, documentatissima, contiene innumerevoli tematiche, scene variegate (le diatribe tra comunisti e democristiani negli anni Cinquanta ad esempio sono gustose e ricordano le storie di Guareschi con Peppone e don Camillo) e così tanti spunti che è impossibile contenerli tutti nell’ambito di una semplice recensione.

Un lavoro davvero ammirevole e coraggioso e decisamente ambizioso.

Utilissimi, a fine libro, gli elenchi dei protagonisti e dei personaggi storici. Un esempio da imitare per le opere così complesse.

Articolo apparso su lankelot.eu nel maggio 2012