Strada Gino

Buskashi

Pubblicato il: 21 Gennaio 2009

IL TITOLO

Buskashì è il gioco nazionale afgano: due squadre di cavalieri si contendono la carcassa di una capra decapitata. E’ un gioco privo di regole: basta impossessarsi della carcassa. In questa vicenda, è l’Afganistan l’oggetto del contendere, un paese e un popolo sconvolti dalla guerra.

VIAGGIO DENTRO LA GUERRA

13 novembre 2001: un ferito grave arriva all’ospedale di Emergency a Kabul, dopo che la città è stata bombardata e i talebani si sono ritirati.

Un civile? Un talebano? Un terrorista? Un mujaheddin? Soltanto un uomo.” Com’è nello stile di Emergency viene curato chiunque egli sia.

Il secondo libro di Strada non è letteratura di guerra, è testimonianza, è storia contemporanea, è la guerra vista dal di dentro con tutto il suo carico di devastazione e morte. Qualsiasi valutazione estetica è inadeguata, qui si raccontano esperienze vissute e si mostra quel volto del conflitto che i media nascondono.

Rispetto al libro precedente “Pappagalli verdi”, costituito da tanti episodi in paesi diversi, qui c’è una narrazione continua e organica.

Il libro ha inizio il 9 settembre 2001 con l’assassinio di Massud, il ”leone del Panchir”, comandante dei mujaheddin. Due giorni dopo ci sarà l’attentato alle Twin Towers. In breve tutte le organizzazioni umanitarie lasceranno l’Afganistan, solo Strada con l’equipe di Emergency decide di tornare a Kabul per riaprire l’ospedale, chiuso dopo che lo staff era stato aggredito dalla polizia religiosa dei talebani.

Inizia così un lungo e pericoloso viaggio dentro la guerra, il passaggio attraverso le montagne dell’Hindukush fino al rientro a Kabul bombardata e alla riapertura dell’ospedale, con la possibilità di salvare molte vite.

Il modo di raccontare i fatti di Strada è semplice, diretto, immediato, non disdegna lievi note paesaggistiche, ma è chiaro che la sua attenzione è orientata soprattutto verso gli esseri umani e le loro storie. Bambini, donne, uomini che vedono le loro vite stravolte dalle cosiddette “bombe intelligenti” o dalle mine antiuomo disseminate ovunque.

Spesso, nel libro emerge la rabbia per l’ingiustizia e per il modo in cui i media manipolano le notizie, alterando i fatti o tacendoli in nome di giochi di potere e di interessi economici.

Soprattutto vi è il supremo, assoluto rifiuto della guerra come modo per risolvere i contrasti:

“Proviamo a guardare alla realtà di chi ne viene coinvolto, proviamo a passare il confine. Proviamoci.

Non dico a sperimentare la guerra sulla nostra pelle – non sono così masochista -, ma almeno a cercare di capire la guerra.

Cominciamo ad ascoltare le storie, che sono storie di uomini, le nostre storie. Credo che conoscerle sarebbe sufficiente, a quasi tutti noi, per cambiare idea sulla guerra.

Storie vere, non manipolate, la storia di Jamila e quella di Waseen che hanno perso tre figli e che sono rimasti l’una senza una gamba e l’altro senza gli occhi.

Proviamoci. Dopo forse potremo parlare di guerra a buon diritto, e quasi certamente ne parleremo in modo diverso. […]

Questo è il vero confine, quello più difficile da attraversare.

Fare propria, rispettare l’esperienza degli altri, quello che stanno provando, non ignorarla solo perché riguarda «gli altri» anziché noi stessi.

Perché se uno di noi, uno qualsiasi di noi esseri umani, sta in questo momento soffrendo come un cane, è malato o ha fame, è cosa che ci riguarda tutti.

Ci deve riguardare tutti, perché ignorare la sofferenza di un uomo è sempre un atto di violenza, e tra i più vigliacchi”.

L’essenza del libro è dunque in questa condanna di ogni conflitto, nella suprema solidarietà con gli esseri umani, nel coraggio di impegnarsi in prima persona, anche correndo un rischio personale. Un libro coerente e forte, con notevoli critiche sia ai media, per il loro modo di dare le notizie, sia ad altre organizzazioni umanitarie.

“Ci hanno raccontato la favola delle guerra e le sue virtù, mentendo deliberatamente su tutto, sulle sue ragioni e sulla sua realtà.

Migliaia di civili sono state ammazzate, ferite e mutilate in Afganistan dalle bombe americane.

Nessuno può dire «non lo sapevo».

Lo sapevano benissimo tutti […]

Non ne hanno parlato. […]

Se il mondo umanitario si è trasformato nel reparto Cosmesi della guerra, l’informazione, salvo rarissime eccezioni, ne è diventata l’ufficio pubblicità e pubbliche relazioni.”

Il testo si chiude con una lettera di Strada alla figlia Cecilia, cui il libro è dedicato, la lettera di un padre spesso fisicamente assente, ma comunque latore di un ideale forte, un padre che adesso sta tornando.

“Non credere una parola, ogni volta che cercheranno di spiegare come sarà bella la guerra futura, tecnologica, selettiva, «umanitaria».

Sarà solo un altro carico di morte e di miserie umane.

Venendo qui abbiamo fatto il nostro dovere, ed è stato utile. In questi mesi all’interno della guerra abbiamo lavorato molto, rattoppando ferite. E abbiamo capito che non possiamo tacere di fronte ai crimini, anche quando compiuti in nome della «civiltà».

Non ho visto giustizia, in questi mesi, né pietà, non ho visto ragione né umanità. Forse anche per questo ho bisogno di casa.”

In appendice Strada ha voluto far inserire la Dichiarazione universale dei diritti umani, che finora sono così spesso violati ovunque.

Edizione esaminata e brevi note

Gino Strada (Sesto San Giovanni 1948), medico italiano, chirurgo di guerra, è uno dei fondatori di Emergency, associazione umanitaria che si occupa della cura e della riabilitazione delle vittime di guerra e delle mine. Da quasi quindici anni è impegnato nei paesi più diversi. Il suo libro precedente “Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra “(1999) ha ottenuto il premio Viareggio Versilia 1999.

Gino Strada, Buskashì. Viaggio dentro la guerra. Milano, Feltrinelli 2002.

Sito ufficiale:

http://www.emergency.it/