Calvino Italo

Ultimo viene il corvo

Pubblicato il: 20 Gennaio 2009

VICENDE EDITORIALI

“Ultimo viene il corvo” contiene trenta racconti brevi scritti da Calvino tra l’estate del 1945 e la primavera del 1949, usciti in buona parte su giornali. La prima edizione uscì nel 1949 per Einaudi insieme a una scheda bibliografica realizzata quasi certamente da Pavese. Successivamente Calvino scelse venti di questi brani per inserirli nella raccolta più vasta intitolata “I Racconti”.

Nel 1969 fu la volta di una nuova edizione contenente venticinque racconti della prima edizione più cinque di poco posteriori, in ordine diverso.

La pubblicazione qui presa in esame si rifà a quella originaria del ’49 e propone anche i brani rifiutati dall’autore nelle raccolte successive.

I PRIMI UNDICI RACCONTI

L’edizione originaria di “Ultimo viene il corvo” non è suddivisa in sezioni, come quella del ’69, ma vi è ugualmente un criterio d’affinità che lega i racconti e consente d’individuare alcune tematiche principali.

Un primo nucleo riguarda avventure di ragazzi o storie agricole, avventure di caccia, tutte ambientate tra la collina e il mare, in quel paesaggio ligure tanto caro all’autore. Le narrazioni si collocano nel filone neorealista, ma già rivelano alcuni tratti d’originalità che preludono agli sviluppi futuri del Calvino narratore. Fresche e ariose sono certe avventure infantili o adolescenziali, delle quali lo scrittore sa rendere lo spirito, il senso della scoperta di nuovi universi e l’acquisizione di diverse esperienze. Storie di ragazzi che s’immergono nel mondo che li circonda, vivono il senso dell’avventura sentendosi grandi, s’uniscono in gruppo e organizzano bande cercando un nemico da battere lanciandogli sfide. C’è – minuto – l’intreccio de “I ragazzi della via Paal” l’iniziazione all’età adulta, la sfida alla vita, i principi, gli ideali, il senso dell’onore: “Ci hanno lasciato un ostaggio, vigliacchi lasciare le donne in mano al nemico”. Gli spunti sono brillanti e fantasiosi “…E un giorno la nave si sarebbe mossa sulle zampe dei granchi e avrebbe camminato per il mare” (“Un bastimento carico di granchi”).

Oppure il bambino e la bambina che passeggiano lungo la strada ferrata (“Il giardino incantato”) – in una di quelle violazioni della norma tanto care alla prima età – e scoprono l’esistenza d’un meraviglioso giardino con piscina e splendida vegetazione. Di quei luoghi Calvino sa ricreare la bellezza e la magia attraverso uno sguardo limpido e giovane. E originale è il ragazzino quindicenne del primo racconto (“Un pomeriggio, Adamo”) dal nome esperanto, Liberaso, che vuole regalare alla giovanissima servetta Maria Nunziata gli animali più vari e glieli fa poi trovare tutti in cucina, nei posti più strani. Il paesaggio è quello ligure con la sua tipica vegetazione, la collina e sullo sfondo il mare con la spiaggia sassosa, un paesaggio colorato e vario, che fa da sfondo anche a “Il sentiero dei nidi di ragno”, l’altra opera d’ispirazione neorealista di Calvino “Colla Bella è un’altura dalle pallide rive tutte terreni gerbidi, erbe dure a brucare e muri franati di antiche terrazze. Più sotto comincia la nera nuvolaglia degli uliveti, più in su i boschi fulvi e spelacchiati dagli incendi come schiene di vecchi cani. Le cose impigrivano nel grigio dell’alba come in un socchiudere di palpebre ancora assonnate. Al mare non si distinguevano confini, traversato fino in fondo da lame di foschia” (“Uomo nei gerbidi”).

Surreale come un quadro di Chagall è “L’alba sui rami nudi” con immagini che sono flash in cui la fantasia galoppa: i cachi diventano lampadine rosse, i ladri bestie notturne dalle mani d’uomo e passo di lupo, i veneti fanno cose strane: Saltarel frusta la moglie dicendo ch’è una cavalla. Lo stile è semplice ma costellato d’immagini incisive: “Lo scorrere del ruscello smerigliava il silenzio”. Mentre ne “L’occhio del padrone” vengono rievocati l’arcaico gesto della mietitura e la spigolatura ch’è opra tutta femminile.

Su queste stesse colline sono ambientate anche altre storie, storie di vite dure, di attaccamento alla «roba» (“Alba sui rami nudi”), compare addirittura un delitto, e poi rivalità fra contadini, miseria e gente inasprita dalla povertà oppure vicende di borghesi impigriti. Talvolta Calvino va verso il regionalismo naturalistico accentuando le differenze e le contrapposizioni fra i personaggi di diversa origine.

Emergono figure di estraniati, oggi diremmo con un anglismo borderline: sono coloro che ritornano periodicamente alla terra natale – personaggi che compaiono anche in Pavese, che ne svilupperà tratti analitici – o che vivono in quella terra pur disinteressandosene, soggetti distaccati e detestati dai compaesani come i fratelli Bagnasco. Figure taciturne e isolate, a volte misogine, custodi di frustrazioni che sfogano spesso su chi è più debole.

Ogni volta venendo alla sua terra restava come nell’attesa d’un miracolo: tornerò e questa volta tutto avrà un significato, il verde che digrada a strisce per la vallata del mio podere, i gesti sempre uguali degli uomini al lavoro, la crescita d’ogni pianta, d’ogni ramo; la rabbia di questa terra prenderà anche me, come mio padre, fino a non potermi più staccare di qui” (“L’occhio del padrone”). Tali personaggi restano disperatamente stranieri, in una dimensione d’incomunicabilità, dove i dialoghi si ripetono e le frasi rimbalzano dall’uno all’altro senza nulla dire.

E possono riconsolarsi i moderni genitori, propensi ad allevare i figlioli nella bambagia della viziosa ipercomprensione, visto che anche la generazione del dopoguerra aveva i suoi “Figli poltroni” che esclamavano “vendetevela la casa e mangiamoci i soldi”.

 L’ARIA DELLA RESISTENZA

 La varietà del fronte antifascista durante la guerra di Liberazione risalta chiaramente dalla gamma dei personaggi dei racconti centrali della raccolta. Si narra di guerra, di morte, di tedeschi e fascisti, di partigiani che li combattevano, della giusta punizione da rifilare ai nemici della libertà ma senza retorica alcuna. Ne “La stessa cosa del sangue” descrizione e introspezione s’intrecciano. Il comunista, dal quale riparano i fratelli che si vedono arrestare la madre dalle SS, è descritto nella sua fisicità (uomo basso e calvo), nello stato sociale (era un operaio) e formativo-culturale (aveva letto un’infinità di libri e sapeva le notizie più varie dal caffè bruciato in Brasile alla canna da zucchero gettata in mare a Cuba). Aveva una moglie giovane e sfiorita che mostrava una dolcezza non si distingue se di madre o d’amante. In quella abitazione si viveva una microscopica socializzazione: tutti a dividersi tutto, anche il vitello arrostito in tempo di guerra (sic!) a parlare di compagni uccisi o torturati, dei fascisti giustiziati e da giustiziare, dei tedeschi che si sarebbero potuti eliminare.

Anche per Diego e Michele de “L’attesa della morte in albergo” l’alternativa era libertà o morte. Avevano scelto senza indugio, ora catturati dai nazifascisti erano in uno di quegli alberghi delle città italiane diventati luoghi di detenzione e tortura per i resistenti. Mentre un giovane che s’era venduto alla ‘Repubblica’ – tal Pelle di Biscia, che nei tratti ricorda Pelle, il traditore de “Il sentiero dei nidi di ragno” – li aveva passati in rivista. Aveva vestito la divisa di tela attillata e si sentiva, lui gracile ragazzo ora saloino, arbitro della vita di quegli uomini che trattenevano il respiro a ogni sua parola. Erano momenti d’inebriante trionfo per Pelle di Biscia. I due compagni compresero che “qualunque fosse il loro destino da allora in poi di sangue, di urli, di sfinimento, di burla pure avrebbero sentito il gusto sanguigno d’essere vivi e dividere il dolore come il pane”.

Gli uomini della montagna che mettono paura a chi veste la divisa della ‘Repubblica’ per la paga e la buona vita che fa fare, comunicano, digiunano, sparano, uomini diventati cattivi a forza d’essere buoni. Fra costoro c’è chi ha la faccia chiara come un pugno. È la staffetta di nome Binda (potenza e popolarità del ciclismo!) ch’è rimasto nella sua zona, al suo paese “pausa fra lo scendere e il salire, una sorsata di latte, la maglia pulita preparata dalla madre”. Aderisce alla causa ma non taglia il cordone ombelicale con le radici, teme i tedeschi e li vede dappertutto. La sua non è totale paranoia: i tedeschi ci sono e lo seguono a sua insaputa (“Paura sul sentiero”). Mentre “Andato al comando” mostra l’armato e il disarmato, il carceriere e il prigioniero, il partigiano e la spia che non ammette di esserlo. La narrazione spiega perché alcuni abitanti del paese non erano più tornati: il segretario aveva fatto prendere tre partigiani, alcuni fratelli facevano i rastrellamenti con la Milizia, la maestra andava a letto con quelli della Decima. Per loro era giunta naturale la punizione dei patrioti.

C’erano anche partigiani assai particolari come un ragazzetto dalla mira infallibile e l’incontenibile voglia di giocare col fucile che, pur redarguito, scappa e se ne va da solo a fare il tiro a segno. Incrocia dei tedeschi, ne fredda uno, tiene inchiodato un altro dietro un grosso sasso e quando questo si chiede perché il ragazzo che sparava agli uccelli non fulmini un grosso corvo che gli ruota sulla testa, beh – è troppo tardi (è il racconto che dà il titolo alla raccolta). Ma c’è anche Giuvà, un tiratore schiappino (“Il bosco degli animali”) la cui mira è tremendamente fallace. Da lui arriva una giovane grassottella con un fazzoletto rosso attorno al capo e dice “se ammazzi il tedesco io ti sposo, se m’ammazzi il tacchino ti taglio le budella”.

Il bosco degli animali” è anche un graziosissimo racconto in cui emerge la vena favolistica di Calvino, che successivamente l’Autore svilupperà: gli incontri del tedesco con i vari animali, come in una piccola arca di Noè, la figura di Giuvà, che sembra uno gnomo dei boschi “portava un verde cappello a pan di zucchero con una penna di fagiano, una camicia a grandi pallini gialli sotto il gilecco di fustagno, e una sciarpa rossa intorno alla pancia a pallone per sostenergli i pantaloni pieni di toppe turchine” (p. 162) sono spie di una fantasia che esorbita e inizia a muoversi verso nuovi ambiti e nuove ispirazioni.

Si parla della Resistenza, di razzie al paese da parte dei tedeschi, di fatti di sangue, ma poi appare la mucca Coccinella affezionatissima al padrone, appaiono gli animali più diversi fino al gatto-aiutante-risolutore, domestico solo in apparenza.

La morte per tutti è sempre dietro l’angolo, anche quella inattesa, come ne “Il campo di mine” “la terra che divenne sole, l’aria che divenne terra, il guii delle marmotte che divenne tuono. L’uomo sentì una mano di ferro che l’afferrava per i capelli, alla nuca. Non una mano ma cento mani che lo afferravano ognuna per un capello e lo strappavano fino ai piedi come si strappa un foglio di carta in centinaia di piccoli pezzi”. Scene drammatiche rese in metafora dalla descrizione meticolosa e avvincente.

E le armi della Resistenza non consegnate? Vero. Armi nascoste c’erano, ma le leggende di veri arsenali con le fantasticherie dei cannoni celati fra i mobili del salotto risultava un’esagerazione frutto dell’attrito da guerra fredda che si ripercuoteva nel Paese. La polizia cercava le armi e così alcuni agenti, fra zelo e sovrastima del vero, andavano ben oltre la realtà – come testimonia la storia di Baravino ne “Il gatto e il poliziotto”.

L’EROS

Millemosse, Carmen la spagnola, la zoppa, nera di Carruggio lungo, la Sulfamidica, la Succhiacani sono molto più de ‘la cassiera dagli occhi da lupa che masticava caramelle alescane’ del Boogie di Paolo Conte. Immagini d’un’Italia che ha smesso di vivere con la legge Merlin e la scomparsa delle case chiuse. Su simili dame – in “Dollari e vecchie mondane” – marinai statunitensi allungavano prima le mani dei pensieri “ognuno che allungasse una mano incontrava una natica o una mammella o una coscia che sembravano smarrite e non si vedeva di chi fossero”. “E bocche che s’incontravano quasi volanti nell’aria, che s’appiccicavano sotto gli orecchi come ventose e labbra enormi con le gobbe di carminio che arrivavano sino alle narici…”

E che dire del sogno erotico del soldato? (“L’avventura del soldato”). Qualunque giovane uomo, per giunta proletario l’avrebbe voluta vivere. Politicamente sarà un po’ scorretto (ci sono gli estremi per le molestie sessuali?) ma più che un tentativo d’approccio è l’espressione d’un desiderio, magari fantastico perché non sapremo mai se il fante Tomagra abbia fatto seguire a sfioramenti leggeri e casuali, ai palpamenti di mani e polpacci, alle ginocchia sospinte e al mignolo inerte in esplorazione un esplicito approccio verso la bella vedova che gli si era seduta a fianco in treno. Il soldato si produce in un’infinità di tocchi (“un muscolo della gamba contratto, la mano in tasca a cercare qualcosa…” “ormai qualsiasi movimento della sua mano sarebbe stato un inaridito gesto d’intimità…”) e inventa un finto sonno per non mettere a disagio la signora. Poi c’è una lunghissima galleria nella quale il fante vorrebbe, non vorrebbe … “Quando Tomagra s’alzò e sotto di lui la vedova restava con lo sguardo chiaro e severo, col cappello guarnito di veli sempre calcato in capo … il treno non smetteva l’altissimo fischio … la pioggia riprendeva con nuova violenza, ed egli ebbe un moto di paura d’avere osato tanto”. Insomma se incontro ci fu, fu consenziente.

GLI ULTIMI RACCONTI

In “Furto in pasticceria” troviamo i soliti ignoti con nomignoli degni del film di Monicelli: lì c’era Capannelle, qui Gesubambino e Uorra uorra. Lì si doveva andare in banca e si finiva in un appartamento privato, a mangiare pasta e ceci; qui, più raffinatamente, i ladri finiscono in pasticceria e mentre s’aggirano s’ingozzano di pandispagna, crafen, plum-cake: “I panettoni mezzo tagliati aprivano fauci gialle e occhiute contro di lui, strane ciambelle sbocciavano come fiori di piante carnivore; Gesubambino ebbe per un momento la sensazione che sarebbe stato lui a esser divorato dai dolci”.

Insomma storie del Dopoguerra, borsa nera e bivacchi in stazione, storie di ordinaria povertà e di cattiva giustizia con una vena di disillusione: gli ultimi racconti denunciano già come la vena neorealistica stia stretta a Calvino e come tante speranze, tanti ideali rischiano di venire traditi dall’evolversi della società e della politica. Ma vi è anche uno sfondo d’amarezza per la povertà persistente, per la corruzione e il tradimento: “le leggi si possono rivoltare come si vogliono e far dir bianco al nero e nero al bianco” pensa, appunto, il giudice Onofrio Clerici (“Impiccagione d’un giudice”).

Ma una stagione storica e letteraria si conclude; e s’apre la scena per altre creazioni. Lo scrittore si avvia a nuove sperimentazioni e scoperte letterarie.

Edizione esaminata e brevi note

Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, 1923 – Siena, 1985), scrittore italiano.

Italo Calvino,”Ultimo viene il corvo”, Milano, Oscar Mondadori 2005.

Presentazione dell’Autore.

Approfondimento in rete: Le lezioni americane / www.italo-calvino.com / Antologia virtuale dei grandi autori italiani / Sito della memoria Italo Calvino.