L’enfant prodige dell’attuale panorama cinematografico internazionale, Xavier Dolan, esordì dietro la macchina da presa a soli 19 anni, nel 2009, con una pellicola dalle tematiche forti – svelate in parte già dall’emblematico titolo: J’ai tué ma mére (“Ho ucciso mia madre) – e dichiaratamente autobiografiche. Il complicato e ambivalente rapporto con la madre (ripreso con diverse modalità in Mommy) e l’omosessualità dichiarata e rivendicata saranno in effetti argomenti ricorrenti, se non addirittura centrali, anche in opere successive, attraverso le quali Dolan ha raggiunto la piena maturità autoriale ed espressiva ottenendo riconoscimenti plurimi nelle rassegne cinematografiche che hanno ospitato le sue pellicole. In questa sua opera prima, il giovane regista, attore e sceneggiatore canadese sceglie di attingere al suo vissuto in maniera empatica e fortemente connotativa, palesando già dalla sua giovanissima età una qualità non comune nella capacità di scrittura e mostrando una notevole disinvoltura nell’uso del mezzo tecnico. Tutti elementi che, partendo proprio da J’ai tué ma mére, lasciarono subito intravedere le potenzialità di un cinema che, nell’arco di una manciata di anni, lo porteranno a concepire un’opera tecnicamente e strutturalmente innovativa come Mommy.
Hubert Minel (Xavier Dolan) è un ragazzo canadese sedicenne che vive nella periferia di Montréal con sua madre Chantale (Anne Dorval), che ha divorziato dal marito quando era più giovane. Il ragazzo vede raramente il padre, e questo causa ostilità tra Chantale e suo figlio, il quale sembra detestare ogni atteggiamento della madre. Un giorno, dopo un’abituale lite tra i due, Hubert finge con la propria insegnante, la signora Cloutier, che sua madre sia morta da tempo. Presto Chantale e l’insegnante vengono a sapere della menzogna e ciò accresce la conflittualità tra madre e figlio. La relazione tra i due si deteriora ulteriormente quando, dopo l’iniziale assenso della madre al trasferimento del ragazzo in un appartamento per suo conto, Chantale cambia idea e glielo impedisce, ritenendolo troppo giovane. In seguito Chantale scopre dalla madre dell’amico di Hubert, Antonin (François Arnaud), che quest’ultimo è in realtà il suo fidanzato. Il susseguirsi di scontri e tensioni tra madre e figlio persuade Chantale, con l’assenso dell’ex marito, che Hubert deve andare in collegio. Al ragazzo crolla il mondo, perché deve allontanarsi da Antonin e da una quotidianità che comunque aveva costruito con fatica. Collegio dal quale, dopo un tormentato e breve periodo, fuggirà, aiutato da Antonin, lasciando un indizio scritto alla madre sul luogo in cui potrà ritrovarlo.
J’ai tué ma mére è un’opera prima sorprendente, se si considera che Dolan aveva solo 19 anni al momento in cui l’ha realizzata. È certo una pellicola massimalista, autoreferenziale e nondimeno esibizionista nel suo voler mettere fortemente a fuoco le esigenze visivo-narrative di un adolescente che ha una magma espressivo incandescente che gli sgorga da dentro e che, conseguentemente, vuol liberare, attraverso la forma artistica che gli è più congeniale, l’inquietudine propria della sua giovane età e la sua non nascosta omosessualità. Ma se fosse solo smania espressiva incontrollabile o semplice voglia di fare outing pubblicamente, quella che Dolan porta nel suo cinema, J’ai tué ma mére sarebbe risultata essere la solita pellicola di un giovane artista smanioso di liberare le sue urgenze individuali attraverso la macchina da presa. Cosa che invece, come avrete intuito, fortunatamente non è. Per quanti doverosi appunti si possono fare al film in questione, e più in generale all’opera di un giovanissimo regista esordiente, Dolan dimostra da subito di conoscere bene la materia trattata, di sapere usare il mezzo tecnico, di voler contaminare, interiorizzare debiti artistici e citare il maniera non gratuita, di avere intuizioni non comuni di scrittura per la sua età, ma soprattutto di riuscire a trovare la distanza tra sé (regista) e il personaggio narrato (il suo ruolo d’attore), nonostante l’empatia derivante dalla narrazione scopertamente autobiografica. Se c’è un debito maggiormente evidente in quest’opera prima del regista canadese, è quello riscontrabile nei confronti della Nouvelle Vague e di François Truffaut in particolare, sia in alcune scelte di regia che nel trattare il tema dell’inquietudine adolescenziale, restituendo suggestioni che tratteggiano un’ ideale corrispondenza atemporale tra Hubert e il giovane Antoine Doinel de I quattrocento colpi. Un ulteriore parallelo, pur lontano nella forma ma evidente e per certi versi ancor più calzante rispetto alla tematica affrontata, è quello con La luna di Bernardo Bertolucci (1979), nel riprendere e riaggiornare il tormentato e controverso rapporto tra madre e figlio adolescente fortemente caratterizzato da motivi edipici (qui peraltro meno esibiti, ma indubbiamente presenti), centrale e dirimente nell’economia della narrazione che è alla base della pellicola del regista emiliano.
Quello di Dolan, comunque, comincia subito a distinguersi come un cinema dalle precise peculiarità espressive, come l’utilizzo del ralenti contestualmente all’ingresso di temi musicali che hanno sovente valenza narrativa, l’uso del simbolo e l’attenzione al dettaglio, le diverse angolazioni e traiettorie con cui orienta la macchina da presa e la modalità nella scelta dei colori e dei toni di luce della fotografia. Da considerare, in ultimo ma non meno importante, la scrittura: potente, virulenta e a tratti debordante, ma nonostante tutto e sorprendentemente, vista l’età, mai veramente fuori misura. Xavier Dolan dimostra, già a 19 anni, di essere un artista poliedrico e lontano dalla cultura pop dei suoi coetanei. Dirige, recita (anche bene, e lo si era già visto nel terrificante e crudele horror franco-canadese Martyrs, prima di questo film) e scrive denotando una buona cultura di base sia letteraria che cinematografica, oltre che un senso estetico e un taglio autoriale, come detto, evidenziabili sin da questo film.
Curiosità: La critica accolse bene, nella stragrande maggioranza dei casi, J’ai tué ma mére, in una prima fase alle latitudini che gli erano più congeniali. Essendo un film girato in lingua francese, oltre che in Canada (nella zona del Québec) uscì subito in Francia, dopo essere stato mostrato in anteprima al Festival di Cannes in cui l’opera vinse tre premi nella sezione Quinzaine de Réalisateurs. In Italia la pellicola è ancora inedita, ma reperibile in rete, sottotitolata. Il primo e unico film di Dolan distribuito al cinema anche in Italia è Mommy (2014), suo quinto lungometraggio, in attesa di Juste la fin du monde, nuovamente premiato a Cannes e dal prossimo dicembre anche nelle nostre sale.
Federico Magi, agosto 2016.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Xavier Dolan. Soggetto e sceneggiatura: Xavier Dolan. Direttore della fotografia: Stephanie Weber-Biron. Montaggio: Hélèn Girard. Interpreti principali: Xavier Dolan, Anne Dorval, Suzanne Clément, François Arnaud, Niels Schneider, Patricia Tulasne, Pierre Chagnon, Monique Spaziani, Benoit Gouin. Scenografia: Annette Belley. Costumi: Nicole Pelletier. Musica originale: Nicholas Savard-L’Herbier. Produzione: Xavier Dolan per Mifilifilms. Origine: Canada, 2009. Durata: 96 minuti.
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