Marchesini Matteo

Le donne spariscono in silenzio

Pubblicato il: 21 Novembre 2006

Quattro racconti lunghi per quattro figure femminili segnate dalla malattia fisica o psichica, dalla decadenza, da un rapporto patologico con gli altri esseri umani formano questo interessante e inquietante libro di Matteo Marchesini.

Si tratta di donne a loro modo pericolose, poiché capaci di trascinare con sé nel baratro anche chi le circonda con un potere sottilmente corrosivo, costituito da silenzi, da schemi comportamentali reiterati nel tempo oppure da frasi ripetute ad effetto. Pur accomunate da queste situazioni alterate nel rapporto col mondo, donne e scenari variano.

Nel primo racconto, “La fiera”, la protagonista, che immaginiamo ancora giovane, conduce un’esistenza di miseria e squallore sottomessa ad un uomo violento e prepotente, il cui nome costituisce un ossimoro col suo aspetto fisico. Viene chiamato infatti Bellezza, ma “Bellezza è il demone. Deforme come una vite, sfregiato sotto l’occhio sinistro da un lungo taglio che gli si arriccia nel collo e divide le scapole” (p. 7).

Più volte la protagonista pensa che quest’uomo si spaccherà in due e controlla che la cicatrice non si allarghi paurosamente.

Bellezza fa il venditore ambulante d’abiti per i mercati dei paesi della Puglia e spesso il paesaggio arido delle Murge accompagna la miseria fisica e morale dei personaggi.

A un certo punto le dune diventano piccole montagne a strisce gialle e nere come le girelle, e da qualche parte si alzano dei pennacchi di fumo. La terra brucia in interminabili strisce nere. Le strisce sono perfettamente distanziate. Di sicuro qualcuno ha appiccato quel fuoco, per fertilizzare forse o qualcosa del genere, ma in giro non c’è anima viva fino alla linea dell’orizzonte” (p. 18).

Sono colline aride e striate che sembrano non finire mai.

La protagonista è una donna sessualmente sottomessa che si fa possedere da Bellezza e da altri in maniera meccanica, passiva. Appare estraniata, incapace di ribellarsi, ha “la bocca cucita e gli occhi secchi” per non piangere altrimenti Bellezza la picchia selvaggiamente, sfogando su di lei frustrazioni represse. È un contesto degradato e degradante.

Il secondo racconto “Regine” ci mette invece a contatto con una situazione di malattia grave: Iolanda, l’anziana protagonista è affetta infatti dal morbo di Alzheimer ed inizia a non essere più in grado di svolgere le normali faccende quotidiane, si smarrisce, a tratti non riconosce la sua stessa casa.

Lei e suo marito Luigi vivono nella campagna emiliana in una casa agricola ormai troppo grande per loro. Anche qui aleggia un’atmosfera di desolazione e di decadenza, c’è la solitudine dei due vecchi (che pur non sono abbandonati dai figli) e tutto il disorientamento di coloro che si trovano all’improvviso di fronte una persona diversa da quella che conoscevano, il senso di soffocamento, alla fine un’indifferenza che è autodifesa da parte di Luigi.

Luigi si rese conto di non volerne più sapere. Non voleva pensarci, non voleva vedere le cose cambiare poco a poco, o se proprio doveva guardarle, almeno non voleva doverle governare” (p. 55).

Iolanda sprofonda lentamente nella demenza e costituisce una figura corrosiva, che rischia di trascinare con sé anche il marito.

Vocazione alla gioia” vede come protagonista Chiara, una giovane suora in procinto di prendere i voti definitivi. È questo un racconto più complesso e articolato, dove meglio vengono studiati i personaggi, vi sono numerose e non irrilevanti figure minori, l’ambiente viene descritto più dettagliatamente e i rapporti analizzati con ulteriore profondità.

In questo caso siamo di fronte a un malessere psichico strisciante, sottile, che si è impadronito in passato di Chiara ed ora pare stringerla d’assedio causandole sintomi fisici che l’occhiuta sorveglianza di alcune consorelle è pronta a notare e a riferire alla superiora, colei che deve decidere sulla sua attitudine alla vita consacrata. Chiara presta la sua opera presso una Casa d’Accoglienza, i cui ospiti vengono presentati e descritti con le loro malattie e limiti.

In questo luogo attende la visita dei genitori, Paolo e Irene. Ci si addentra qui in quell’universo famigliare già in parte delineato in “Regine” e che raggiungerà il suo apice nell’ultimo racconto.

Ecco allora che le figure femminili predominanti diventano due: Chiara e la madre.

La vocazione della figlia che Paolo, il padre, riteneva una vocazione alla gioia, pare anch’essa malata, oscura nelle sue radici. Chiara si vede “come una pianta seccata, dalle radici recise, che per sfuggirsi invano s’attorciglia sui suoi rami” (pp. 68-69).

È una donna che “si nasconde le radici del dolore per vincere senza combattere, per salvarsi senza lottare” (p. 67).

Vivere tra i malati, tra coloro che hanno limiti fisici o psichici è per lei uno stare tra simili: in loro la patologia è lampante, manifesta, in lei è occulta, è una “bestia” subdola e strisciante.

Da Chiara l’attenzione si sposta poi sulla sua famiglia. Il padre appare più razionale, preciso anche se non scevro da difetti, Irene, la madre, è una sorta di “vittima virtuosa”, “mai che viva la vita da sé” (questa dipendenza, la tendenza all’autocommiserazione che poi suscita l’ira in chi la circonda ricorrerà anche nell’ultimo racconto), ma di fatto è lei la vincitrice col suo mutismo e i suoi sotterfugi.

Mentre col padre si può litigare (ne è dimostrazione il contrastato rapporto con Luca, il fratello di Chiara, che ha fatto scelte d’impegno sociale molto differenti), con Irene è impossibile. “Silenzio, rancore, sotterfugi: queste le sue armi preferite” (p. 82).

Nello stesso tempo Paolo esercita su Irene consenziente una sorta di sadismo “quando esaspera i silenzi, la pigrizia e il disprezzo, per vedere le sue lacrime sgorgare silenziose sul granito della cucina. E allora, solo allora, come dopo l’amore, torna di nuovo soddisfatto e conciliante” (p. 84).

L’unico rapporto positivo, anche se intermittente, che Chiara ha realizzato all’interno della famiglia è quello col fratello Luca, un personaggio alternativo e vivace, protagonista di clamorose rotture col padre.

Chiara e Luca sono per lui [il padre] due schegge parallele impazzite partite dalla sua volontà, dai suoi furori, e tutte tese a snaturarne il cuore più profondo fino a farlo scoppiare” (p. 104).

Paolo ha sempre tentato di convincere direttamente i figli alla sua volontà, Irene agisce subdolamente con rapporti più sottili ed occulti, il quadro finale è un ambiente famigliare asfittico e oppressivo, malato anch’esso.

Ma il fatto è che sia Paolo che Irene, alleati, sono capaci di rinfacciare loro qualunque cosa. Di farli sentire nudi, deboli, sporchi. A lei non diranno mai chiaro e tondo che deve rinunciare ai voti – sarebbe inutile, e del resto contrario a uno stile collaudato – ma cercano già di far leva sulle richieste d’aiuto che ha rivolto loro nei momenti peggiori. Lo negherebbero fin sotto tortura, ma il ragionamento che si nasconde dietro le loro pressioni ha la logica di un do ut des sacrificale, protettivo, soffocante” (p. 108).

Il risultato è una monaca dalla vocazione strana, poco religiosa si direbbe (sono marginali e non centrali i riferimenti al tema propriamente religioso che invece dovrebbe costituire il cardine di una vita consacrata) e molto problematica.

Di nuovo l’ambiente famigliare opprimente ed asfittico ci viene mostrato nell’ultimo racconto “La voce del coniglio”: qui il rapporto è tra madre e figlio, in un viluppo di rimproveri reciproci, silenzi allucinanti, frasi ad hoc, sentimenti contrastanti. Ancora una volta ci si presenta una donna anziana affetta dal morbo di Parkinson e costretta a subire una trasformazione del proprio corpo che la sta rendendo poco a poco simile a un cyborg.

Il rapporto è controverso, contrastato e colpevolizzante. Pietro, il figlio ormai adulto, un letterato con carriera universitaria, non riesce a guardare la madre, donna forte da sempre (brilla per la sua assenza qualsiasi figura paterna), tutt’intera. È l’osceno spettacolo della sofferenza a non essere sopportabile, difficile già in condizioni normali, lo è ancora di più quando s’innesta su una situazione già patologica.

Orrore, stupore, imbarazzo, immaginazione della inesorabile decadenza futura e della micidiale trappola di doveri e responsabilità che essa costituisce per lui: questi sono alcuni dei pensieri che attraverseranno la mente di Pietro nel corso del racconto. La madre è sempre stata un tiranno, una ricattatrice, una potenza invadente sia nei rapporti più privati del figlio, cui rinfaccia continuamente la nullità, l’inadempienza, gli errori, le stesse cure che lei gli ha dedicato quand’era malato di nervi.

Si tratta di una situazione bloccata, fissatasi ormai su schemi-trappola tendenti alla ripetizione: “Si era calmata, e questo lo riempiva di una rabbia molto più grande, mescolata a una dolcezza indefinita, a una nostalgia che giudicava addirittura incommensurabile. Era come se la futilità del destino lo stesse costringendo a singhiozzare davanti a un piccolo incidente automobilistico, a un contrattempo di metrò nel cui sapore sentisse di aver perduto tutto il passato e tutto il futuro. E nello stesso tempo doveva trattenersi dallo sprofondare nella sua stessa pietà, dall’affogare con lei in quella broda vergognosa di sensi di colpa e di amabilissime tagliole” (p. 124).

Come sempre la madre è una donna che a tratti si vuol mostrare vittima, ma è di fatto carnefice che ha cresciuto un figlio problematico.

Ora che è malata non può più esibire come un vanto le rinunce a viaggi e amicizie, ma Pietro vuole “costringerla ad ammettere che se continuava a rinunciare ai piccoli godimenti che le si offrivano era per sua volontà –solo per sua volontà” (p. 132).

Un “grumo di rancori irrisolti” sta alla base di questo rapporto e l’autore scava senza pietà in questi sentimenti.

Pietro vive un’altalena di amore-odio-pietà, alla fine, dopo l’ennesimo scontro verbale, diviene afasico di fronte a lei, nauseato eppure rabbioso, irato, mai indifferente come vorrebbe: “…l’ira che viene dall’impotenza, dal tradimento, dalla sensazione di essere stati messi da qualcun altro, a propria insaputa, nella sgradevole condizione di dover scegliere tra dignità sacrificale (coraggio da pagarsi, certo per molto tempo, con la bile) e irredimibile viltà” (p. 148).

La malattia che getta di fronte a Pietro le sue responsabilità farà precipitare la situazione e lo porterà a una scelta di fuga. In fondo sue specialità sono sempre state la pietà per se stesso e la velocità come “unica chance di procrastinare, forse addirittura di annullare una sconfitta” (p. 161).

Dal primo all’ultimo racconto è interessante notare un crescendo nell’approfondimento dei personaggi e dei loro rapporti e uno sviluppo dello stile, mai banale e inesorabile nell’affrontare stati d’animo e relazioni complesse.

Articolo apparso su lankelot.eu nel novembre 2006

Edizione esaminata e brevi note

Matteo Marchesini (Castelfranco Emilia, Modena 1980), vincitore dell’edizione 2004 del concorso Iceberg per la sezione Narrazione. Dal 1998 collabora all’annuario critico di poesia curato da Giorgio Manacorda. Dal 1999 al 2003 ha gestito una piccola libreria specializzata in poesia e letteratura per ragazzi. Nel 2002 è uscita un’antologia di sue poesie nel volume Dieci poeti italiani (Pendragon) e ha curato e introdotto Il maratoneta di Luca Coscioni (Stampa Alternativa). Nel 2004 ha pubblicato il libro di versi L’asilo (Edizioni degli Amici).

Matteo Marchesini, “Le donne spariscono in silenzio”, Bologna, Pendragon 2005.