Dostoevskij Fëdor Michajlovic

Delitto e castigo

Pubblicato il: 4 Novembre 2006

IL FASCINO DEL DELITTO.

 Pietroburgo. Un’estate afosa, caldissima. Un giovane studente di legge, Raskolnikov, intelligente ma povero, si aggira per le vie della città assorto nelle sue riflessioni. Abita da solo in una squallida stanzetta dal soffitto basso, opprimente; è fondamentalmente isolato, da tempo vive “come una testuggine nel suo guscio” si trascura e passa moltissimo tempo assorto nelle sue cupe riflessioni.
Potremmo dire che è un idealista, pronto a gettarsi a capofitto su un’idea per seguirla fino in fondo, fino all’ossessione. Nonostante l’aspetto trasandato, Raskolnikov è
“decisamente bello, con i suoi lineamenti fini, i magnifici occhi scuri e i bei capelli castani, ed era esile e snello, di statura superiore alla media”. Spesso viene assalito da una febbre o da sintomi che paiono soprattutto nervosi, frutto di un’ansia, di un’ossessione che lo rode e che lo porta ad estraniarsi da tutto e da tutti; la sua tristezza era cresciuta “concentrandosi e assumendo l’aspetto di un orrendo, crudele e fantastico problema, che torturava a fondo il suo cuore e il suo cervello ed esigeva una soluzione”. La soluzione è commettere un delitto: Raskolnikov segue fino in fondo questa sua ossessione ma, per un imprevisto, si trova a dover compiere un duplice omicidio e soprattutto scopre di non saperne reggere il peso da solo e quindi di dover rivelare la verità dapprima ad una giovane ragazza, Sonja, costretta dalla miseria a prostituirsi, e poi all’autorità giudiziaria.

Dostoevskij, con abilità straordinaria, ci conduce nella mente e nel cuore di Raskolnikov, come in un viaggio agli inferi che ci permette di vedere il meccanismo del delitto, a suo modo affascinante, proprio dalla parte dell’esecutore, che è il protagonista primo e assoluto del romanzo.
Raskolnikov uccide una vecchia usuraia, un “pidocchio”, apparentemente inutile, anzi dannosa al resto del mondo. Vista la sua povertà si potrebbe pensare che lo faccia per necessità, ma le sue motivazioni sono molto più sottili e malvagie: egli è convinto che esistano al mondo due categorie di uomini, quelli comuni e quelli non comuni.

A chi osa molto, si dà sempre ragione. Chi è capace di sputare sulle cose grandi, diventa il loro legislatore, e chi osa più di tutti, più di tutti ha ragione! Così è stato finora e così sempre sarà! Solo un cieco non lo vede!”
Il modello di Raskolnikov è Napoleone, che osò molto senza badare troppo al metodo. E così Raskolnikov uccide e lo fa soprattutto per se stesso, “avevo bisogno di sapere allora, e di saperlo al più presto, se ero un pidocchio come tutti oppure un uomo! Sarei stato capace di scavalcare l’ostacolo o no? Avrei osato chinarmi a raccogliere quello che avevo a portata di mano oppure no? Sono una tremante pavida creatura, oppure ho il diritto….”

Eppure qualcosa nel perverso meccanismo s’inceppa, Raskolnikov confessa e va incontro alle conseguenze dei suoi atti, si potrebbe pensare a un pentimento, a una sorta di conversione, ma non è così, Dostoevskij non ci mostra una redenzione agiografica a buon mercato.

Raskolnikov si arrende perché scopre di essere “un inetto e un mediocre”, più pidocchio della sua vittima; lui non considera il suo gesto un delitto, bensì un mezzo per arrivare ad acquisire una posizione indipendente e di lì diventare magari un benefattore dell’umanità, “se fossi riuscito, mi avrebbero incoronato; ed ora invece, eccomi in trappola” – dice.

Ed è la Siberia, con Sonja che lo segue e continua ad andarlo a trovare, nonostante lui la tratti con indifferenza o addirittura con cattiveria.
Per tutto il libro Raskolnikov è fondamentalmente un asociale, è indifferente, estraniato, pieno di rabbia e di repulsione per la gente.
“Gli facevano ribrezzo tutte le persone che incontrava, gli facevano ribrezzo i loro volti, il loro passo, i loro gesti”. Spessissimo un sorriso cattivo e sarcastico gli appare sul volto, il suo disprezzo verso il resto del mondo è grande e probabilmente non sa amare neanche la madre o la sorella o il saggio amico Razumichin; la dedizione e l’amore di Sonja lo infastidiscono, a volte gli pare di odiarla.

Spesso è malato, in preda alla febbre o ad un’agitazione nervosa, come se delitto e malattia avessero un loro oscuro legame: malattia fisica e spirituale sembrano in qualche modo legarsi.

In realtà è l’orgoglio ferito la pena di Raskolnikov, il non esser stato all’altezza delle sue aspettative; non c’é rimorso o pentimento in lui. Questa situazione permane fino alle ultimissime pagine del romanzo, al punto che sembra non esserci possibilità di redenzione per il Male, ma a questo punto, dopo un’ultima malattia e due sogni particolari, Raskolnikov cambia, scopre l’amore per Sonja, ha il presentimento della felicità e si salva: ma la redenzione e la salvezza non vengono rappresentate da Dostoevskij, rimangono all’orizzonte, accennate.
La rinascita, la trasformazione, l’avvio verso una realtà nuova potrebbero esser oggetto di un altro romanzo – dice l’autore – non di questo.

Accanto a Raskolnikov si muove una folla di altre figure, più o meno importanti: alcune sono bozzetti come Marmeladov e sua moglie o P.P.Luzin. Alcune scene sconfinano nel grottesco, e talvolta l’alternarsi delle vicende e delle storie (ad esempio una trama viene lasciata in sospeso e poi ripresa parecchio più avanti, o vi sono dei colpi di scena, personaggi che si presentano come su una ribalta teatrale) ci ricorda che il romanzo è uscito tra il 1866 e il 1867 a puntate su una rivista russa. Dostoevskij dovette lavorare in fretta per tener testa alle scadenze del giornale e alcune parti sono infatti meno rifinite di altre, risentono d’una stesura affrettata, anche se l’autore riallaccia sempre i fili delle sue storie con abilità.

Tra i personaggi che circondano Raskolnikov almeno tre spiccano per il loro carattere e la loro importanza: il giudice Porfirij Petrovic, Svidrigajlov e Sonja.
Il giudice, figura quasi comica nell’aspetto esteriore, gioca praticamente a gatto e topo con Raskolnikov, è abilissimo nel capire l’assassino e nell’innervosirlo, ridendo e scherzando gli fa capire di saper tutti i fatti e sa anticiparne le reazioni, egli sente che il suo uomo finirà per cadere in trappola, di lui dice che è
“un cuore esasperato dalle teorie”, “ha ucciso, però si considera un uomo onesto, rispetta il suo prossimo, va in giro con un’aria di angelo pallido…”.
Alla fine con i suoi modi affabili gli prospetta delle soluzioni:

Avete inventato una teoria e ora vi vergognate perché è fallita, perché il risultato non è per nulla originale! Il risultato è schifoso, lo devo ammettere, tuttavia voi non siete irrimediabilmente un malfattore (…) Vi considero uno che anche a strappargli le budella se ne sta lì a guardare i suoi carnefici, col sorriso sulle labbra, ma solo se trova una fede, se trova Dio. Su, trovatela e vivrete. (…) Anche la sofferenza è una buona cosa, si capisce. (…) abbandonatevi alla vita, senza ragionare, non preoccupatevi, vi porterà certamente sulla riva e vi rimetterà in piedi. (…) Abbiate cuore e un po’ meno paura. (…) Si tratta ormai di giustizia. Quindi fate ciò che la giustizia esige. Lo so, lo so che non ci credete, ma, parola mia, la vita vi porterà in salvo. E finirà per piacervi, dopo.”
Svidrigajlov invece è un altro malvagio, viene presentato con una sorta di attesa, quasi un’epifania del Male, non ha scrupoli, è freddo, cinico, racconta apertamente quel che fa senza alcuna forma di pudore, anzi vantandosene, è uno spione, uno che ama il male, le turpitudini, anche i luoghi infimi e volgari, nei quali si mescola ad un’umanità meschina e squallida. La sua esistenza si concluderà tragicamente e sarà proprio dopo il suo suicidio che Raskolnikov, incapace di uccidersi a sua volta, deciderà definitivamente di costituirsi.
Il fatto strano è che, prima di morire, Svidrigajlov compirà delle azioni buone: certamente non per una qualche conversione o rimorso, perché sono dei gesti fini a sé stessi, finali. Colui che è sempre stato carnefice benefica le vittime della società, come se gli opposti, in qualche modo, si toccassero.

Infine un ruolo importante spetta a Sonja. Sonja è una ragazza giovanissima, dall’aspetto dolce e minuto, costretta a prostituirsi dalla povertà, ma che conserva un cuore innocente e una grande fede. A lei per prima Raskolnikov rivela il suo delitto ed i loro dialoghi sono tra le parti del romanzo a più alta tensione narrativa. È ancora lei a seguire Raskolnikov fino in Siberia, è lei che continua a stargli vicina nonostante, per lungo tempo, lui non riveli nessun interesse nei suoi confronti e anzi sia anche sgarbato e sprezzante. È lei la custode di una inesauribile pietà, di una dedizione assoluta, è lei che sembra leggere nel cuore dell’assassino, è lei che lo ama per prima, è lei la custode di una fede religiosa, che però non si afferma nella realtà tragica del romanzo.
In uno dei loro tormentati colloqui, Raskolnikov le chiede ragione della sua fede, le fa leggere l’episodio della resurrezione di Lazzaro, ma di questo Dio appassionato dei poveri non c’é una gran traccia visibile. Gli ultimi, i reietti della società rimangono tali: oppure, ironia della sorte, ricevono benefici da Svidrigajlov, che non ha fatto altro che il male.

Se Dio c’é, è ben nascosto oppure si lega indissolubilmente al suo opposto. Come dice Raskolnikov a Sonja: “Ma può anche darsi che Dio non esista affatto”. O forse è un obiettivo lontanissimo, proprio quell’obiettivo che Raskolnikov intuisce alla fine del romanzo e che lo rende diverso, diverso con sé stesso, con Sonja, della quale finalmente ricambia l’amore, e con i compagni di detenzione, con i quali per la prima volta instaura un rapporto umano.
Soltanto ora ricompare il Vangelo, quello che Raskolnikov ha chiesto a Sonja e che ha tenuto a lungo sotto il guanciale, senza aprirlo, né lei gliene ha mai parlato o imposto la lettura.

Con molto buon gusto Dostoevskij non ci dice altro e lascia solo un’apertura finale. Infine, a suo modo protagonista, è la città di Pietroburgo, che viene descritta con i suoi quartieri poveri, sporchi, malfamati, pieni di figure equivoche, con i negozietti, le bettole, le abitazioni: tutto un mondo “sotterraneo”, un’umanità spesso dolente, che si muove e vive nella miseria.

Articolo apparso su lankelot.eu nel novembre 2006

Edizione esaminata e brevi note

Fiodor Dostoevskij (Mosca, 1821 – Pietroburgo, 1881), scrittore russo. “Delitto e castigo” è il primo dei quattro romanzi maggiori di Dostoevskij. Precede, infatti: “L’idiota”, “I Demoni” e “I fratelli Karamazov”.

Fiodor Dostoevskij, “Delitto e castigo”, Garzanti, Milano, 1976. In due volumi. Traduzione di P.Zveteremich.