Nello splendido scenario di Venezia, uno studioso specializzato sul poeta americano Jeffrey Aspern affitta alcune stanze nel vasto e decadente palazzo in cui vivono le signorine Bordereau, zia e nipote, ormai anziane.
Egli spera in questo modo d’intrufolarsi nella loro vita, di carpire la loro fiducia e confida di mettere le mani su un prezioso carteggio – che ritiene in loro possesso – tra Aspern e Juliana, la decrepita zia in gioventù amata dal poeta.
Il racconto di James è tutto giocato su questa passione, questa brama che anima il narratore, sempre preso dal suo pensiero fisso, dall’interesse di studioso e di collezionista, disposto a molto pur di visionare, toccare, contemplare il materiale che gli interessa.
Di fatto si vedrà nell’epilogo della narrazione come il protagonista si ponga comunque dei limiti e alla fine risulti lucido ed anche onesto nell’ammettere la propria ipocrisia e doppiezza.
Lo spunto iniziale per questo romanzo breve venne a James – come succederà poi per “Giro di vite” – da un fatto vero. A Firenze, nel 1887, un amico gli racconta la storia di Silsbee, un critico d’arte americano appassionato di Shelley. Egli viene a sapere che Claire Claremont, ex amante di Byron, dal quale aveva avuto la figlia Allegra, vive a Firenze, anzianissima, con una nipote, pure lei ormai di mezz’età.
Silsbee è certo che le due donne conservino documenti – lettere – dei due poeti e desidera impadronirsene, perciò va a vivere in casa loro con uno stratagemma, sperando che la più vecchia muoia nel frattempo e che sia possibile mettere le mani sulle preziose carte. I suoi desideri s’avverano, ma, quando Silsbee espone la sua posizione alla più giovane, questa gli chiede di sposarlo in cambio dei documenti e lui si dà a precipitosa fuga.
James rimase affascinato e colpito da questo soggetto: da abile osservatore e ascoltatore degli esseri umani e delle loro storie qual era, ci lavorò su, trasfigurò e nel 1888 “Il carteggio Aspern” uscì a puntate sull’ “Atlantic”.
Lo scenario si sposta da Firenze a Venezia. Dopo aver udito la storia, infatti, James si reca nella città lagunare, in casa di Katherine de Kay Bronson, gran dama americana, che gli offre l’archetipo per la signora Prest, confidente del narratore, colei che lo introduce in casa Bordereau.
Successivamente James torna a Firenze e qui, nella villa di un’altra americana, Constance Fenimore Woolson, nipote di Fenimore Cooper, scrive il racconto, ovviamente trasformando le due signorine da inglesi in americane e creando Aspern, il nuovo poeta americano.
“Dopo tutto aveva vissuto la maggior parte della vita nel suo paese, e la sua musa, come si usava dire a quel tempo, era essenzialmente americana. E proprio per questo, in origine, lo avevo amato: in un periodo in cui la nostra terra nativa era nuda e cruda e provinciale, quando della famosa «atmosfera», che è la cosa che si pensa che le manchi, non se ne sentiva affatto la mancanza, quando la letteratura si sentiva sola in America, e l’arte e la forma erano cose quasi impossibili, lui aveva trovato il mezzo di vivere e scrivere come uno dei primi; il modo di essere libero e universale e niente affatto spaventato; di sentire, capire ed esprimere ogni cosa” (p. 224).
Il narratore è tutto preso dal suo desiderio di far riemergere dal passato questo scrittore, ha atteggiamenti di venerazione al solo pensiero di vedere – o toccare – documenti passati per le mani del suo autore, al cui studio ha consacrato l’esistenza, i cui sentimenti egli immagina.
È come se fosse presente e rivivesse.
“Lo avevo invocato e lui era giunto; mi appariva davanti la metà del tempo; era come se il suo luminoso spettro fosse tornato in terra per assicurarmi che considerava quell’affare non meno suo che mio, e si incaricava fraternamente e felicemente di condurlo in porto”.
Egli vive come una missione quest’incarico, questo ”lavoro”.
“La mia eccentrica missione privata divenne parte della generale atmosfera romantica e della gloria generale – provavo addirittura un cameratismo mistico, una fratellanza morale con tutti coloro che in passato si erano messi al servizio dell’arte. Avevano lavorato per la bellezza, per una fede; e cos’altro stavo facendo io?” (p. 217).
Cerca così di giustificare – non senza una buona dose d’ipocrisia – il suo comportamento, eppure ci appare anche un poco ingenuo quando scopertamente ammette la realtà: “Posso arrivare al mio bottino, solo sorprendendola con la guardia abbassata, e posso farle abbassare la guardia solo ingraziandomela con arti diplomatiche. L’ipocrisia, la doppiezza sono le mie sole possibilità” (p. 184).
La parola “bottino” spesso riferita al carteggio è indicativa e ci rivela come il narratore si voglia considerare una sorta di guerriero, un cavaliere consacrato ad un’impresa superiore.
Convinto di cavarsela facilmente, si troverà invece di fronte a difficoltà impreviste, soprattutto per quel che riguarda Juliana, l’anzianissima, antica amante di Aspern, una sorta di reliquia vivente, avida, astuta, tiranna con la nipote.
Le due vivono pressoché isolate, ritirate in un palazzo troppo grande per loro con un giardino che il nuovo ospite si premura di far sistemare per conquistarsele. Eppure la vecchia, gli occhi sempre nascosti da un’orribile veletta verde, gli ricorda il suo poeta: “La presenza di lei sembrava in qualche modo contenere ed esprimere quella di lui, e nell’istante in cui la vidi per la prima volta, me lo sentii più vicino di quanto mai mi fosse successo prima, o mi sia successo dopo” (pp. 196-97); dietro la veletta, potrebbe celarsi “una spettrale testa di morto” (p. 197).
Il narratore immagina quale sia stata e sia la vita delle due donne, si figura il carattere di Juliana, la sua passata bellezza, l’impertinenza, l’astuzia, il modo in cui Aspern può averla conosciuta, infine il luogo in cui può conservare il prezioso carteggio.
Accanto a Juliana, come fedele e mite assistente, si colloca la nipote miss Tina, ingenua, patetica, piuttosto inetta, succube della zia, indifesa. Il narratore riesce a conquistarne la fiducia, ma come vedremo questo non basterà a consentirgli la realizzazione del suo piano.
Rimane su tutta la storia una sensazione di doppiezza, tipica di James, abilissimo cesellatore di sensazioni e seminatore di dubbi sul multiforme comportamento umano, restano una serie di aporie dei vari personaggi, a partire dal narratore.
Egli è un appassionato privo di scrupoli, ma ha anche una sua etica, a volte ci appare spietato, interessato solo alle sue carte, altre volte rispettoso delle persone e dei loro sentimenti, un po’ingenuo, un po’furbastro. Benefattore della cultura o avido ricercatore. Alla fine, fallimentare.
E la vecchia è reliquia, bellezza idealizzata nel passato, ma anche avida del denaro, ingorda, spietata e dalla battuta tagliente, egoista tanto da voler portare nella tomba il suo segreto e negare così alla cultura un documento essenziale. James gioca moltissimo sulle congetture, sul lavorio interiore del narratore, le sue esitazioni, le sue decisioni, è un grande analista di situazioni, un finissimo voyeur.
Rispetto al “Giro di vite” l’atmosfera è molto differente, molto minore è la tensione e talvolta la prosa indugia un po’ troppo nelle sue circonvoluzioni, ma il racconto è sempre godibile.
A far da sfondo la magia di Venezia con l’antico palazzo, piazza san Marco, gli spostamenti in gondola in anni in cui il moto ondoso era di là da venire e il silenzio regnava sovrano sulla città.
“La grande basilica, con le sue cupole basse e gli ispidi merletti, col mistero dei suoi mosaici e delle sue sculture, appariva spettrale nell’oscurità diffusa, e la brezza marina passava tra le colonne gemelle della Piazzetta, stipiti di una porta non più sorvegliata, con la dolcezza di una sontuosa tenda oscillante” (p. 225).
Non manca qualche battuta critica, da straniero, verso i veneziani, dal dialetto “invertebrato” (p. 235), “la capacità dei veneziani di non far nulla è enorme…” (p. 219).
Il particolare modus vivendi veneziano non può venir sempre compreso dal visitatore foresto, neppure se si tratta di Henry James.
Articolo apparso su lankelot.eu nel novembre 2006
Edizione esaminata e brevi note
Henry James (New York 1843 – Londra 1916) è uno dei più importanti romanzieri americani tra Otto e Novecento: la sua opera si distacca dalla tradizione del romanzo realista dell’Ottocento per proiettarsi verso il romanzo psicologico e le novità narrative del Novecento.
Di famiglia agiata, James ebbe un’educazione raffinata e colta e trascorse poi buona parte della sua esistenza in Europa (Parigi, ma soprattutto Londra).
Viaggiò in Inghilterra, Francia, Italia (Firenze, Roma, Venezia), Belgio, Olanda, Germania.
Opere principali i romanzi: “Ritratto di signora” (1881), “Le bostoniane” (1886), “Principessa Casamassima” (1886), “Le ali della colomba” (1902), “Gli Ambasciatori” (1903) e “La coppa d’oro” (1904).
Racconti: “Il carteggio Aspern” (1888), “Imbarazzi” (1896), “Giro di vite” (1898), “La specie migliore” (1903). Scrisse per il teatro con poco successo, realizzò anche saggi letterari e scritti autobiografici.
Henry James, “Giro di vite – Il carteggio Aspern”, La biblioteca di Repubblica, Roma 2004. Introduzione e traduzione di Nadia Fusini.
Altre opere di James recensite su lankelot.com:
“Il Mentitore” (a cura di Franchi); “Ritratto di signora” (Monego).
Approfondimento in rete: The Henry James Scholar’s Guide to Web Sites / The Literature Network / Wikipedia / Antenati.
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