Mascheri Paolo

Poliuretano

Pubblicato il: 25 Agosto 2006

Quattordici racconti estremamente compatti, tanto che potrebbero costituire un romanzo, un romanzo che ha per protagonista un io narrante giovane – o molto giovane – alle prese con piccole vicende, disagi esistenziali e fisici.

È una prova letteraria promettente quella di Mascheri, che può dare sviluppi ulteriori. Rivela un certo talento, senso dell’ironia, vivacità.

Pochissimo accade, o meglio, sono piccoli fatti quelli raccontati: avventure di formazione anche a sfondo sessuale, sfide all’istituzione familiar-paterna (uso dell’auto o del cellulare paterno in un momento in cui i cellulari non erano ancora così diffusi), rapporti con ragazze, le prime vacanze con gli amici, l’estate dopo l’esame di maturità, esami universitari.

Accadono fatti, si compiono gesti a volte fini a se stessi e si sta a contemplare l’opera compiuta: “Mi passo le mani sullo stomaco e guardo le eliche del ventilatore recidere l’aria. Prendo dal primo cassetto il pacchetto di Ms e lo lancio su, in alto, contro il ventilatore. Il gioco sta nel tirare un oggetto contro le eliche e farlo andare più lontano possibile per il salotto. Le sigarette sfiorano il soffitto e tornano giù nevicando tabacco sulla mia faccia.

Resto fermo ad ascoltare”(pp. 68-69, “Harmony”).

Le considerazioni si sgranano, a volte con ironia sottile, e decisamente colpiscono. Così inizia il racconto “Harmony”: “Quel bastardo del vicino mi sveglia alle sette di mattina con quel cazzo di tagliaerba. L’altra sera per l’appunto mi sono addormentato alle tre di notte cercando di fare il punto sulla mia vita e sono arrivato alla conclusione che c’è troppa polvere nella stanza” (p. 63).

Domina incontrastato in ogni testo un senso fortissimo di disagio esistenziale, un sentirsi fuori posto o “altro” non ancora ben definito rispetto a tutto il resto del mondo.

Il narratore è in perenne controtempo, s’aggrappa a piccole cose, piccoli gesti e amicizie per dare un senso allo spaventoso niente delle giornate e di tutto quell’indaffararsi che altrimenti lo circonda e gli pare assurdo.

Quella mattina ci accoglieva come altre mille mattine, senza niente da darci. E in mille di quelle mille mattine che sono venute dopo, ho pensato che Giangio e Vinci erano niente come amici, ma che quel niente, a parte la centesima volta che i miei annunciavano il divorzio, a parte le versioni di greco e latino, a parte i brufoli sopra il labbro superiore, era l’unica cosa che avevo” (p. 80, “La nostra rivoluzione”).

Dal disagio scaturisce un senso d’inerzia persistente, ai limiti del patologico, ciò che resta è il lasciarsi vivere

Aspetterò che mi si stempi la fronte. Aspetterò di non perdere i chili che mi ero prefisso di perdere. Aspetterò una domenica di sole senza ora legale. Aspetterò tutte le sere la fiction e se va bene mi commuoverò anche” (p. 87, “L’ultimo tuffo”).

Guiderò finché ci sarà benzina mentre aspetto che la mia vita cambi” (p. 14, “Spider”).

Spessissimo il protagonista aspetta, attende, sta nella sua casa e osserva o si osserva scrupolosamente, quel che fa è minimale e sembra scivolargli addosso più che vederlo davvero partecipe.

L’esistenza rotola via in una successione di attimi e di gesti a scopo incerto: si può far sesso, sfasciare parte della carrozzeria dell’auto vecchia, tirar petardi al fastidioso vicino di casa, compiere così una propria piccola rivoluzione fatta in casa, con pochi e fedeli amici. Ritagliarsi un vano nella monotonia e nel grigiore.

Spesso i protagonisti compiono anche gesti maniacali o scaramantici: avere sempre i denti perfettamente puliti utilizzando una quantità di spazzolini, dentifrici e fili interdentali; camminare contenendo ogni passo nei confini della mattonella (che è anche un gioco infantile).

Lo stato di disagio esistenziale pare concretizzarsi nel disagio fisico: forte è l’accentuazione della fisicità nei racconti, il corpo viene puntigliosamente “ascoltato” ed evidenziato fin nelle sue manifestazioni più prosaiche, come se il sintomo – a volte la malattia – riflettesse puntualmente ben altro malessere.

Fin dall’inizio ritroviamo una serie di patologie, che poi si snodano nell’intero libro: depressione anche grave, rinite allergica, asma, mal di gola, diarrea e così via, fin quasi a provarne un senso di fastidio. E per ogni più piccolo acciacco c’è pronto il farmaco, il rimedio o il palliativo, una vera antologia di medicinali è contenuta nei racconti.

Aleggia sovrano su tutti il Lorazepam, il tranquillante che induce nel protagonista un sonno senza sogni, un allontanamento totale dal mondo e dall’ansia.

Uno schieramento farmacologico posto a conferma di una tendenza sociale che rifiuta ogni qualsivoglia sintomo di malattia o di dolore fisico e che rinchiude il dolore psichico nella gabbia invisibile degli psicofarmaci. Obnubilare il cervello può essere un metodo per non sentire più niente, ma il corpo alla fine si ribella.

Il corpo si sforma, ingrassa, a causa di un’alimentazione irregolare e sbagliata, malsana, fatta di cibi artificiali o assunti senza misura.

Segno di chiaro malessere e di disordine.

Quel che i personaggi non dicono con i dialoghi – generalmente ridotti al minimo – viene espresso dalla corporeità, una corporeità spesso scrutata minuziosamente allo specchio alla ricerca di tracce di anomalia oppure per prendere coscienza dell’avvenuta deformazione “ma io nel mio corpo vedo orrore” (p. 26, “Rimmel come fango”).

Non le dicevo che il mio corpo non era più quello che conosceva, che si era sformato e che quel costume da bagno che mi aveva regalato non mi entrava più. Mi svegliavo la notte per provarmi quel cazzo di costume che non voleva entrare” (p. 92, “Energia psichica”).

Può esservi l’eccesso di cibo e poi il suo rifiuto, il vomito (spesso autoindotto per ovviare ai fastidi digestivi). Il corpo subisce tutte queste piccole violenze, si rimedia poi con l’immancabile farmaco.

Il corpo serve anche per fare sesso sia sottoforma di autoerotismo che come prova adolescenziale con una bambola di plexigas, sia in rapporti canonici con la propria ragazza: molta meccanica e fisiologia, pochissimo dialogo verbale.

Il sesso è un’altra forma do comunicazione tutta gestuale, spesso cercato, o sognato da adolescenti ancora inesperti e alla ricerca di un’iniziazione. Il bisogno d’amore passa attraverso la sessualità.

Quello che voglio è un corpo che mi ami”. (p. 65, “Harmony”)

Ancora il corpo può venir annullato col tentativo di suicidio, disintegrazione ultima, messaggio finale della depressione divenuta una forza “militante”.

Quasi assenti sono anche le famiglie di questo giovani: generalmente appartengono al ceto altoborghese (padre medico, uomo di successo, auto lussuose), ma la famiglia è atomizzata, assente e disarmonica. I genitori sono piuttosto assenti e presi dai loro impegni e così non hanno tempo di occuparsi del figlio.

Il giovane vive una solitudine assoluta: vi è un Natale da solo, un giorno di compleanno in Croazia da solo, per giorni non parla con nessuno. La vita scorre tra assurde televendite (di pistole a salve, di elettrostimolatori), programmi televisivi sciocchi e, qua e là, parentesi di poesia (Pasolini, Majakovskij) e musica (Nirvana, Doors, Metallica, Cure, Marlene Kuntz).

A volte anche la natura pare assente, artefatta come certo cibo ingerito dal protagonista: “comete di neon” “cielo di caucciù” (p. 22, “Racconto di Natale”), ma ricompare poi nel mare della Croazia, talvolta con flash lirici notevoli.

L’ultimo racconto – scopertamente biografico – compendia le tematiche già viste in precedenza e rilancia domande:

Del campionato non me ne frega un cazzo. Della politica, idem. Della folla, idem. […] Non so sopravvivere alle regole del gioco. Non so come fanno gli altri a stare tutta la mattinata all’università, il pomeriggio a studiare e la sera a guardare qualche idiota alla tv.

Che c’è che non va in me?

Una vagina ti sputa nel mondo e poi devi crescere, imparare, guadagnarti da vivere, sabato al centro commerciale, commuoverti per Natale, figliare, invecchiare, ammalarti di qualcosa e crepare. Che senso ha?

Più pensavo e più mi sembrava tutto assurdo. La mia vita. Quella gente, correre al lavoro, sgomitare nelle file, fare carriera” (p. 104, “Compendio di anatomia umana”).

E rilancia soprattutto un senso di rifiuto per le logiche sociali: “Perché non c’è tempo per capire. Bisogna agire. Agire. Agire.

Come nella pubblicità delle auto e dei dopobarba tutto è un’esaltazione del dinamismo. Muoviti, non pensare e sarai felice. È questa la formula. Un’unica formula per la vita di tutti” (p. 107, “Compendio di anatomia umana”).

Nel mondo in cui tutti corrono, agiscono e in cui ciò che non è produttivo, “attivo” viene rifiutato o ignorato, i personaggi di questi racconti propongono inerzia, silenzio, godimento di piccole cose, come una vacanza con la propria ragazza.

Non c’era niente che potessi desiderare”. (p. 108, “Compendio di anatomia umana”).

Articolo apparso su lankelot.eu nell’agosto 2006

Edizione esaminata e brevi note

Paolo Mascheri è nato nel 1978 e vive in provincia di Arezzo. Ha esordito con un racconto apparso ne Il colore viola (Limina).

Paolo Mascheri, Poliuretano, Bologna, Pendragon 2004.

Approfondimento in rete: sito ufficiale dell’autore / Paolo Mascheri.