
Postnovecento. Svoltato il millennio, all’inizio di un’epoca che si colloca oltre il Postmoderno, nasce questa raffinata raccolta di poesie e prose di Patrick Karlsen.
Siamo in un’età proiettata verso un futuro incerto, che potrebbe contenere sia i germi dell’estrema disumanizzazione, sia evolvere, grazie alle tecnologie e alla scienza, verso l’universale benessere.
Coloro che vivono il Postnovecento sono da un lato gli epigoni di un secolo complesso, dall’altro gli iniziatori di una nuova era, tutta da costruire.
Da questo punto della Storia, Patrick Karlsen osserva la società contemporanea, i suoi vizi e difetti e, nello stesso tempo, si osserva, riflette, espone i punti di riferimento del suo essere nel mondo. Lo fa con sguardo lucido e pacato – da acuto osservatore quale uno storico sa essere – e con sguardo luminoso di poeta, che sa cogliere bellezza fin nei gesti minimi.
Nel testo s’alternano eleganti poesie e prose in stile raffinato, curatissimo, alcune splendenti nel loro nitore descrittivo: sono prose liriche o abbozzi di storie, frammenti di ricordi, ricerche del senso degli eventi, spaccati di vita ibridati a sogni e immaginazioni. Alcuni dall’incipit memorabile:
“Mi telefoni che fuori piove e la luce del cielo è obliqua dalle finestre, grigia” (p. 58).
Due sono le tematiche principali che percorrono l’intera raccolta e ne costituiscono l’ossatura: da un lato vi è l’impegno civile e sociale di critica, denuncia, testimonianza delle aberrazioni della società contemporanea; dall’altro vi è una vena intimista, sentimentale, personale, che s’ispira a gesti minimi, addirittura si volge a cercare “l’immortalità nel gesto minimo”.
Ben conoscendo e valutando la realtà odierna, Karlsen volge lo sguardo attorno a sé e osserva la nostra civiltà, che affoga nell’opulenza e nell’obesità – l’immagine ricorre più volte, si nominano addirittura “poesie sui frigoriferi pieni” (p. 18) –, in orge di cibo che contribuiscono a stordire le menti tanto quanto i mezzi di comunicazione di massa, strumenti onnipresenti, soprattutto la televisione, capaci di segnare i ritmi della giornata.
Così avremo “il chiasso della televisione” in sottofondo e l’orario del riposo notturno segnato dal palinsesto televisivo e quiz che regalano cifre milionarie. Avremo telegiornali che spettacolarizzano il dolore e lo divulgano come un qualsiasi altro prodotto, programmi d’intrattenimento falsamente liberanti, che di fatto finiscono per inaridire o anestetizzare lo spirito.
Su questi fenomeni della società capitalistica si sofferma lo sguardo sdegnato e dolente dell’autore: “La forza lavoro, alle sette di sera, nell’intrattenimento ritrova la sua libertà” (p. 26).
I media con la loro invadenza e la pretesa di decretare l’assoluta verità sono anche gli strumenti usati dalla politica, ormai priva di etica, per manipolare le coscienze.
È inquietante l’immagine di un fantomatico quanto disumano Presidente che occhieggia dal televisore “all’infinito, che proclama irregolari i parallelepipedi contrari alla sua tetra idea perfetta” (p. 37).
La desolazione dell’Autore di fronte a tutto ciò è grande:
“Vedo svanire l’amore per la vita della mia giovinezza, due tulipani selvatici che si rinserrano in se stessi, durante la sua conferenza al mondo” (p. 38).
Estraneità a queste logiche e a questi poteri trasuda dalle pagine di Karlsen, vi è il rifiuto di queste aberrazioni e aspirazione a una politica nuova, che sappia porre le basi per uno sviluppo maggiormente attento all’uomo e al suo valore.
“Dimenticata humanitas, figlia nostra, / di mezzo alla bestia e alle intelligenze / artificiali. Dovremmo tornare a essere uomini” (p. 39).
Lo sguardo sull’Italia è implacabile quanto sofferto.
Il nostro paese è uno “stivale accartocciato sconvolto” (p. 11), così viene definito fin dalla prima poesia. Nessuna etica, nessun ritegno nella condotta politica, dominata solo dalla brama di potere e dal culto dell’immagine, dell’apparenza mediatica: “l’Italia è uno scoglio dove / si squaglia a banchi il cerone; contrada / dei trastulli, delle paraboliche in fiore, / delle banane illiberali in corteo. A te / consegnerò un astro nuovo, ove le foche / stenteranno in pace: e non ci sarà / più traccia di corrotte entità umane” (p. 36).
La desolazione è tale da condurre a una ricorrente metafora: la sterilità, che è rifiuto di procreare per non disseminare altro dolore e si concretizza nell’immagine della madre mancata.
Il benessere offre innumerevoli vantaggi materiali, ma allontana l’uomo da se stesso e dalla natura e quindi inaridisce, isterilisce, sazia mostruosamente e obnubila la mente.
Karlsen sembra lanciarci un segnale d’allarme, il suo non è però un rifiuto aprioristico o un rifugiarsi in un vagheggiato quanto inesistente stato di natura, ma un grido di sdegno e di sofferenza per ciò che il suo occhio attento coglie nella realtà.
Direttamente connesso alla contemporaneità è anche lo sviluppo tecnologico, che comporta l’uso di un linguaggio a se stante – spesso importato – un gergo tecnico, generalmente abbreviato, che l’Autore sembra aborrire e al quale si sente del tutto estraneo.
Le intelligenze artificiali impongono i loro ritmi accelerati, ma non sono infallibili ed è con innegabile compiacimento che Karlsen nota il “software failure” di un sistema oppure sottolinea l’obbedienza ottusa delle macchine, all’apparenza onnipotenti, onnipresenti, ossessive.
In opposizione ai ritmi frenetici della comunicazione virtuale, si snodano queste poesie e riflessioni, non sincopate, ma calme e dal respiro quieto.
È un desiderio di ritrovare pause e silenzi, un ritmo equilibrato del vivere, dove sia la tecnologia a servizio dell’uomo e del suo benessere e non viceversa.
In questa dimensione si colloca il secondo tema ispiratore della raccolta: quella vena personale e intimista, un poco gozzaniana, costituita da piccole cose, gesti minimi e usuali.
Ecco allora che lavarsi, lavare i piatti divengono atti importanti, costituiscono un riappropriarsi dei propri ritmi vitali, della propria intimità, di una lentezza e ripetitività altrimenti negate.
È la già osservata “immortalità del gesto minimo”, è anche momento di solitudine: “cercavi aderenza a te stesso / frizionavi, detergevi, sciacquavi via: / splendente lastra di marmo / nel mezzo di un deserto” (p. 34). È ritrovarsi.
Non vuol essere sterile rifugio in una dimensione minimalista privata, bensì attimo di respiro, tregua necessaria per affrontare poi l’impegno di denuncia e le sue difficoltà. Sembrano un nulla questi gesti, ma “Il niente è la parola della poesia, tutto” (p. 46).
Rilanciare il gesto minimo è in fondo un atto alternativo di fronte a tanta, troppa roboante retorica mediatica, è ritornare ad un’essenzialità dell’esistere, ad una sua “magrezza” che ben si contrappone all’obesità dilagante.
Fiorisce da piccoli gesti e fraterne attenzioni anche l’amicizia, grande cardine dell’esistenza, pilastro fondamentale imprescindibile.
A questo valore l’intera raccolta è dedicata, quale sorgente di forza, sodalizio fraterno, caposaldo che, insieme all’amore, consente di affrontare le difficoltà del vivere. Amicizia di lunga data, “amicizia concreta, / convissuta che ebbi bambino, l’altroieri / con te”; “la nostra Amicizia trascorsa, e quella / che ancora è lì dal venire” (p. 63).
Amicizia aperta al futuro e agli ideali nuovi che insieme si possono costruire.
Amicizia che è fratellanza, legame profondo, sollecitudine verso l’altro, attenzione, comprensione “e con me, amico / di sempre sai che è sempre bastato / uno sguardo, solo una stretta di mano” (p. 15).
Amicizia che è accoglienza dell’altro nella sua sofferenza: “Mai ti eri liberato da chi, da cosa / da tutto ciò che non sei e sempre / dicevi a te stesso di essere” (p. 15)
Amicizia è salvazione e bellezza : “Volto franco d’impaurita / bellezza”.
Una menzione a parte meritano l’ultima prosa e l’ultima poesia della raccolta.
La prosa “Il posto di blocco” è un vero racconto sulla Resistenza, dallo stile sorvegliatissimo ed elegante. Il testo compie un autentico balzo all’indietro nella Storia, creando così un voluto contrasto. Si tratta di una prosa di memoria, quasi un’ammonizione a non dimenticare il passato e ciò che può insegnarci.
In chiusura vi è invece una lirica dedicata a Trieste, città dell’Autore, città letteraria per definizione ormai divenuta “poco o nulla”, eppure trasudante ricordi storici (l’esodo di Pola, gli impiccati dai tedeschi), “aggrottata dai rimorsi”, “sonnolenta e scondita”, ma comunque amata.
Articolo apparso su lankelot.eu nel luglio 2006
Edizione esaminata e brevi note
Patrick Karlsen (Genova, 1978) storico e poeta italiano.
Patrick Karlsen, “Postnovecento”, Edizioni del Catalogo, Roma 2005.
Prefazione di Gianfranco Franchi.
L’edizione è essenziale, ma raffinata nella grafica e nella cura dei dettagli.
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