Molti anni dopo “Se questo è un uomo” – uscito per la prima volta nel 1947 – Levi riaffronta il tema del lager con un saggio, non un libro di memorie, ma un’analisi spietatamente lucida e precisa dell’universo concentrazionario.
Più si prosegue nella lettura e più si scende nelle tenebre e nel dolore, che vengono sezionati pur essendo ormai decantati dallo scorrere del tempo, che non ha tolto chiarezza all’Autore.
La grande consapevolezza acquisita tanti anni dopo l’esperienza della deportazione ad Auschwitz è che i veri testimoni del lager non sono i sopravvissuti –come Levi stesso – ma i “sommersi”, coloro che non sono tornati e che davvero hanno raggiunto il fondo dell’orrore, ma non possono tornare per raccontarlo.
“Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i «mussulmani», i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione”. (p.64)
È come se Levi, nello scrivere questo libro terribile e necessario sentisse su di sé la presenza delle vittime, dei «mussulmani» che gli delegano il compito di parlare. Essi, anche volendo, non avrebbero potuto farlo, perché la loro morte era cominciata ben prima di quella fisica.
Testimoniare dunque – e questo fece sempre Levi per tutta la sua vita, incontrando spesso i giovani nelle scuole – affinchè la memoria non vada perduta, raccontare per esorcizzare il dolore, ma anche per rendere giustizia a coloro che sono spariti nella fornace e le cui ceneri sono state disperse nel vento.
Nel’acutissimo saggio di Levi, sua opera ultima prima del suicidio, emergono alcune tematiche fondamentali che l’Autore affronta da diversi punti di vista.
Linee guida sono la memoria e il problema verità/menzogna.
Uno degli incubi ricorrenti dei prigionieri era quello del raccontare la loro storia e del non venire creduti proprio per l’enormintà dei fatti narrati. Su questo rifiuto contavano gli stessi aguzzini che, com’è noto, fecero di tutto per distruggere le prove della loro opera (i crematori furono fatti esplodere, gli archivi dei lager vennero bruciati negli ultimi giorni di guerra). Entrambe le parti erano dunque consapevoli che quanto era avvenuto sarebbe risultato incredibile per la sua enormità e spietatezza.
La verità o non viene enunciata o si finge d’ignorarla o, se pronunciata, non risulta credibile.
Levi dimostra la presenza di una serie di connivenze, complicità, interessi economici ruotanti attorno all’universo concentrazionario: molti sapevano – si pensi alle industrie cui furono commissionati crematori o alle aumentate richieste di veleno per le camere a gas – o avevano dubbi, ma tacquero per i motivi più svariati: viltà, paura, interessi, desiderio di non vedere e di non sapere, al limite fanatismo nazista.
Le stesse memorie dei superstiti possono essere viziate dal globale senso di isolamento, dallo sradicamento da qualsiasi contatto con la realtà esterna in cui piombavano una volta entrati nel lager, questa situazione li faceva sopravvivere in un’atmosfera di oscura minaccia.
Erano inoltre gravati dal lavoro e dalla lotta per le più elementari necessità quotidiane.
Le domande essenziali che Levi si pone all’inizio sono: quanto di quel mondo è morto e non ritornerà più e quanto invece può tornare? E che cosa ciascuno può fare perché non vi sia questa possibilità?
Su un argomento scomodo come quello del lager Levi rivela un intrecciarsi di verità/menzogna nella stessa memoria umana che lo tramanda e questo sia dalla parte dei carnefici che delle vittime.
I persecutori spesso si sono fabbricati una loro realtà di comodo e, ripetendosela, hanno finito per crederci.
“Il passato è loro di peso; provano ripugnanza per le cose fatte o subite, e tendono a sostituirle con altre. La sostituzione può cominciare in piena consapevolezza, con uno scenario inventato, mendace, restaurato, ma meno penoso di quello reale; ripetendone la descrizione, ad altri ma anche a se stessi, la distinzione fra vero e falso perde progressivamente i contorni, e l’uomo finisce col credere pienamente al racconto che ha fatto così spesso e che ancora continua a fare, limandone e ritoccandone qua e là i dettagli meno credibili, o fra loro incongruenti, o incompatibili con il quadro degli eventi acquisiti: la mala fede iniziale è diventata buona fede”. (p.16)
Ricordi deformati, rimossi, mistificati perché scomodi, tormentosi o fastidiosi, le stesse vittime possono poi favoleggiare sui loro cari spariti nel nulla, credendoli vivi, ma impossibilitati a comunicare o smemorati, tutto pur non immaginarli inceneriti insieme a milioni di altri.
Il tema della memoria è ossessivo e mette in discussione, a questo punto, anche il libro di Levi, ma qui egli dichiara di volersi soffermare soprattutto sullo stato delle cose com’è oggi che non sui ricordi, inoltre i suoi dati sono arricchiti dallla letteratura sorta sul tema dell’uomo sommerso o salvato.
L’universo concentrazionario non è dunque così semplice da descrivere e da comprendere, le distinzioni schematiche buoni/cattivi, bene/male non sono sempre così nette e Levi tende a una comprensione non semplificata dei fatti, mostrandoceli da diversi punti di vista.
Altissima è la capacità di analisi del comportamento umano, unita ad una tragica consapevolezza di quale immensa mole di dolore l’essere umano sia in grado di procurare ai propri simili. Aleggia il senso di sfiducia di chi ha visto l’abisso, anche se non fino in fondo.
Proprio per dimostrare come fosse variegato il mondo del lager Levi analizza per prima la “zona grigia”, quella dai comportamenti intermedi verso i quali l’Autore sospende il giudizio. Si tratta di quello spazio tra vittime e carnefici che non è affatto vuoto (e non solo nei lager nazisti), ma è popolato da varie figure indispensabili per conoscere la specie umana secondo Levi.
Viene così presentata una fauna assai variegata che pur di sopravvivere, per un po’ di cibo o per desiderio di potere, frustrazione, sadismo o per mille altri motivi si presta alle azioni più turpi e diviene carnefice dei suoi simili.
La zona grigia è complicata e confonde il nostro bisogno di giudizio.
“Deve essere chiaro che la massima colpa pesa sul sistema, sulla struttura stessa dello Stato totalitario; il concorso alla colpa da parte dei singoli collaboratori grandi e piccoli (mai simpatici, mai trasparenti!) è sempre difficile da valutare. È un giudizio che vorremmo affidare soltanto a chi si è trovato in circostanze simili, ed ha avuto modo di verificare su se stesso che cosa significa agire in stato di costrizione”. (p.30)
Si passa così dai Kapos (termine tedesco; la pronuncia tronca, introdotta dai prigionieri francesi su diffuse solo molto più tardi grazie al film omonimo di Pontecorvo) ai vari “impiegati” del lager che avevano qualche privilegio e sopravvivevano di più (lo stesso Levi, quale chimico, si salvò dai lavori peggiori), ma spesso usavano la loro posizione per aiutare i compagni.
Essenziale per l’Autore è non confondere vittime e carnefici.
“….so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità. […] ..confondere i due ruoli significa voler mistificare dalle basi il nostro bisogno di giustizia” (p.35)
Un caso limite – e davvero terribile – è quello dei Sonderkommandos o Squadre Speciali, cioè quei grupppi di ebrei addetti alla gestione dei crematori. Sopravvivevano qualche mese in più poi venivano uccisi in modi sempre diversi e cremati dalla squadra subentrante. Si tratta di una delle invenzioni più diaboliche del nazionalsocialismo e, il solo venirne a conoscenza, è inquietante e desolante.
“Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli. Si prova la tentazione di torcere il viso e distogliere la mente: è una tentazione a cui ci si deve opporre”. (p.39)
La vita del lager muta tutti i parametri e i codici morali di riferimento – si ruba, si diventa mostruosamente egoisti per sopravvivere – ed è perfettamente organizzata per far regredire l’essere umano a livello animalesco. È chiaro che, una volta liberati, i prigionieri provino un senso di vergogna riacquistando poco a poco consapevolezza del proprio stato e di quanto è accaduto, vivendo terribili sensi di colpa: per essere sopravvissuti, per azioni compiute o per omissioni di soccorso. Levi non manca di costellare il testo di ricordi personali filtrati dallo scorrere del tempo, ma molto nitidi e lucidi. Vivissima l’irrevocabilità di quanto accaduto, l’incancellabilità assoluta del male, per cui Levi non si sente propenso a perdonare perché “non conosco atti umani che possano cancellare una colpa”.(p.110)
Un terzo grande motivo del saggio è il problema della comunicazione dei fatti. Levi sottolinea la necessità e la possibilità di comunicare quanto successo, ma descrive anche l’incomunicabilità che regnava nel babelico universo concentrazionario, dove si ritrovano spaesate e stremate persone provenienti da tutta Europa, costrette ad obbedire a ordini urlati esclusivamente in tedesco, lingua che molti non conoscevano. Per sopravvivere era fondamentale trovare subito qualcuno con cui poter comunicare per appropriarsi delle regole del luogo e capire come orientarsi. Levi osserva che lo stesso linguaggio veniva violentato nei campi di concentramento, esisteva il lagerjargon, diviso in sottogerghi, differenti per ogni campo.
La deformazione linguistica era però solo uno degli svariatissimi esempi di violenza inutile e soprattutto sproporzionata rispetto allo scopo che sistematicamente veniva applicata dal regime nazista.
Levi ricorda le Fosse Ardeatine, Marzabotto e altri paesi travolti dalle rappresaglie, ma anche fatti meno appariscenti: nel suo stesso vagone piombato vennero infatti caricati tutti gli ospiti della casa di riposo del Ghetto di Venezia, comprese due vecchiette novantenni moribonde. La crudeltà fu fine a se stessa, inutile, causata da un’innumerevole serie di negligenze volute, atte a trasformare il prima possibile i prigionieri in animali più facilmente macellabili.
“Non credo che questa trasformazione sia stata mai progettata né formulata in chiaro, a nessun livello della gerarchia nazista, in nessun documento, in nessuna «riunione di lavoro». Era una conseguenza logica del sistema: un regime disumano diffonde ed estende la sua disumanità in tutte le direzioni, anche e specialmente verso il basso; a meno di resistenze e di tempre eccezionali, corrompe anche le sue vittime ed i suoi oppositori”. (p.89)
Levi non manca di sottolineare molti dettagli, molti piccoli gesti volti a causare la massima sofferenza fisica e morale, a ridurre alla più completa abiezione i prigionieri, che dovevano morire con l’aggravante del tormento.
Neppure la condizione d’intellettuali (Levi fa riferimento soprattutto al suo rapporto con Hans Mayer alias Jean Amery, filosofo suicida e teorico del suicidio) offriva qualche vantaggio, se non estremamente temporaneo.
“La ragione, l’arte, la poesia, non aiutano a decifrare il luogo da cui esse sono state bandite. Nella vita quotidiana di «laggiù», fatta di noia trapunta di orrore, era salutare dimenticarle, allo stesso modo come era salutare imparare a dimenticare la casa e la famigllia; non intendo parlare di un oblio definitivo, di cui del resto nessuno è capace, ma di una relegazione in quel solaio della memoria dove si accumula il materiale che ingombra, e che per la vita di tutti i giorni non serve più”. (p115)
In genere gli uomini più semplici, abituati alle fatiche fisiche e a non porsi troppe domande s’inserivano meglio, ferme restando poi le infinite varianti individuali. Abituato da sempre a diffondere la sua testimonianza, Levi rivisita le domande più frequenti che gli vengono fatte nei suoi incontri col pubblico, distruggendo certi stereotipi assai radicati e in chiusura riporta alcuni suoi scambi epistolari con tedeschi, iniziati in occasione della traduzione (1959) nella loro lingua del libro. Il grande timore che traspare è che il tempo cancelli o alteri la memoria di quanto accaduto, si rischia la semplificazione o lo stereotipo e si tratta di una “difficoltà o incapacità di percepire le esperienze altrui, che è tanto più pronunciata quanto più queste sono lontane dalle nostre nel tempo, nello spazio o nella qualità. […]
È compito dello storico scavalcare questa spaccatura, che è tanto più ampia quanto più tempo è trascorso dagli eventi studiati.” (p.128)
La conclusione di Levi non è affatto tranquillizzante riguardo al genere umano.
“È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto. […] Occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono «belle parole» non sostenute da buone ragioni”. (p.164)
Ad un ultimo quesito infine Levi cerca di dare una risposta: chi erano gli “aguzzini”, di che tempra erano fatti?
Erano “della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male”. (pp.166-67).
Levi evidenzia come sia pressocché illimitato il potere di educazione, propaganda e informazione in un regime totalitario e come sia quindi possibile manipolare l’opinione pubblica, appiattirla e istupidirla come accadde ai tedeschi che accettarono e seguirono il loro Fuhrer (per orgoglio nazionale, pigrizia mentale, stupidità, calcolo miope).
Insieme a “Se questo è un uomo”, “I sommersi e i salvati” è un testo imprescindibile, da far conoscere ai giovani. Per non dimenticare.
Articolo apparso su lankelot.eu nel giugno 2006
Edizione esaminata e brevi note
Primo Levi (Torino 1919- ivi 1987), scrittore italiano.
Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi 1991.
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