Bonnefoy Yves

Rimbaud. Speranza e lucidità

Pubblicato il: 13 Settembre 2016

Nell’analizzare un poeta come Rimbaud, il compito del critico è più che mai arduo e non si tratta solo di una questione legata all’ermeneutica dei testi. Bonnefoy lo sa bene, in questo libro “Rimbaud. Speranza e lucidità”,  che raccoglie quasi mezzo secolo di studi da lui dedicati a colui che Verlaine ribattezzò  “l’uomo dalle suole di vento”. Troppa mitologia, toppa leggenda, come una patina opaca e diabolica, si sono, infatti, incrostate sulla figura di Rimbaud. La sua opera rischia così di rimanere muta, soffocata da considerazioni che poco hanno a che fare con la letteratura e molto con il mito, soprattutto oggi che all’autore non si chiede di scrivere ma di diventare un personaggio, con tutto ciò che questo comporta.

Così Bonnefoy compie un gesto di pulizia e con la sua scrittura di incomparabile difficoltà e acutezza dissolve molti dei fantasmi che si frappongono fra noi e l’opera di Rimbaud, di cui individua due polarità, speranza e lucidità, che diventano il sottotitolo di questa bella e necessaria edizione italiana, tradotta e curata per Donzelli da Fabio Scotto nel 2010 e arricchita da una postfazione di Gabriella Caramore.

Il titolo originale “Notre besoin de Rimbaud” ribadisce la centralità che questo poeta ha avuto nella vita di Bonnefoy e più in generale nella cultura mondiale. Centralità che fa di Rimbaud per alcuni l’iniziatore, il capostipite della poesia moderna. Chi scrive condivide questo assunto e trova nelle parole di Bonnefoy la forza critica necessaria più che mai a ridare linfa a un’idea della letteratura come campo di battaglia di forze contrastanti: la guerra che Rimbaud condusse contro i millenari stereotipi culturali e linguistici, contro le banalità che anestetizzano il pensiero, fu terribile e senza sconti. Che per un’operazione del genere si rischi la follia è indubbio ma la posta in gioco era per Rimbaud altissima, “salvarsi l’anima”, non cristianamente,  perché Cristo è solo un “ladro di energie” ma nella ricerca di un’episteme tragica che vuole diventare azione, ripensamento supremo dell’essere e della vita.

Bonnefoy riconosce che Rimbaud si è giocato tutto se stesso nella ricerca di una parola che ci restituisse integro il senso del reale, e ci conferma riga dopo riga di questo saggio quanto sia spossante il tirocinio che un poeta deve compiere per diventare tale, quali tensioni debba affrontare, quante contraddizioni respirare. Rimbaud compì un lavoro su se stesso spossante alla ricerca di una chiave che ci permettesse di accedere ai festini antichi, in cui l’essere fosse restituito a se stesso  e l’unità del reale ristabilita.

La carità è questa chiave” scriverà Rimbaud, salvo aggiungere “Questa ispirazione prova che ho sognato“. E qui la speranza  di una fratellanza primigenia, espressa dal termine carità, s’infrange contro lo scoglio di una lucidità insonne, spasmodica, realmente moderna nel riconoscere, vedremo quanto per ragioni intime e biografiche, i “deserti d’amore”. In Rimbaud, adolescente e pagano, tutto assume i connotati di un parossismo: l’anima sconvolta desidera il Natale  perenne sulla terra, s’apparenta agli umili, agli ultimi, ai dannati.  Rimbaud  stesso si definisce  di “razza inferiore dal profondo dell’eternità.” Questa voce sembra dunque sorgere dagli abissi dell’odio di sé.

Bonnefoy riconosce inevitabilmente l’importanza di alcuni dati biografici: alla base del conflitto col reale e con se stesso ci sarebbe la personalità della madre, Vitalie Cuif, fredda, arcigna, devota a un culto del “dover essere” borghese, madre che dilagò nell’assenza di un padre (che abbandonò Vitalie  quando Arthur Rimbaud aveva 5-6 anni); donna scostante, forse anaffettiva, attratta patologicamente dalla morte, tanto che, racconta Bonnefoy, si fece calare nella tomba di famiglia fra i due figli morti (fra cui Arthur), inscenando la propria sepoltura.

Bonnefoy insiste su Vitalie, perché considera la figura materna l’artefice involontaria di una vocazione  alla  poesia che può anche spaventare nella radicalità con cui Arthur Rimbaud la espresse. La madre è quella creatura arida, sottomessa alla legge dell’apparire, che privò Rimbaud dell’amore necessario a esistere e lo condannò a una vana e disperata ricerca di quello stesso amore. Di questa privazione  originaria e insanabile l’opera di Rimbaud  è drammatica testimonianza. Ma per Bonnefoy le cose non stanno solo così, sono più sottili ancora: la madre è colei che custodisce l’essere stesso della sua vocazione poetica, della vocazione poetica di chiunque. Centralità della madre nel generare la parola. Indubbiamente però Vitalie Cuif fu la “parente abusiva che compare nelle biografie di tutti i pensatori maledetti” come scrisse Deleuze nel suo saggio su Nietzsche, cito a memoria, ma quanto più incisiva per questo motivo  fu allora sulla psiche del figlio.

Questa ferita originaria del disamore si riprodusse in tutta l’opera di Rimbaud, stigmate di un’impossibilita di accedere alla “vera vita”, che per lui diverrà un alchimistico costrutto di versi fra i più mirabili della sua epoca. A cui, dopo la parentesi londinese con Verlaine, feconda ma anche deludente, seguirà il duro servaggio del lavoro di mercante nei suoi anni in Africa a sancire un’ulteriore rottura, quella con la scrittura, l’abbandono della poesia alla spazzatura delle cose dimenticate. Questa, però, è una resa, resa a quella chiaroveggenza arida, forse mutuata dalla madre chissà, che gli farà rompere con i lucidi incantesimi di cui aveva costellato la sua adolescenza geniale.

Fra speranza e lucidità, cioè fra il desiderio di essere amato e la vanità di questo sforzo, oscilla la psiche di questo poeta così definitivo e radicale, più che mai vivo e operante, in questo magnifico saggio di Yves Bonnefoy.

Si tratta di rovesciare forme codificate, valori consumati ma spesso vissuti come onnipotenti, distillando un linguaggio che dica la vertigine di una lucidità che, se accede alla visione, lo fa per ampliare lo spettro della nostre possibilità razionali. Nella poesia Rimbaud si getta a riconsiderare Il senso del reale, sogna di  modificare la vita, l’amore, la percezione, la propria soggettività già vicina a dissolversi nell’anonimato della città moderna, di cui proprio Rimbaud  fu uno degli interpreti più lucidi e spietati. Ancora oggi noi non possiamo pensare alla città moderna e industriale,  senza la sua mediazione. Ma Bonnefoy non dimentica che Rimbaud ha vissuto la sua infanzia a Charleville, cittadina di una provincia anonima, grigia e scialba, dove una certa ottusità borghese soffocava gli aneliti della sua  anima di giovane ribelle, insofferente anche verso le chiusure materne. Provincia avvelenata in cui il suo oceanico desiderio di una palingenesi rivoluzionaria della società era sprecato, vanificato. Serrato così fra la rigidità materna e il provincialismo piccolo borghese, l’anima di Rimbaud era ulcerata da contraddizioni insanabili, che nell’opera acquistano risonanze imprevedibili.

L’odio di sé, come già accennato, è uno dei frutti di questo percorso fra i frantumi del reale, un dato certamente decisivo, e affiora in più punti trasformandosi facilmente in aggressione verbale verso un mondo disistimato, freddo e incomprensibile: inferno cittadino attraversato dai fremiti di un’anima che, se stringe la “rugosa realtà”, si trova fra le mani proprio il proverbiale pugno di mosche, covando perciò la rabbia di chi si considera escluso. Rimbaud si sente un pagano, un barbaro, un bruto, cui le dolcezze d’amore sono negate. Egli cerca comunione con gli altri ma non la trova. Questa esclusione, questo sradicamento ci rende ancora oggi  vicino un poeta dell’Ottocento, la cui opera è una ferita ancora viva  e pulsante nel tessuto della letteratura.

È la provocatoria modernità di Rimbaud che già Henry Miller aveva individuato come ragione della sua forza e della sua attualità di icona dello smarrimento. Camus vide in lui la perfetta immagine dell’uomo in rivolta, colui che ha fornito a essa il linguaggio più esatto. Bonnefoy dal canto suo, come già visto,  insiste molto sulla lotta che si radicalizzò nel suo spirito, fra speranza, di riconquistare l’Eden, di ricomporre la frattura con il reale da cui è escluso, e la lucidità di chi sa vano ogni sforzo, e impreca. La speranza è un fuoco che però non si spegne, speranza di riconquistare l’amore, di reinventarlo, di rientrare nell’esistenza che lo espelle. Baudelaire è la sua guida ideale, “un vero dio” e se egli non loda la forma delle poesie del maestro, è perché è condannato a un gesto di reinvenzione costante e profonda di  quelle stesse forme. Fine della poesia soggettiva, per una nuova vertiginosa oggettività .

Rimbaud e la sua opera si fondono. Strana fatalità: “Da questo libro dipende il mio destino” dirà di Una stagione in inferno. Anche per questo egli rimane un faro di consapevolezza nel buio della nostra epoca, avara di destino, e pressoché priva di questa passione per la parola che, se rasenta la follia, è scintilla del genio che dona al mondo tutto se stesso, sapendo di porre al mondo inquietanti interrogativi.

Rimbaud ha sperimentato,  nella carne e nello spirito, l’esattezza di questa frase di Bonnefoy, perfetta per suggellarne l’avventura: “La contraddizione è la fatalità del reale.”

L’inevitabile scacco di Rimbaud, il suo fallimento, il suo infrangersi contro lo scoglio di una impossibilità, sono anche i nostri. Egli nelle parole di Bonnefoy ci impone un “confronto tragico con l’assoluto” per vincere le condizione di esiliati dall’Eden, per tornare alla condizione primitiva di figli del sole. E lo fa in nome della libertà, le cui ali sono però “speranze bruciate” . “La vera vita è assente”. Così il messaggio di Rimbaud continua a interrogarci. Quanto a Bonnefoy, provvidenziale questo incontro, ammiriamo la stupenda –  e  stupendamente vera – conclusione di uno dei saggi che compongono il libro:

“Decidiamo semmai che Una stagione in inferno è una di quelle bottiglie in mare che finiscono per trovare un lido. Facciamo in modo di pensare così l’atto di fede che dobbiamo a chi ha saputo, egli in primo luogo, di compierne uno, rivelando che la poesia è innanzitutto questo, o meglio non è nient’altro.”

Edizione esaminata e brevi note

Yves Bonnefoy (Tours,  1923 – Parigi, 2016) è stato un poeta, critico, traduttore. Ha pubblicato numerose opere di versi, traduzioni, prose, saggi sull’arte e sulla letteratura. Fra le opere poetiche  pubblicate in Italia ricordiamo: “Movimento e immobilità di Douve”, 1953; “Ieri deserto regnante”, 1958; “Pietra scritta”, 1965; “Nell’insidia della soglia”, 1975;  “Quel che fu senza luce”, 1987; “Qui dove ricade la freccia, 1991”; “Inizio e fine della neve”, 1991; “La vita errante”, 1993; “Le assi curve”, 2001;La lunga catena dell’àncora”, 2008; ”L’ora presente”, 2015.  È considerato fra i massimi poeti in lingua francese del nostro tempo.

Yves Bonnefoy, Rimbaud. Speranza e lucidità, traduzione e cura Fabio Scotto, postfazione Gabriella Caramore, Donzelli Editore 2010

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Lankenauta, settembre 2016, Ettore Fobo. Quest’articolo è stato originariamente pubblicato sul blog Strani giorni il 20 febbraio 2016.