Lucio Fulci, abile incursore tra i generi cinematografici più disparati, dopo essersi cimentato quasi esclusivamente in commedie, approda allo spaghetti western nel 1966, con Le colt cantarono la morte… e fu tempo di massacro. Fu un ottimo successo di pubblico, cui comunque fece seguire altre commedie, prima di accostarsi al genere per il quale è più noto: il thriller/horror. Ma gli spaghetti western tornarono, a qualche anno di distanza, andando a vivificare un genere che andava inevitabilmente incontro al suo canto del cigno. I quattro dell’Apocalisse (1975) e Sella d’argento (1978) sono due film molto differenti, pur appartenendo alla stessa categoria cinematografica; il primo influenzato dal gusto per lo splatter, il secondo fornito di meno visività e quasi sorprendentemente estraneo a sangue e violenza. Tra le tre opere di genere or ora ricordate, la più curiosa ed interessante è decisamente I quattro dell’Apocalisse, film sceneggiato dal bravo Ennio De Concini, che attinge a personaggi e situazioni tratte dai racconti di Francis Brett Harte.
Stubby, uno scaltro baro in cerca di fortuna (Fabio Testi), al suo arrivo in una cittadina del West viene imprigionato dallo sceriffo e si ritrova in cella con tre personaggi al margine, due dei quali assai singolari: un giovane alcolizzato e un afro-americano che afferma di parlare con i morti che gli si manifestano. Con loro anche una ventenne prostituta, che più avanti scopriremo incinta. Lungo la notte del loro forzato soggiorno, gli abitanti della cittadina vengono assassinati da uomini incappucciati. Si salva solo lo sceriffo, rimasto al riparo senza intervenire, degustando la propria cena frugale. Il mattino dopo la tempesta, il tutore della legge, una volta appropriatosi dei soldi che Stubby portava con sé, libera i quattro e li mette su un carro, in assenza di viveri e con scarsa acqua a disposizione. Questa sorta di armata Brancaleone (forse un omaggio, a mio modo vedere assai evidente, al capolavoro di Monicelli), si avventura nel solitario deserto roccioso che lo separava dai più immediati centri abitati, incontrando qualche difficoltà nel tentativo di procacciarsi il minimo di sussistenza necessario. Ma il peggio arriverà in seguito, allorché si unirà al gruppo il nativo Chaco (Tomas Milian), in un primo tempo fintosi smarrito e derubato, per rivelarsi sadico profittatore dei malcapitati viandanti di quelle terre desolate. Dopo aver drogato la compagnia, stuprato la giovane, gambizzato l’alcolizzato e legato sotto il sole cocente Stubby e il visionario afro-americano, Chaco però commette l’errore di non concludere l’opera efferata, non togliendo la vita al baro. Che gli giura eterna vendetta. Tra Stubby e la ragazza sboccia l’amore, temprato dalle circostanze, nonostante i continui malesseri fisici di lei, per gli abusi subiti, e il difficile parto alle porte. Costretti da un violento temporale a rifugiarsi in una città deserta e abbandonata, i quattro diventeranno due: il povero ubriacone muore per la ferita riportata, mentre l’afro-americano sublima la sua follia nell’incontro con gli spiriti dei morti, trovati – a suo dire – nel triste luogo desolato. Ci si avvicina all’epilogo, in cui perderà la vita anche la giovane, dando alla luce un bel bimbo maschio. Ora Stubby è solo, con i suoi fantasmi e il suo dolore, in cerca di colui al quale aveva giurato vendetta. La vendetta non mancherà di aver luogo. Sarà feroce e liberatoria.
Un western atipico per il bravo e sottovalutato regista romano, a suo agio nel metter in scena una storia scanzonata e malinconica che si dilata all’interno di una struttura narrativa che rifugge a più riprese le consuetudini di genere (sparatorie e duelli), per poi esplodere improvvisamente in manifestazioni di violenza efferata. Il corpo centrale dell’opera è lento come la riflessione, si concentra sui volti dei personaggi, quasi a catturarne la profonda difficoltà a sopravvivere in una cornice paesaggistica in cui vince l’assenza. Quattro individui, quattro anime solitarie unite dal destino, si fondono per necessità, per poi ritrovare la singolarità del proprio intimo sentire quando le circostanze si fanno assolute, senza ritorno. La caratterizzazione dei personaggi è ben articolata, il loro tragitto esistenziale sempre più chiaro, allorché il destino sopraggiunge a chieder loro conto di ciò che sono. Emblematico il caso dell’afro-americano, che trova la sua ragion d’essere, il suo ultimo approdo, tra gli immaginati spiriti d’una città perduta.
Evadendo dai facili cliché, Fulci e De Concini disegnano un’opera suggestiva che trova la sua originalità proprio nel distorcere la narrazione classica di genere, senza per questo perdere le caratteristiche care allo spaghetti western, assolutamente imprescindibili per l’epoca. L’effetto splatter, circoscritto ai pochi ma efficacissimi momenti di violenza, non svilisce affatto la congruenza visiva, essendo anzi un plusvalore che controbilancia la stasi apparente, soprattutto laddove lo spettatore sia poco propenso a trovar vicinanza con l’andamento atipico della pellicola. La violenza e il sangue, sempre motivo di controversie nell’opera fulciana, furono anche qui stigmatizzati da chi di dovere, generando la consueta indignazione e il taglio di alcune scene ritenute diseducative e raccapriccianti. La più evidente delle quali vede Tomas Milian appuntare una stella di sceriffo sulla carne viva del malcapitato tutore dell’ordine, oramai morente e costretto a subire sevizie inaudite. Proprio Chaco, il nativo incarnato da Milian, è il più indovinato personaggio del film, cui Fulci regala tratti luciferini ed una crudeltà di spirito che si manifesta a più riprese. A Testi invece va un personaggio silenzioso e introspettivo, affatto in possesso delle stimmate dell’eroe, per ciò stesso credibile nella sua feroce vendetta.
La seconda incursione di Fulci nello spaghetti western è dunque un lungometraggio che palesa la sua complessità, spesso assente nei film di genere, grazie all’aiuto dell’ottima sceneggiatura di De Concini, trovando una misura narrativa che affascinò – e può ancora affascinare – anche gli amanti ortodossi, pur essendo distante dall’epica e il pathos delle pellicole dell’immenso Sergio Leone. Ma non era certo intento del regista romano emulare chicchessia, conoscendo la coerenza interna all’opera fulciana, cosi regalandoci una pellicola originale che non lascia delusi. Da riscoprire e rivalutare, nel ripercorrere la filmografia di una cineasta fin troppo ostracizzato dal tempo che accolse la sua arte.
Federico Magi, maggio 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Lucio Fulci. Soggetto: Francis Brett Harte. Sceneggiatura: Ennio De Concini. Direttore della fotografia: Sergio Salvati. Montaggio: Ornella Micheli. Interpreti principali: Fabio Testi, Lynne Frederick, Tomas Milian, Michael J.Pollard, Harry Baird, Adolfo Lastretti, Bruno Corazzari, Donald O’Brien. Scenografia: Giovanni Natalucci. Costumi: Massimo Lentini. Musica originale: Franco Bixio, Fabio Frizzi, Vince Tempera. Origine: Italia, 1975. Durata: 105 minuti.
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