Valerio Silvia

C’era una volta un presidente – Intervista a Silvia Valerio

Pubblicato il: 28 Dicembre 2016

Per descrivere il pamphlet di Silvia Valerio “C’era una volta un presidente. Ius primae noctis” (Vallecchi, 2010) che fece tanto discutere tempo fa, con incursioni televisive dell’autrice (finite, a mio parere, quasi sempre in disastro) potrebbe bastare il retro di copertina: “Un libro vigile vero veloce. Versatile velenoso vivace. Visionario vibrante violento. Un libro vergine.” Sulla copertina quasi preraffaellita che ritrae l’autrice senza veli non credo ci sia nulla da ridire o forse sì, se ci si scandalizza di fronte a un nudo. E ho scritto potrebbe bastare perché queste 81 pagine hanno un ché di velenoso che scuote la carne e i sensi. Un torrente di virginale purezza dello spirito. Pagine irruenti, con le classiche cadute di un’esordiente (citazioni, contraddizioni, verbosità alcune volte spinta all’eccesso, presunzione adolescenziale alle stelle), ma anche molto divertenti, dove grottesco/satira/digressioni convivono spesso perfettamente, danno vita ad alcune immagini/situazioni/avventure/sfoghi davvero pungenti, persino irritanti nella loro furia gentile che fa a pezzi la scuola, le donne che non sono più donne, gli uomini ridotti a scheletri imbarazzanti, con l’autrice che col sorriso sulle labbra frusta il lettore con chiodi e carezze. Frustate sulle sue certezze, sulla sua schiena, sugli occhi, sulla bocca, sugli organi genitali, sul conformismo mascherato da libertà. Questo pamphlet è come un gorgo entro cui perdersi. Un affronto col sorriso e soprattutto l’affermazione sfrontata di una donna col talento da scrittrice.

Ma a proposito del velo. Scherzi a parte, ci ho riflettuto parecchio. Da che mondo è mondo, è costume di quel paese che le donne lo portino. Da che mondo è mondo, non si sono mai lamentate. Adesso, invece sì. Spinte soprattutto da contatto-contagio con le società altre, che, ormai, i loro costumi li hanno persi senza più speranza di ritrovarli. Finiranno come la maggior parte delle cinesi e delle giapponesi, che vestono ormai perfettamente all’occidentale, mostrando gambe nodose che il buongusto dei loro maggiori aveva per millenni coperto di sete maliarde. Nulla di più intonato, infatti, alla natura della femmina nipponica dei paramenti della geisha! E qui si solleveranno, senza ombra di dubbio, i difensori della dignità femminile, e tutte le virago femministe in circolazione. Tremate tremate, le streghe (nel vero senso estetico della parola, N.d.A.) son tornate. Né streghe né madonne, solo donne – replicheranno allora queste incredibile fan della rima baciata. Donne. Donne? Sono forse donne le manager di piglio che passano la loro vita da un’azienda all’altra, abbruttendosi a forza di viaggi extraeuropei, stress e ansiolitici? Con la pelle tutta grinzosa a forza di lampade ed esposizioni al sole anche quando non ce n’é, la voce rauca fino all’ambiguità, i muscoli guizzanti (comunque mai abbastanza per poter sventare una violenza sessuale), scolpiti in ostinate sessioni settimanali in palestra? Come sono femminili, con quei tailleur e quei ghigni da isteriche grintose! Era quello che volevano, no? La parità tra i sessi – ovvero: oggi faccio io l’uomo e tu la donna.” (pp. 75 -76)

Colpito da questo libretto e affascinante dalla verve della sua autrice ho deciso di intervistarla:

Ciao Silvia, allora, cosa provi a distanza di sei anni a parlare nuovamente del tuo “C’era una volta un Presidente” mentre sei in giro per l’Italia a presentare “Non ci sono innocenti” (Edizioni di Ar) scritto con tua sorella Anna? Un po’ di noia? E riguardando la copertina sei ancora tu o ti sei trasformata, invecchiata, rifatta?

Ciao, Andrea. Tutt’altro che noia, ho impressioni positive. Rimango sempre affezionata a quel piccolo e pestifero primo libro, pur nella consapevolezza che oggi lo scriverei meno duro in alcune sue parti. Quindi mi fa piacere discuterne. Quanto alla copertina, fonti vicine all’autrice affermano che è sempre uguale. Ritocchi? Mi dà fastidio solo il pensiero di modificare in maniera così profonda, intima, il proprio corpo, per poi ritrovarsi zigomi, bocca, seno identici a quelli di moltissime altre donne, e porzioni di plastica tra cellula e cellula… Sono un’innamorata del corpo umano, quando è autentico, naturale: mi piace scoprire i disegni unici che ciascuno di noi si porta addosso, le tracce delle espressioni, le proporzioni armoniche o disarmoniche, anche i difetti. Tutta la nostra storia è scritta sul corpo e trovo che sia molto affascinante tentare di interpretarla. Quello che cerco nelle persone è vita, espressione, unicità, interpretazione: pensa a quanto sono belli certi visi di vecchi che trascolorano di emozione in emozione… Non a caso i giapponesi hanno elaborato diversi concetti di estetica che danno dignità anche all’imperfezione, al vuoto o a una particolare irregolarità come veicolo di significati. Quando le loro tazze di ceramica si scheggiano, colano oro o argento liquido nelle crepe, oppure li usano per saldare i frammenti. Le ferite preziose del kintsugi trasformano i vasi in piccole opere uniche.

Come è nato questo pamphlet? Pensi di aver centrato l’obiettivo? E qual era allora l’obiettivo? Recentemente, parlandone al telefono, mi hai detto che la satira é la tua forma stilistica preferita. Ho qualche ragione nel dire che questa forma rispecchia anche un po’ il tuo carattere?

È nato in un’estate in cui riflettevo sulla mia vita e sulle esperienze della mia generazione, e in cui percepivo una grande ingiustizia in tutto lo stile che veniva propagandato, espressamente o meno, dai media. Inautenticità, scelte obbligate, l’affossamento dei propri veri desideri, una mediocritas poco aurea, l’amore e il sesso deprivati di senso e trasformati in cosa da farsi per non sfigurare di fronte alla società oppure in soluzioni contrattuali. Così, ho scritto tutto quello che mi sgorgava dal cuore, cattiverie comprese. Perché, sì: la satira rispecchia moltissimo un lato del mio carattere, ironico e autoironico, che non disdegna di prendersi a sberle da solo, talvolta. Allo stesso modo, voleva essere una sberla data a fin di bene alla società, alla scuola, ai coetanei, alle generazioni dei genitori, per far sì che si risvegliassero dal sonno lisergico indotto dalla società dei consumi. Dalle reazioni, multiformi, che ci sono state, penso che qualche buon effetto l’abbia sortito. 

Come è stata l’accoglienza della critica e delle persone accanto a te? Se non sbaglio stavi frequentando le scuole medie superiori.

L’ho scritto mentre ero alle superiori ed è stato pubblicato durante il primo anno di università. L’accoglienza è stata varia: qualcuno l’ha letto e recepito entusiasticamente, qualcuno ha confermato l’opinione che aveva di me, qualcuno si è distaccato, qualcuno si è avvicinato proprio in questa circostanza ed è diventato un ottimo amico. 

Cos’é la Verginità? E ha ancora significato parlarne?

È un momento aurorale in cui tutti i tuoi sensi conoscono una tensione fatta di mistero desiderio e timore. Soglia tra la fanciullezza e l’età adulta, fa parte di quei passaggi che hanno sempre affascinato l’uomo da quando ha avuto storia – non a caso, tutte le mitologie e le leggende sacre fanno riferimento a questa fase e alle sue caratteristiche. Credo proprio che si possa continuare a parlarne, in quest’epoca che parla di tutto, e di cose sempre più folli, senza i terrori indotti da un certo tipo di educazione ‘castrante’ e senza l’assenza di bellezza di una visione consumistica della vita.
Al di là dell’aspetto sessuale, c’è poi una verginità dell’anima: quel momento della vita in cui sei distante dai giochi sociali, segui solo i tuoi istinti e li anteponi ai calcoli, alle soluzioni di compromesso. In questo senso, penso che il mondo avrebbe proprio bisogno di una dose di innocenza…
Mi viene in mente una lirica bellissima di una poetessa friulana, Maria Di Gleria Sivilotti:
‘Un giorno solo
i fanciulli
avevano appeso stelle:

era Domenica.

Lunedì mattina
erano già adulti
e si chiedevano
che cosa servissero
in cielo
le costellazioni.’

Nel tuo libro si respirano freschezza, sorrisi, sensualità mescolati a durezza e ferocia. Pensi che possano essere degli ingredienti per combattere la decadenza di questa epoca?

Sì, lo penso. Penso che ci voglia molta vita, creatività, energia, elasticità, e purtroppo (dico purtroppo perché mi dispiace immensamente rendermi conto del fatto che la quantità paghi più della qualità) costanza, resistenza, capacità di attendere. 

E perché Ahmadinejad?

Al tempo, era l’esempio negativo per eccellenza dato in pasto all’italiano medio per certe sue caratteristiche, certe intransigenze, certi orgogli, certe prove di forza e di sobrietà. Era un termine di contrasto perfetto per la nostra penisola confusa e buonista, ma non davvero buona… 

Sei stata additata, almeno a quanto ho potuto verificare, con termini come: una puttanella, una cretina, un’esibizionista, una fascista, una ragazzina alla disperata ricerca di notorietà. Come hai vissuto le critiche e che tipo di critiche ti hanno rivolto? E di apprezzamenti ce ne sono stati?

Ho approcci diversi a seconda delle critiche: non ho problemi ad ascoltare opinioni discordanti rispetto alle mie da parte di persone che credono davvero in quello che dicono. Escludo a priori, invece, le critiche di chi insulta mascherato, dietro la spinta dell’invidia o dell’antipatia gratuita: sono commenti sterili e stupidi, di persone che non si rendono conto di essere le prime vittime del meccanismo, che perdono energia e tempo in cambio di una soddisfazione di pochi secondi. La nostra società ha cavalcato i sentimenti dell’invidia e del risentimento, ha dato modo a ciascuno di avere quella zona sicura in cui può dire qualsiasi cosa su chiunque in qualunque momento. Basta osservare i commenti sotto le interviste di certi attori di Hollywood, delle celebrità, di chiunque si sia discostato dalla vita ordinaria: un concentrato di malvagità che nemmeno all’inferno dantesco. 
E insieme, così facendo, la società ha portato a un enorme depotenziamento dei desideri: quando hai detto/digitato la tua, sei appagato, non cerchi davvero di realizzare qualcosa di buono, di vero, di grande, perché ormai hai esaurito la spinta emotiva, impegnarsi per un’idea sarebbe lungo, difficile; molto meglio uno sfogo istantaneo e tornare alla propria ruota di criceto come ieri e come il giorno prima e quello prima ancora. È come se centinaia di uomini avessero rapporti sessuali sempre con la stessa bambola gonfiabile invece che con donne vere – e continuassero a ritenersi soddisfatti così. Una società illuminata dovrebbe invece cercare di contenere, quando non di estirpare l’invidia, spingere ciascun cittadino a trovare la propria strada di vita, professionale, e a percorrerla al meglio. 
Detto questo, oltre alle critiche che hai ben sintetizzato, ci sono stati apprezzamenti molto gentili: per l’idea del libro, lo stile, gli argomenti. Qualcuno per le calzature che indosso in certe foto…

La Donna del Ventunesimo Secolo cos’è diventata? E il Maschio? Come vivi quest’epoca dei diritti a tutti i costi? Di teorie gender?

In genere, c’è stata un osmosi tra maschile e femminile: la donna media, per condizionamenti storici e sociali, a poco a poco si è trovata ad assumere alcune caratteristiche prettamente maschili, con risultati discutibili, visto che, molto lontane da certi archetipi di donne guerriere, hanno finito per trasformare dentro di sé la forza in isteria, la capacità di prendere l’iniziativa in volgarità, l’indipendenza in nevrosi, la resistenza in abbrutimento.  
Il maschio medio, travolto e sconvolto dai cambiamenti circostanti, bombardato di teorie, inchieste psicologiche sui mensili e film hollywoodiani, ha finito per rifiutare molti aspetti virili.
E più la donna media si altera, più emerge, esasperata, una specie di grottesca femminilità del maschio: è un cane che si morde la coda.
Fatte le debite eccezioni, incarnate da persone libere che si tengono fuori da questi meccanismi, siamo circondati da personalità sempre più nevrotiche, incerte, lunatiche e sempre meno definite. E purtroppo rischiamo che tra non molto, se non ci sarà un’inversione di tendenza, si arrivi a un unico genere informe e debole, privo dei caratteri di energia tipici di una differenziazione. Ecco dunque teorie gender, rifiuti di definizioni e altre sciocchezze di questo tipo. Che possono essere considerate solo sciocchezze finché non vanno a finire nelle scuole…  
Oggi si parla tanto di diritti, certo, ma sempre a senso unico: hai diritto solo a essere o esprimere qualcosa di peggiore, o alterato, rispetto alla media. Non ho nessun interesse a sindacare sulle predilezioni sessuali di qualcuno, ma il diritto obbligato all’ostentazione e a fare proselitismo dei propri gusti intimi è un’altra cosa. Vorrei invece che reclamassimo diritti veri: il diritto a un dibattito culturale sincero; il diritto all’autentica libertà di pensiero; il diritto a una scuola che ti insegni sul serio a vivere; il diritto a un’informazione attendibile, a un’alimentazione sana, a una sanità competente, a una ricerca medica ben organizzata; il diritto, per i più giovani, a un lavoro in linea con i propri studi e i propri talenti; il diritto a vivere nel paese in cui sei nato e alla non-emigrazione; il diritto a fare politica senza dover entrare nel gorgo di nepotismi, interessi e bastardate; il diritto a conservare i legami con la propria famiglia d’origine, senza atomizzarsi. 

Come donna mi sembri anche molto lontana dalle cattolicone del Family Day. Mi ricordi più una sacerdotessa dell’antica Grecia.

Ti ringrazio, non avrei potuto sperare in un complimento migliore!

Seduzione, ballo, bellezza, vergogna, astrologia: cosa sono per te?

Seduzione: un’espressione della pienezza di vita, della capacità di entrare in affinità col mondo. …
Ballo: una delle attività più armoniose e piacevoli per una donna, un’attività fisica che si trasforma in arte, in cui eserciti il corpo mentre entri nella musica e la musica entra in te. 
Bellezza: il lenimento della sofferenza, la pace, la spinta verso la creazione, un carburante, un traguardo, una delle cose per cui vale la pena vivere, un motivo per amare il mondo e per credere ci sia un segreto che lo superi. 
Vergogna: un sentimento che talvolta fa bene provare, anche se oggi è diventata spesso la parola d’ordine facile dei moralisti.
Astrologia: un mistero antico e vertiginoso che ha poco a che fare con gli oroscopi dei giornali, che mi piace studiare e a poco a poco tentare di comprendere. 

Lo rifaresti di andare in televisione? E come giudichi la tua esperienza televisiva?

Sì, ci tornerei. È stato istruttivo: un condensato di umanità e scienza della comunicazione. 

Come è nata la tua passione per la scrittura? La scuola e la famiglia hanno un peso nella tua passione? E come vissero in famiglia questo tuo libro e la tua improvvisa notorietà?

Ho sempre amato leggere e scoprire storie: mi è venuto spontaneo provare a scriverne. Sono stata fortunata ad avere mia sorella Anna, che mi ha fatto respirare prestissimo mitologie classiche e mi ha avvicinata a libri splendidi. La scuola invece non ha contribuito a che sviluppassi come mi sarei aspettata certe tendenze: nozionismo, letture e scritture stereotipate non conciliano le vocazioni di nessuno. Mi è toccato, più che altro, scoprire in modi ‘underground’ autori che poi sono diventati punti di riferimento, cercare esperienze sensate e, sempre in maniera anarchica, studiare quello che desideravo imparare e fare esercizio.
La mia è una famiglia meravigliosamente non convenzionale, formata da persone che hanno caratteri diversissimi, ma accomunati da una speciale libertà di pensiero. Si sono divertiti a leggere il libro e a seguire le avventure di quella stagione. 

Domande sulla scrittura: quanto scrivi al giorno? Hai un metodo?

Avrei un metodo, ma poi cerco di dimenticarmene. Nel senso che ogni tipo di scrittura richiede un’energia e una predisposizione diverse. Ci sono pagine che scrivo di getto, come quelle della satira o di un certo tipo di scrittura lirica, che hanno bisogno solo dei rimaneggiamenti finali (rileggo moltissimo), e pagine che devono depositarsi a poco a poco, con costanza, crescere silenziosamente, riaggiustarsi – e queste sono quelle del romanzo. Pagine che esigono leggerezza e gioia e pagine che vogliono disperazione. Come, nello sport, la corsa di scatto e quella di resistenza presuppongono allenamenti, diete, tecniche differenti. 
Un aspetto che ritengo importante per qualsiasi tipo di scrittura è quello di ricavarsi il tempo di lasciare ‘respirare’ le pagine, un giorno, mezza giornata. Meglio non scrivere troppo. È fondamentale non perdere la dimensione della realtà, per far sì che le parole abbiano il corpo necessario. Dormire, se possibile, decentemente, ed evitare le sessioni lavorative notturne se si vogliono scrivere pagine logiche – in casi diversi, può essere utile anche lo stato di coscienza alterata. Soprattutto se impegnati in un progetto complesso, attenersi alla moderazione, nei più vari ambiti. Infine, mi piace alimentare la scrittura con altri tipi di arte: la musica per il ritmo, la fotografia per le immagini, il cinema per i movimenti. 

Visto che io ci spero, concludo chiedendoti: ci sarà mai un altro pamphlet di Silvia Valerio?

Lo spero proprio anch’io.

Edizione esaminata e brevi note

Silvia Valerio, scrittrice.

Silvia Valerio, “C’era una volta un presidente. Ius primae noctis” (Vallecchi, 2010)

(Articoli già apparsi sul blog wrongand.blogspot.com)