Darby Katy

Il rifugio delle puttane

Pubblicato il: 25 Marzo 2016

Come possiamo leggere in appendice a “The Whore Asylum”, la letteratura vittoriana, in particolare le opere di Wilkie Collins e di Arthur Conan Doyle, è stata ricordata da Katy Darby come “una continua fonte di ispirazione e di piacere”. Una precisazione quasi superflua per un romanzo in gran parte ambientato nell’Inghilterra del 1887 e che, scritto sotto forma di memoriale – anzi, di memoriali – sembra voler imitare il linguaggio austero e misurato dell’epoca. In questo modo l’autrice ha fatto emergere con ancor più evidenza il contrasto tra uno stile che possiamo definire genericamente “classico” e una vicenda costellata di quelle turpitudini e ambiguità che, proprio in era vittoriana, dovevano essere innanzitutto edulcorate e purgate. Un contrasto anche di prospettive: i racconti di Edward Fraser, un tempo studente in teologia pastorale, di Stephen Chapman, giovane medico dedito alla ginecologia patologica, e di Diana Pelham, alias Anna Sadler, sono innanzitutto confessioni che, di pagina in pagina, svelano delle verità inizialmente offuscate dal pregiudizio e dal perbenismo. In questo senso Katy Darby, immergendo il lettore in un’epoca e in situazioni ammorbate da ipocrisia e cinismo, si è dimostrata abile nel disseminare il testo di indizi e di allusioni: premesse per rivelare che Chapman, Fraser, e soprattutto Diana Pelham, non sono proprio come potevano apparire all’inizio del racconto. Il primo a prendere la parola è Edward Fraser, ormai anziano, che ricorda cosa avvenne anni prima tra Oxford e il malfamato sobborgo di Jerico: il futuro professore aveva conosciuto il giovane medico Stephen Chapman e ne era nata una solida amicizia. Un rapporto destinato a vivere delle incomprensioni anche a causa dei rispettivi caratteri: se Chapman era idealista, disinvolto e generoso, sostanzialmente un agnostico dominato da mentalità scientifica, Fraser appariva agli antipodi, prototipo di una società vittoriana bigotta e incapace di comprendere le diversità, comprese le proprie. Incomprensioni destinate a diventare drammatiche quando all’orizzonte appare una certa Diana Pelham: questa donna dal passato oscuro – e dall’aspetto pallido, quasi ad alludere ad un che di vampiresco – ha convinto il medico ad aiutarla nel curare le prostitute di un rifugio dedicato al loro recupero. Una decisione che vede Fraser ostile e preoccupato per la reputazione del suo amico. Ostilità che diventa un’autentica ossessione quando vede Diana Pelham, riconosciuta come la donna che anni prima, con un comportamento che appariva un tradimento a tutti gli effetti, provocò un duello e la morte di un suo amico. Il compito di Fraser diventa quindi quello di rivelare a tutti i costi la verità, o meglio la sua verità, e di smascherare Diana, ormai oggetto dell’amore di Chapman. Il memoriale della donna però svelerà una realtà diversa da quella immaginata fino a quel momento; e alla fine lo stesso Fraser, passati diversi anni, dovrà ammettere i suoi errori; che si sommano a quelli dell’amico dottore e della donna. Il lettore, ormai immerso in un clima gotico e decadente, dove lo squallore dei bassifondi e dello sfruttamento sessuale viene raccontato in stretto rapporto con il sangue e la malattia, verrà a conoscenza che Diana Pelham, ricattata per il suo passato, è stata vittima di un autentico psicopatico e si è salvata a stento. Anche Chapman è vittima nello spirito e nel corpo; e per questa ragione non sarà più in grado di tornare dalla donna. Chiude il cerchio, ancora una volta, Fraser che si è ritrovato quasi ad impersonare una paternità surrogata, testimone delle sue debolezze, di quelle dell’amico e di quelle di Diana – Anna, che un tempo era convinto potesse soltanto trascinare il prossimo nell’abiezione.

Tre memoriali, come abbiamo detto, che rappresentano tre diverse prospettive di personaggi alle prese con pregiudizi talmente profondi da diventare letali. Pregiudizi sociali e morali che chiaramente fanno il paio con ipocrisia e perbenismo. Anche l’amore e l’odio che incatenano i protagonisti del romanzo, e che poi evolveranno in maniera sorprendente, vanno interpretati alla luce dell’Inghilterra vittoriana. Da questo punto di vista gli “indizi” di cui scrivevamo ci riportano all’affetto ossessivo di Fraser nei confronti dell’amico. Frasi come “senza di lui, ero meno della metà di me stesso” (pp.128), oppure “non dico che potrei renderti felice, Diana, solo Stephen poteva riuscirci” (pp.307) fanno pensare a sentimenti che al tempo erano non soltanto inconfessabili ma pure sanzionati penalmente. Di sicuro il titolo “Il rifugio delle puttane”, neppure troppo involgarito rispetto l’originale “The Whore Asylum”, non rende merito a un romanzo che va apprezzato prima per lo stile e poi per un equilibrio, raramente venuto meno, che mette insieme linguaggi apparentemente molto diversi: melodramma, denuncia sociale, macabre atmosfere.

Edizione esaminata e brevi note

Katy Darby, ha studiato lettere a Somerville College, Università di Oxford, e poi Scrittura Creativa all’università di East Anglia, dove ha vinto il David Higham Award. Le sue opere sono state lette alla BBC Radio e ha pubblicato racconti su varie riviste. Insegna scrittura a City University ed è editor della rivista di racconti Litro (www.litro.co.uk).

Katy Darby, “Il rifugio delle puttane”, LiberAria Editrice (collana Phileas Fogg), Bari 2015, pp. 384. Traduzione di Daniela Liucci.

Luca Menichetti. Lankelot, marzo 2016