Durante la lettura di Gli ultimi ragazzi del secolo ho provato interesse, rabbia, divertimento, curiosità, fastidio, disillusione, partecipazione, mi sono trovato a volte in accordo e altre in disaccordo, e non sono poi molti i libri capaci di farmi qualcosa del genere, al di là del piacere o meno che possa aver avuto leggendo. È un romanzo, autobiografico, che invita al confronto, se non proprio al conflitto, fin dalla copertina, con l’immagine di un ragazzino che guarda fuori campo, chissà cosa, con aria di sfida. Ragazzino che, scopre chi è interessato alle immagini che sono sui/nei libri, è proprio l’autore, Alessandro Bertante, che sembra cercare di replicare, da adulto, lo stesso sguardo all’interno della quarta di copertina. Un’altra fotografia mostra il ponte di Mostar. Il sé passato, il sé presente, e in mezzo un ponte. Mentre scrivo mi vengono in mente gli spiriti del Natale di Dickens, e anche se non c’è alcuna somiglianza si fa largo la suggestione che Bertante, come Scrooge (ma in maniera volontaria), sia tornato ad osservare frammenti della sua vita passata per restituirceli.
La narrazione segue, da una parte, l’adolescenza tra fine anni ’70 e anni ’80 del protagonista-autore nella “Milano metropoli degli anni Ottanta” fino alle vacanze greche post-maturità, dall’altra un viaggio estivo con un amico, direzione Sarajevo, alla fine del conflitto nella ex-Jugoslavia. I capitoli alternano l’esperienza della periferia milanese, delle prime droghe, all’improvvisa decisione di intraprendere il viaggio; l’arrivo dell’eroina e le morti giovani all’incontro di truppe militari; le prime scoperte musicali e i centri sociali alla vista di palazzi crollati, di muri con le tracce delle sparatorie; il conflitto con la famiglia e il distacco dal vecchio gruppo di amici alla visione di persone che cercano in ogni modo di andare avanti, resistere mentre tutto intorno è venuto giù; le vacanze e poi l’università, il 1989 e Berlino e le occupazioni alle scene di ragazzi che giocano tra le macerie, si tuffano da ponti nei fiumi in faccia alla morte. Romanzo di fallimenti, generazionali, sociali, personali, e romanzo dell’incomprensione, dell’incapacità di comprendere, della navigazione a vista, dell’accettazione delle distanze. Nel viaggio tra le rovine della guerra si segna il momento che definisce la non comprensione di ciò che avviene in paesi vicino al nostro, mentre nei brani di conflitto tra generazioni si portano alla luce quelle differenze-similitudini che rendono il quadro di una difficoltà ineludibile persino nel dialogo tra chi vive nello stesso paese, solo con età diverse. Significativo a questo proposito come da una parte l’autore rimproveri a quelli del ’68 di raccontare la propria gioventù “come l’ultima autentica primavera occidentale, il luminoso epilogo di una secolare tradizione di lotte e umanesimo positivista” (pag. 51) per poi definire i suoi anni giovanili come “ultima vera espressione identitaria dell’Occidente pacificato e vittorioso, l’orgogliosa rivendicazione di un primato politico e culturale nei confronti del resto del mondo” (pag. 64-65), quasi una sorta di gara testimoniale. La soluzione, se così si può dire, la fornisce lo stesso Bertante quando afferma, ancora a proposito degli anni Ottanta, “Difficile capire quel periodo se non lo si è vissuto” (pag. 60), constatazione che si può allargare ad ogni periodo.
Un libro denso, che ti chiede di partecipare, di fare i conti con te stesso e con gli altri e con le storie e con la storia, anche se sa che non è possibile, osservando, leggendo, toccare fino in fondo le esperienze altrui, che neppure un viaggio basta a sapere, a capire, che anche nella condivisione esiste uno scarto tra le persone e, dunque, non possiamo che sfiorarci appena.
“Abbiamo cercato di capire e non ci siamo riusciti, rimangono dei sospetti ma non possono bastare, non quando tutt’intorno la gente sta ancora cercando di rialzarsi dalle macerie. Abbiamo attraversato le loro città, camminando in ciabatte fra le rovine, indossando braghe corte e bracciali d’argento. Questo sappiamo fare: banalizzare ogni gesto, trasfigurarlo nella dimensione della gita. Adesso torniamo al mare e poi, ancora, saremo in viaggio verso Milano. Torniamo a casa, dentro ai nostri perimetri protetti, confortati dalle certezze materiali che abbiamo ereditato, a ricominciare le nostre piccole resistenze, compromesse dall’esperienza di ciò che abbiamo visto.” (pag. 213)
Edizione esaminata e brevi note
Alessandro Bertante è nato ad Alessandria nel 1969 e vive a Milano. Ha pubblicato i romanzi: Al Diavul (Marsilio, 2008; premio Chianti), Nina dei lupi (Marsilio, 2011; premio Rieti), La magnifica orda (Il Saggiatore, 2012) e Estate crudele (Rizzoli, 2013; premio Margherita Hack).
Alessandro Bertante, Gli ultimi ragazzi del secolo, Giunti, 2016
andrea brancolini, marzo 2016 su lankelot
La pagina del libro sul sito Giunti, dove cliccando sulla copertina è possibile leggere un estratto.
Un’intervista all’autore fatta da Irina Turcanu per il sito sulRomanzo in occasione del Premio Campiello 2016.
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