Morici Claudio

Actarus. La vera storia di un pilota di robot

Pubblicato il: 22 Aprile 2007

“È incredibile quanto si possa essere soli sulla Terra, pensa Actarus. Su Fleed non era così, dopo aver fatto l’amore ti accendevi una sigaretta e cominciavi ad aprire il tuo cuore a piacimento, e subito dopo ti sentivi pieno d’amore e di empatia da annullare ogni barriera, via inutili membrane psicologiche, via riservatezza, via isolamento, via emarginazione, avevi l’impressione di conoscere tutti i membri dell’universo, per nome e cognome, neanche uno poteva essere escluso dal tuo cuore infinito, e allora fermavi una tipa per strada e glielo dicevi e lei era d’accordo e allora giù a scopare a sangue. Altro che sulla Terra”. (p.82)
 
Actarus, eroe riconosciuto, paladino del bene contro il male, idolo dei ragazzini nati nei primi anni Settanta, oramai divenuto icona intergenerazionale, non è quel monolite inscalfibile che tutti pensavamo. Claudio Morici, ex psicologo e terapeuta, alla sua quarta prova letteraria, decide di raccontarci una storia che credevamo di conoscere ma che, forse, non conoscevamo veramente, che non potevamo nemmeno immaginare, visto il protagonista degli eventi narrati. Il pilota di Goldrake, l’indistruttibile robot, colui che, proveniente dalla stella Fleed, attaccata dalle malefiche forze di Vega, trovò rifugio proprio sulla terra. E questo lo sapevamo. Una volta sulla terra, Actarus diventa l’acerrimo nemico della forze di Vega, aiutato da Alcor e Venusia (in realtà anche dalla sorella Maria, da metà serie in poi, ma qui non ce n’è traccia), tutti UNITI agli ordini del dottor Procton. E anche questo lo sapevamo. Quello che non sapevamo ce lo racconta Morici, andando ad indagare la sfera esistenziale di Actarus, frustrato dalla monotonia della sua vita, quasi vinto dall’alcol, sostanzialmente depresso e desideroso di fuggire da una quotidianità senza sussulti: vive solo, in un appartamento senza arredamento, non ha una donna, è costretto a sorbirsi i pistolotti di Alcor, suo unico amico ed ex alcolista. Ai pistolotti di Alcor si aggiungono i monologhi infiniti del dottor Procton sulla pace nel mondo, sulla fratellanza, sulla libertà, sulla necessità di essere tutti UNITI contro il male. Ma sono poi cosi UNITI questi terrestri che combattono Vega? Ad Actarus pare non interessare la questione, ma il lettore si accorge subito del senso di vuoto che si respira in ogni ambiente narrato, una sorta di edonismo-nichilismo-estraneità da tutto (di tutti), coperto da un velo d’apparenza. Non è sufficiente distruggere il male. Ma questo male, cos’è: chi è? Vega? Eppure le truppe terrestri sono accusate dai veganiani di atrocità nei confronti dei loro soldati. Il dottor Procton, il centro di ricerca, Alcor e Venusia sanno delle torture perpetrate ai danni dei veganiani? C’è un mondo in fermento, ma tutti aspirano ad andare su Fleed, paradiso lontano ma accessibile, se si hanno un po’ di ferie arretrate, in cui fratellanza e libero amore sono garantiti. E Actarus? Ad Actarus non frega un cazzo di niente, pare, a parte scolarsi una quarantina di Peroni al giorno; non sopporta i richiami all’UNIONE, vorrebbe prendersi un po’ di ferie, magari tornando alla sua terra natìa. Ma non è facile la vita dell’eroe, Actarus chiede le ferie ma viene messo in mobilità, viene ritenuto non più idoneo a combattere perché consumato dall’alcol e da un misterioso virus. Ma trova l’amore, improvviso, inatteso, anoressico: Roberta, una ragazza che gli apre gli occhi sugli orrori del mondo, una militante pacifista. Eppure, poco prima di lasciar tutto e partir con lei, Actarus scopre un inquietante segreto che lo porrà di fronte ai suoi spettri, ai suoi fantasmi, al senso del suo esistere, della sua vera natura, alla consapevolezza di essere un cartoon.

Satira feroce, corrosiva, acuta, attraverso una scrittura semplice ma allo stesso tempo tagliente, come un’alabarda spaziale. L’Actarus di Morici è un testo che regala emozioni, vivo, allusivo, pieno di sarcastiche considerazioni sottotraccia, nemmeno troppo mascherate per chi vive quotidianamente le controverse dinamiche del presente. Facile fare parallelismi tra veganiani e talebani (o un qualsiasi possibile “stato canaglia”), tra gli “esportatori di democrazia” e coloro che “distruggono il male”. L’apice della satira, del sarcasmo, però, lo troviamo più che altro nelle descrizioni del privato dei personaggi: i dipendenti del centro di ricerca che chattano tutto il giorno, Alcor che sotto l’effetto dell’alcol ha fatto strage di ragazzini, Venusia malata di sesso, i giornalisti che cercano scoop improbabili, un mondo che vive la guerra come uno spettacolo dal quale nemmeno i bambini sono immuni (davvero riuscito il dialogo tra Actarus e il bimbo super informato). È un mondo surreale, quello che ci descrive Morici, tanto surreale da risultare terribilmente verosimile nel fotografare il senso di vuoto, di noncuranza, di relativismo (inteso nell’accezione più negativa del termine) che nel complesso il nostro mondo vive. La solitudine dell’eroe è, in quest’ottica, assai emblematica: anni di battaglie tutte uguali, mai un graffio (se ben ricordate Goldrake era, a differenza di Mazinga o Jeeg Robot, praticamente inscalfibile), un’emozione che vada oltre il consueto “vai distruggi il male vai”. E alla fine pure i monologhi di Procton, rivolto al tramonto o alla notte stellata. Con la musichetta di sottofondo a chiudere la puntata. Sempre la stessa.

Ad un certo punto della storia Actarus è un concentrato di dubbi. Più si estranea dalla routine del suo lavoro di pilota di robot, più comincia a porsi delle questioni rilevanti: il perché di quella musichetta che lo stordisce improvvisamente, per farlo ritrovare altrove e in altre faccende affaccendato; oppure, quella crescente, quando la battaglia si avvicina all’epilogo. Ma c’è anche quella smielata – due palle davvero – quando l’irriducibile filantropo Procton gli parla dei destini del mondo. Perché tutto si ripete ciclicamente? L’eterno ritorno lo logora, gli impone, pur brillo, di interrogarsi. Morici ci svela piano piano la coscienza dell’eroe ottenebrato, ci lascia la sensazione profonda che non sia l’alcol a creare barriere di comprensione in lui ma il modo in cui è stato concepito, programmato, manipolato. Il suo destino, una volta raggiunta la consapevolezza della propria natura, è segnato: l’ultimo paragrafo, l’ultima corsa di Actarus, cerca di ingannare questo destino; vuole vincerlo, o almeno arginarlo, vuol negargli la sua prevedibilità. Vuol farsi beffe di ciò che sembra già scritto, spiazzando, il destino come il lettore, con un gesto per cui sarà difficile trovare la giusta musica di sottofondo.

Morici, trentenne da qualche anno, ci parla, attraverso la tragicomica vicenda del suo protagonista, nostro eroe senza riserva alcuna, di ciò che siamo diventati oggi. Noi dei primi Settanta, tra precariato, inoccupazione, mobilità, frustrazioni, angosce, ansie di rivalsa e di rivolta, sbarramenti continui, voglia di evasione, ricerca dell’arte come rifugio per allontanare un futuro pieno di nebulose. Nebulose simili a quelle di Vega (ricordate che Vega era avvolto da una nebulosa?), che avvolgono tutti i personaggi della narrazione, fantocci nelle mani di un potere che fa e disfa ogni cosa, che si “inventa” l’antagonista – per far stare tutti (UNITI) sulla corda e meglio controllare -, il nemico, il mostro contro cui essere tutti UNITI. E che importa se, per “pura fatalità”, Alcor fa fuori i bambini di un parco per salvare Venusia (vai distruggi il male vai – non a caso è il motto dei tutti UNITI), se il BENE fabbrica prove fasulle per sconfiggere il male, e se il M.A.L.E. fa altrettanto. Paradossi su paradossi: è tutto molto buffo, a pensarci. E poi c’è Actarus, Actarus è una storia a sé, Actarus siamo noi che ci siamo rotti le palle di distruggere il male senza capire se il male reale è proprio quello che, più o meno convintamente, ci dicono di andare a distruggere. Actarus è la coscienza d’una generazione, che sembra uniformata, oramai indebolita, quasi senza speranze, eppure non priva di sussulti, pronta a lottare, se non per un mondo migliore – contro il male, quello vero, quello esistenziale -, almeno per la propria dignità ad esserci.

Morici ci regala un testo che dire originale è poco, da non guardare con sospetto solo perché basato su un cartone animato famoso, da assaporare riga per riga, fino al malinconico epilogo, dopo aver riso di gusto e riso amaro, per una generazione ancora non vinta per la quale Actarus può essere, soprattutto dopo questo libro, un simbolo più reale di tanti fantocci in carne ed ossa che ci troviamo spesso a guardare alla tv. Il lampo di genio di Claudio Morici è proprio questo, aver sdoganato al nostro tempo un personaggio cosi amato in un tempo altro – oramai lontano, forse -, averlo contestualizzato in un futuro, il 2076, che a narrarlo è fin troppo simile al nostro presente. Un libro da amare, che i trentenni di oggi non possono farsi sfuggire, comunque indicato per chiunque voglia incontrare una letteratura nuova, intelligente, scorrevole, divertente e mai banale.

“La terra a volte è bellissima, pensa Actarus. Dietro l’arcobaleno, se fai bene attenzione, ce ne è un altro, è un fantastico arcobaleno doppio e lui si è avvicinato e sta per baciarla quando tutto diventa sempre più buio e non sa se l’ha toccata, se ha sognato di toccarla, se vale come bacio, se potrà ricordarselo, se la prossima volta dovrà cominciare tutto daccapo oppure no. Missile stratosferico, finisce la puntata”. (p.162)

Federico Magi, aprile 2007.

Edizione esaminata e brevi note

Claudio Morici (Roma, 1972), romanziere e net artist italiano. Laureato in Psicologia Clinica con una tesi intitolata “Fenomenologia esperenziale del sognare lucido” (pubblicata in “Sogni Lucidi”, a cura di Fabrizio Speziale, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza, 1999), ha lavorato per due anni in diverse comunità terapeutiche, prima di cambiare lavoro. È stato direttore dei contenuti del sito d’arte indipendente www.gordo.it. Ha esordito con il romanzo “Matti slegati” nel 2003.

Claudio Morici, “Actarus”, Meridiano Zero, 2007.