Lowry Malcolm

Sotto il vulcano

Pubblicato il: 11 Aprile 2019

Avvertimento preliminare di Marco Rossari, traduttore della nuova edizione Feltrinelli 2018: “Chi si innamori di questo libro non ne esce più, per tutta la vita”, per cui da valutare attentamente prima di affrontarlo.

In quanto umani, possiamo sempre cadere nella tentazione di un giudizio tagliato con l’accetta, di qualsiasi cosa ci possiamo occupare, anche di un libro che abbiamo letto, umano pericolo e debolezza che sempre fa capolino, soprattutto quando parliamo di cose altrui. Potremmo quindi essere tentati di definire banalmente Sotto il vulcano la storia di un uomo tradito dalla moglie che si dà al bere, salvo scoprire poi l’ubriachezza non come status patologico ed esistenziale, perché altrettanto banalmente il Console del romanzo beve nonostante il ritorno da lui della moglie Yvonne, e quindi dovremmo ammettere che bisogna essere sempre un po’ più in là, non esserci mai del tutto per vedere davvero le cose. Lowry ci porta più in là.

Capolavoro del modernismo, messa a requiem ubriaca, anzi Divina Commedia ubriaca come ebbe a definirlo lo stesso autore, danza macabra delle anime quando il mescal suona una nota discorde e oscure spirali d’ombra, oppure farsa, allegoria, discesa agli inferi, tragedia, profezia? Non è semplice e nemmeno renderebbe giustizia affibbiare un’etichetta a qualcosa di tanto grandioso e difficilmente catalogabile e allora proviamo a farci aiutare dai fatti, sinotticamente: il Console Geoffrey Firmin è un diplomatico inglese relegato alla periferia del mondo. Si trova, a seguito dell’interruzione dei rapporti diplomatici, abbandonato nel cuore del Messico, in una città immaginaria Cuahuanhuac, -Cuernavaca- dove Lowry ha vissuto realmente, all’ombra di due minacciosi e simbolici vulcani dai nomi altrettanto impronunciabili, “oscurato da neri pilastri orizzontali di nuvole, come cortine di fumo tirate attraverso la montagna da numerosi treni in corsa parallela”

Siamo nel 1938, alla vigilia della distruzione della guerra. La deriva e la catastrofe è prima esistenziale che collettiva, cosmicamente individuale prima che sociale. Tutto il mondo esterno sfuma in “quei postumi, come immensi e suoi cavalloni sospinti ad avventarsi definitivamente sopra un piroscafo che affonda”, come il Console che affonderà nella barranca nel tragico finale.

La moglie lo ha tradito con il suo migliore amico. La sindrome da autodistruzione del Console, uno dei personaggi più leggendari della letteratura del 900, è allegoria metafisica (possibile chiave di lettura del romanzo), non contingente ai meri avvenimenti esterni. Il fratellastro è quello che oggi definiremmo un radical chic, incistato in utopie rivoluzionarie e mondialiste. La storia è narrata un anno dopo il suo svolgimento con frammenti ricavati da una lettera che l’amico d’infanzia del Console e regista, Laruelle, ritrova, e questo permette al romanzo di dipanarsi in una fitta nebbia etilica, con la sua pur esile trama attraverso quello che è il resoconto dell’ultima giornata di vita del Console, il 2 novembre del 1938, il giorno dei morti. L’inizio si ha proprio con l’incontro fra Laruelle e il suo medico, i quali rievocano il Console e la sua tragica fine. Apparentemente materia un po’ vaga e scarsa per un romanzo, ma mai come in un romanzo modernista, per quanto possa significare e circoscrivere un simile aggettivo applicato a un romanzo culto come Sotto il vulcano, è lo stile a determinare il contenuto, la qualità della scrittura ciò che fa la differenza, e allora ben venga anche la nuova edizione Feltrinelli con la traduzione di Marco Rossari che rinverdisce quella precedente di vent’anni di Giorgio Monicelli.

Nel barocco diluvio verbale, gemme di stile che guizzano fuori dalla pagina distruggendo la sintassi e lasciandoci lì a guardare la scia della cometa dissolversi in alto, mentre noi continuiamo con la nostra discesa nelle malebolge dantesche dell’abiezione e dell’autodistruzione guidati da Geoffrey Firmin, nostro Virgilio particolare, vedendo fischi per fiaschi, parlando fischi per fiaschi, figure sfuggenti, lo spazio che si sfarina e il giorno e il tempo che si slabbrano come nella scena della visione dalla ruota panoramica, una giostra che diventa il sole e le costellazioni, scene al rallentatore, visioni subacquee e danze nell’acqua, perché tutto è instabile, anche la voglia di redenzione che pure traspira dal romanzo. Dal pur vago resoconto della notte precedente alla narrazione dell’ultima sua giornata di vita, sembra emergere che il Console l’abbia trascorsa andando a un ballo, e che “borracho” la sua nottata sia poi terminata in un postribolo, percorrendo le varie gradazioni del peccato. Sarà possibile la sua redenzione con Yvonne? Come dalla citazione dal Faust di Goethe in esergo: “colui che sempre si sforza e cerca noi lo possiamo aiutare”, quel bisogno di redenzione che alita nel romanzo  “dove si trova la Vergine per quelli che non hanno nessuno al mondo?” interroga ancora il dottor Vigil.

Simbolismi, allegorie, sincronizzazioni narrative giocate all’interno di lunghi periodi che disseminano  trappole di senso, echi faustiani, di Melville, oltre che danteschi, cabalistici e su tutto indubitabilmente il debito joyciano di Lowry, il quale per appartenenza anche storica si lega in modo naturale al rivoluzionario autore dell’Ulisse, non fosse altro per il fatto che le vicende trasfigurate del romanzo si svolgono in un unico giorno, come nel celeberrimo 16 giugno del capolavoro di Joyce.

Personaggi ed eventi sono appena tratteggiati, come in un quadro puntinista o divisionista, pixelature stordenti, “un farraginoso collage” per qualche detrattore, visioni sovrapposte, che sembrano perdersi in una stupefacente architettura dei tempi narrativi, per poi dilatarsi ancora fino allo sfinimento e arrovellarsi in digressioni che sono le stesse allucinazioni del Console, di Lowry stesso, perché il romanzo è anche la più alta prova della scrittura autobiografica dell‘autore, come tutta la sua opera è una sorta di autobiografia romanzata, da Ultramarine del 1932, unico romanzo insieme a Sotto il Vulcano del quale Lowry abbia potuto veder la luce ancora in vita e che trae spunto dai suoi viaggi nei mari di oriente compiuti a soli sedici anni. Il biografismo lowryiano prosegue con “Caustico lunare”, un racconto lungo che descrive la sua esperienza in un ospedale psichiatrico, fino a “L’ultimo traghetto per Gabriola”, tutte opere che dovevano costituire un  tassello verso il suo progetto finale che avrebbe dovuto essere quel “viaggio che non ha fine”, con la sfida della sua scrittura “ubriaca”, sul come questa possa concretizzarsi, lui che ha combattuto tutta la vita con i demoni dell’alcolismo e che pure è riuscito a dar vita a simili capolavori, prima di andarsene in una letale mistura chimica ed etilica dopo una lite con la moglie, come riferiscono le cronache.

Il ritmo del racconto si spezza fra salti temporali, stacchi, riprese e meta-narrazioni. Nella più totale asincronia di appuntamenti fissati sbagliando, non trovandosi come Yvonne e il Console che sembrano cercarsi, rincorrersi e perdersi come sonnambuli, il racconto sembra perdere senso compiuto e linearità, salvo vedere riemergere altrove personaggi e avvenimenti, come acqua carsica, con una parvenza di naturalismo, perché in realtà vi sono episodi e azioni ben  riconoscibili come l‘indio stramazzante nella strada, la corrida, i ricordi  del Console del viaggio in Andalusia con Yvonne. Ma si tratta d’azione rifratta, immobilizzata, non si va da nessuna parte. È solo un volteggiare intorno all’abisso come avvoltoi, come noi stessi fossimo quegli stessi avvoltoi di noi stessi, moto immobile, come in una commedia di Beckett. Ogni azione sembra presa alla moviola, con quel sentore e sapore da sbornia cosmica, evocata nella bellissima suggestione della scena michelangiolesca del giudizio universale degli ubriachi, la stessa che si respira ovunque nel romanzo con tutti i suoi accumuli narrativi: i bicchieri di mescal; le bottiglie di aguardiente; le fettine di scorza di cedro e di limone che sembrano galleggiare come nei sogni, fra i più svariati barili di vini, liquori e caraffe di tequila e di anice. La lettura procede come se andassimo a tastoni nel buio di una stanza, per poi lentamente abituarsi alle figure dell’oscurità, come in una cantina buia che si illumina, come quella “bellezza delle osterie nel primo mattino”. Anche prendendo una pagina a caso saremo catturati dalla scrittura avvolgente che ci costringerà a proseguire trascinandoci via, come se quello che stiamo leggendo fosse una droga o un bicchiere di mescal di cui non si può fare a meno, esplorando insieme allo stesso Lowry i terrori sconosciuti del Messico centrale “Con la vetta che sbarrava il cielo, sembrava levarsi quasi direttamente sopra il suo capo con la barranca e il Farolito, quasi direttamente sotto. Sotto il vulcano”, e luoghi immaginari come Tomalin o Parian, fra battaglie di galli e corride, quasi fossimo lì con lui ad assaporare la stessa aria tropicale umida, densa e profumata, insieme allo stesso Lowry che si sentiva un esploratore “ed è così che a volte mi sento come un grande esploratore che ha scoperto chissà quale terra straordinaria da cui non potrà mai fare ritorno per raccontarla al mondo: il nome di quella terra è inferno”.

Se il lettore è disposto a stare al gioco e ad accettare che ciò che gli è chiesto che è il semplice abbandono, ne verrà ripagato in ampia moneta di stupore, incanto, immersione, soddisfazione e puro brivido estetico, come in una sinfonia, in sogni che ne contengono altri e non si chiudono mai. Se non è disposto a questo meglio lasciar perdere con Lowry.

Sotto il vulcano avrebbe dovuto essere nelle intenzioni del suo autore l’inferno, prima cantica di una  ipotetica e del tutto personale trilogia dantesca. Pubblicato nella terza stesura del 1944, il romanzo è stato rifiutato per tutto ciò di cui sopra da svariati editori prima di vedere la luce nel 1947 dopo che era stato iniziato dal suo autore nel 1936

È anche grazie alla seconda moglie Margarie Bonner che questo è potuto accadere e che Sotto il vulcano, come l’ampia mole di manoscritti che ha lasciato dopo la sua morte nel 1957, abbia potuto vedere la luce. Nello specifico fu lei a salvare il manoscritto dall’ incendio del 1944  avvenuto nella capanna di Dollarton, la spartana dimora della coppia nella baia di Vancouver dal 1940 al 1954, in quella British Columbia dove si erano ritirati in una sorta di clausura naturista della quale si favoleggia a tratti nel romanzo. Era Margarie che scriveva i testi che Lowry le dettava, perché la mano gli tremava e non riusciva a tenere nemmeno il pennino in mano, come del resto “non sarebbe riuscito da solo ad allacciarsi nemmeno le scarpe”, come confesserà il suo editore Jonathan Cape.

Dal romanzo riverberano svariate possibilità interpretative, non ultima quella a sfondo psicanalitico. In tal caso potrebbe venire in soccorso la freudiana pulsione di morte o il Lacan che sentenzia su “L’io non padrone a casa propria” oppure “L’io è come una cipolla”. L’io stratificato, paranoico del Console che troviamo  frantumato nelle schegge di bottiglie rotte al Farolito, dove “purtroppo si scoprì che era la luce solare riverberante su miriadi di bottiglie rotte”, lui che “sentiva la sua mente dividersi, alzarsi come metà di un ponte levatoio per dare passaggio a questi pensieri dannosi”, potendoci domandare, senza la necessità di una risposta, cosa sia quell’oscuro senso di colpa che aleggia nel romanzo: “forse lo scorpione non volendo essere salvato si era trafitto a morte”. Senso di colpa chissà se dovuto all’episodio biografico di Lowry, quando strane e mai chiarite fino in fondo vicissitudini lo hanno coinvolto nel suicidio del suo compagno di stanza. Da non trascurare un’interpretazione allegorica sulla guerra e l’utopia rivoluzionaria, facendolo persino considerare come romanzo anticipatore della beat generation.

Lowry ha  venduto la letteratura al diavolo ha detto qualcuno. La parola relegata a un ruolo vicario, la cacciata dal giardino dell’eden anche del verbo, il quale non trova più corrispondenze nelle cose. La babele di lingue delle ultime pagine del romanzo presagisce in modo portentoso il tragico finale. Lowry ha fatto luce a suo modo sulla conseguente inevitabilità del confronto fra follia e ragione, tutte istanze di cui si è fatto interprete in tutte le sue opere. In una lettera all’editore Jonathan Cape affermava che i simboli erano legittimati non dal loro essere simboli, ma elementi della stessa realtà, una realtà aumentata diremmo oggi, che si espande di pari passo con la sensibilità del lettore che dovrà riconoscere che “Anche se è cattiva la poesia è sempre meglio della vita”.

L’odissea alcolica del Console-Ulisse-Lowry e la sua Penelope-Yvonne, che infatti lo cerca, lo chiama, lo aspetta, con le struggenti e disperate lettere che sembrano voler confermare che “L’amor move il sole e le altre stelle”, in un’auspicata e mancata ascesa al paradiso dantesco, rendono l’immagine di un monaco alcolizzato, un uomo completamente incompatibile con il mondo in cui viviamo, in un romanzo non per tutti forse, come il suo autore che è uno di quei pochi che ti fanno sentire quel fremito lungo schiena di cui parlava Nabokov, l’unico luogo deputato alla ricezione del puro piacere dell’arte, cose che gli astinenti (dal punto di vista artistico) non avranno mai il privilegio di comprendere. Un autore che ti fa sentire il fuoco della tequila scorrere lungo la spina dorsale, e tutta quella tensione metafisica, disperazione e tenerezza perché “è la rivoluzione che infuria anche nella terra caliente di ciascuna anima d’uomo” e “non è nel Messico naturalmente l’inferno ma nel cuore”, e soprattutto “No se puede vivir sin amar”.

È il console a parlare qui, prima che il baratro si apra per lui, ma potrebbe essere Lowry stesso, lui che ha fatto del disastro della sua vita, l’artistica, esilarante e tragica rappresentazione della via del disastro pur ammettendo, “sono stato tentato, è vero, di parlare di pace. Sono stato distratto dalle vostre lusinghe di un paradiso della sobrietà analcolica”. Ancora, è Lowry o Geoffrey Firmin a parlarci?

Tutto si confonde, come nel finale del romanzo, con la babele di lingue, la dannazione, il fatale esito, il gorgo, il caos e il corpo del console nel burrone, in quel “tartaro universale, gigantesco immondezzaio”, come un Empedocle moderno, mentre all’orizzonte, con i vulcani sullo sfondo, si appressa una minacciosa tempesta. Ricordiamoci che siamo nel 1938 e i poeti e gli scrittori, i più degni di essere letti e riletti, sono tutti un po’ profeti e sono tanto più in piena luce quando si ritraggono in dissolvenza. Dissolvenza…forse la parola chiave per questo strano oggetto chiamato Sotto il vulcano, dove anche le lacrime sanno di mescal.

Edizione esaminata e brevi note

Malcolm Lowry (Birkenhead 1909 – Ripe, Sussex, 1957) scrittore inglese. Feltrinelli ha pubblicato: Ultramarina (1963), Ascoltaci Signore (1969), Sotto il vulcano (2018, nuova traduzione di Marco Rossari), Malcom Lowry: Salmi e Canti (2004) e Verso il Mare Bianco (2019).

Malcolm Lowry, Sotto il vulcano, traduzione di Marco Rossari, Feltrinelli, 2018

Simone Bachechi, aprile 2019