Il buio a luci accese, raccolta di racconti che rappresenta l’esordio dell’irlandese David Hayden, tradotta da Riccardo Duranti e pubblicata dalla piccola casa editrice Safarà, è uno di quei libri che riescono a stimolare l’immaginazione, a far cambiare prospettiva allo sguardo di chi legge. Devo ammettere che, per una forma di idiosincrasia personale, trovare sulla copertina la frase “Una volta ogni secolo, arriva un libro che non assomiglia a nulla che abbiate mai letto”, tratta da un articolo del The Guardian, è stato difficile da ignorare. È quel tipo di frase che col tempo ho preso in antipatia e che di solito mi allontana dai libri cui si riferisce. “Una volta ogni secolo”, ma quale secolo? La raccolta è uscita in origine nel 2017: ci si riferisce a tutte le pubblicazioni dal 1917 in poi? A quelle dal 1967, fino al 2067? A quelle fino al 2117? Nel primo caso si dovrebbe pensare di trovarsi di fronte a qualcosa che spazza via, solo per restare in Irlanda, parte della produzione di Joyce e tutto Beckett, e anche prendendo in considerazione le altre due ipotesi i dubbi mi sembrano più che leciti. Con questo spirito di estrema diffidenza ho dunque cominciato la lettura (tra l’altro in concomitanza con un’altra raccolta di racconti, uscita per l’appunto circa un secolo fa: Winesburg, Ohio, di Sherwood Anderson, che io ho nella traduzione di Giulio Pane pubblicata da Dalai).
Il primo racconto, Sortita, è molto breve e c’è quest’uomo che si getta e pensa, ripensa, e il tempo si dilata, si velocizza, rallenta. Mi è venuto in mente Per sempre lassù di Wallace, dove invece questo gioco temporale era fatto prima di arrivare al tuffo del ragazzino. Il racconto di Hayden comincia così: “Ne è passato di tempo da quando sono saltato giù dal cornicione.” (pag. 9). Come accade in molti racconti si inizia, come si dice, a metà. Spesso i racconti gettano addosso a chi legge una situazione che è già cominciata, prendono alla sprovvista: la prima frase è un’esca che compare per un attimo sulla superficie dell’acqua e assomiglia a qualcosa di commestibile e se siamo pesci affamati e chi pesca è molto bravo ecco che il pesce-lettore abbocca. Il pesce-lettore però non sa niente del lancio, di tutta la preparazione dell’esca da parte di chi tenta di pescare. Un esempio che mi sembra efficace da fare è l’inizio di un racconto di Faulkner, L’orso: “Stavolta c’era un uomo e anche un cane.”. La prima parola ci dice subito che non è la prima volta e nemmeno, probabilmente, l’ultima, ma una volta di mezzo, ecco. Quando si leggono dei racconti siamo nel mezzo. I racconti migliori, per me, sono quelli che oltre a cominciare nel mezzo neppure finiscono. Si spostano magari un po’, destra, sinistra, avanti, indietro, in diagonale, ma quando c’è il punto che interrompe la narrazione io che leggo sono ancora nel mezzo, e posso perfino continuare a immaginare. Non so se è una cosa strana, ma per me i racconti migliori sono quelli che cominciano costringendoti in qualche modo a immaginare i “prima” e terminano permettendoti di immaginare i “dopo”. Gusti personali.
Fatto sta che del primo racconto di questa raccolta non ho sottolineato neppure una parola, a causa del fastidio provocato dalla frase riportata in copertina, eppure a rileggerlo (sono circa 4 pagine) sì che ci sarebbe stato da sottolineare. Nel racconto successivo, Il banditore, ho segnato vari passaggi, ma non l’inizio, che è questo: “Finalmente le creature si sono addormentate.” (pag. 14). Bàm. Siamo lì, nel mezzo. Quanto tempo è passato per poter dire “Finalmente”; a quali “creature” si sta riferendo chi narra? Il narratore si prende cura di queste “creature”? Stava cercando di farle addormentare oppure sono creature che stavano fuori (da dove?), esterne, che magari facevano rumori, versi e lo tenevano sveglio? Bisogna per forza continuare a leggere per scoprirlo.
In totale sono 20 racconti, e sono tutti racconti che ti fiondano in un luogo e in un tempo che sono al tempo stesso estranei e comuni. Onirici e reali. Hayden ha questa capacità (o almeno la traduzione di Duranti restituisce ciò) di rendere il reale fantastico e fantastico il reale. In alcune recensioni ho letto il nome dei suoi conterranei Joyce e Beckett, e poi Borges, e Barthelme, e basterebbero questi quattro autori, tutti citati non a caso, a rendere la varietà della sua prosa, ma a questi vorrei aggiungerne altri, in ordine alfabetico: Carver, Ende, Poe, Volodine. Se per Ende, Poe e Volodine il legame può sembrare abbastanza chiaro a chi li ha letti (hanno tutti e tre a che fare, tagliando un po’ con l’accetta, con il fantastico, l’inquietante, il perturbante, il surreale), forse Carver sembra stonare un po’, eppure il racconto in cui è contenuta la frase che dà il titolo all’intera raccolta (non è vero, perché in italiano il titolo utilizzato non è la traduzione letterale di quello originale, che riprende, quello sì, la frase finale del racconto) mi ha fatto tornare in mente Perché non ballate?, il testo di apertura della raccolta Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (tradotto anche questo da Duranti, per minimum fax). Il racconto di Hayden si intitola Luci e parla di una coppia che si mette a ballare nella propria casa. Nel racconto di Carver c’è un uomo di mezza età che ha messo in vendita nel proprio giardino i mobili di casa e una coppia di giovani che inizia a cercare qualcosa da comprare per il proprio appartamento e finiscono col bere tutti e tre e ballare. Non è però solo l’aspetto del ballo che unisce questi racconti: in entrambi i protagonisti sono alle prese con spostamenti di mobili, per esempio; in entrambi fondamentali sono rimozione e ricordo. Oltre a questo, però, se si legge prima Perché non ballate? e poi Luci si ha la sensazione, o almeno così è stato per me, di un’unica storia. Quei giovani hanno messo su casa e dopo tanti anni si ritrovano a ballare. Nel giardino dell’uomo trascorsero un pomeriggio intero, con il sole calante e le luci delle case che via via iniziarono a accendersi mentre ora sono in casa, con la luce che cala fuori, e l’uomo cerca l’interruttore e “… May poggia la mano calda e delicata sulla mia, e dice: «È più buio a luci accese».” (pag. 166). È più buio a luci accese: cosa vuol dire? È davvero così? Forse sì. La luce, la percezione della luce, e quindi del buio, cambia. Gli occhi si abituano al buio, si adattano anche i nostri occhi umani pur non come quelli di altri animali. Se sono in una stanza con la luce accesa e guardo fuori il buio che vedo è, in qualche modo, più buio che se tenessi la luce spenta e facessi abituare i miei occhi alla scarsa presenza di luce esterna. La luce fa l’oscurità, e viceversa.
I racconti di Hayden, forse, spengono la luce. Spegnendola il nostro sguardo si abitua e il buio diviene meno buio e è possibile osservare ciò che, a luci accese, non saremmo capaci di vedere.
Ho visto un servizio in televisione poco tempo fa, un servizio sulla base antartica Concordia dove c’era questa giornalista e il suo operatore che sono stati lì per qualche giorno intervistando le persone che lavorano ai vari progetti di ricerca. Una di queste persone, alla classica domanda sul cosa si porterà dietro di questa esperienza, ha parlato prima del cielo, dicendo che vorrebbe che tutte le persone del mondo dovrebbero poterlo vedere come si vede da lì, e poi ha detto che la cosa più stupefacente (non ricordo se ha usato proprio questa parola) è stata che una volta, uscito durante il periodo della notte antartica, ha notato la propria ombra: l’ombra non dovuta alla luce artificiale, né a quella del sole, ma l’ombra dovuta alla luce delle stelle (ok, anche il sole è una stella, ma non fingete di non capire).
Nella recensione uscita su minima et moralia Gianni Montieri domanda al traduttore Riccardo Duranti “come fosse stato avere a che fare con la prosa di Hayden, mi ha risposto: «È un autore che spiazza ma è anche uno che sa usare bene le parole. […] Dopo un po’ si entra in sintonia con il testo, il suo ritmo, le sue stravaganze e fila via tutto abbastanza liscio».”
Per chi legge in traduzione avviene la stessa cosa: uno spiazzamento iniziale cui segue l’entrata in sintonia con i racconti, il ritmo, le stravaganze. Non credo sia un libro “che non assomiglia a nulla che abbiate mai letto”, piuttosto è un libro in cui potrete trovare tanti libri che avete letto, tante somiglianze, così tante che vi sorprenderà magari accorgervi di come stiano tutte in poche pagine. Il buio a luci accese è una raccolta varia come è difficile trovarne, e al tempo stesso coerente nell’immaginario che offre a chi legge. Ci sono racconti per quasi tutti i gusti e per tutte le età. Per esempio Come leggere un libro illustrato è uno di quelli che si potrebbe benissimo leggere alle elementari, con il suo protagonista “Scusa”, uno scoiattolo fumatore di sigaro che intrattiene appunto dei ragazzini: “Da una quercia rossa un grande ramo pende fino a terra e uno scoiattolo grasso ne scende in modo goffo, succhiando con energia un grosso sigaro a forma di dirigibile. Torcendo la bocca verso sinistra, emette un lungo sbuffo grigio che poi si divide in forme che diventano lettere e compitano la parola: SCUSA.” (pag. 124)
Insomma si può soprassedere sulle proprie idiosincrasie e prenderlo e mettersi con calma a leggerlo, e magari una volta finito rileggerlo, perché i libri cambiano da una volta all’altra, cambiano come tutto il resto.
“Quando si legge, il tempo può rallentare fino a cadere goccia a goccia oppure accelerare come un robusto e travolgente torrente che scorre impetuoso dalle nevi che si sciolgono sulle montagne a primavera. I libri ci lasciano girare intorno al tempo, trovare le radici del tempo, perdere tempo, oppure recuperarlo.” (pag. 131)
Edizione esaminata e brevi note
David Hayden è nato a Dublino, ha vissuto negli Stati Uniti e in Australia e ora vive a Norwich, nel Regno Unito, dove attualmente sta lavorando al suo primo romanzo. È stato selezionato per il 25° RTÉ Francis MacManus Short Story e i suoi racconti sono apparsi in Zoetrope e Granta.
David Hayden, Il buio a luci accese, traduzione di Riccardo Duranti, Safarà editore, 2019
Titolo originale: Darker with the lights on
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