Bukhara, B&B Rustam – Zuxro sabato 25 aprile 2015 ore 23:46
Svegliarsi a Samarcanda è un piacere: anche oggi mi alzo di buon umore e sento di aver dormito benissimo. Il nostro treno per Bukhara parte verso mezzogiorno, abbiamo quindi il tempo per visitare un ultimo monumento di Samarcanda: il mausoleo di Gur-E-Mir, dove riposa il celebre Tamerlano, di cui tanto abbiamo sentito parlare negli ultimi giorni: conquistatore, imperatore, dittatore implacabile, che tra il 1370 e il 1405 riuscì a fondare uno dei più grandi imperi della storia, facendone capitale Samarcanda. La sua figura è oggi promossa dal governo come uno dei primi fautori dell’Uzbekistan moderno. Il mausoleo si trova letteralmente di fianco all’ostello, i molti turisti presenti sono quasi tutti uzbeki. L’edificio non è molto diverso da una moschea: un corpo centrale caratterizzato da una splendida cupola azzurra e da un ampio cortile, due eleganti minareti laterali e le tradizionali decorazioni con piastrelle blu e azzurre.
Entriamo e la folla aumenta: la camera centrale ospita più tombe. Secondo la leggenda Tamerlano non voleva essere sepolto a Samarcanda, ma a Shakhrisabz, una cittadina non molto distante da qui. Dal momento che morì d’inverno e le strade per Shakhrisabz erano impraticabili per via della neve si decise di seppellirlo qui. Tamerlano morì di polmonite in Kazakistan, mentre stava pianificando un’invasione della Cina. Questo fa ben capire il perché motivo della fama d’implacabile sanguinario che aleggia intorno a questa figura storica. Ci sono altri due fatti curiosi che hanno alimentato le leggende su Tamerlano: nel 1740 uno shah persiano di nome Nadir portò via la lapide della sua tomba, la quale dopo qualche anno si ruppe. Da allora una serie di colpi di sfortuna colpirono il povero Nadir, che decise di riportare la lapide a Samarcanda. Dopo che venne rimessa al suo posto i colpi di sfortuna cessarono. Un altro fatto ancora più curioso avvenne nel 1941: un antropologo sovietico aprì la tomba di Tamerlano. Analizzandone il corpo scoprì che il grande imperatore era alto 1,70 m e che era zoppo a causa di una caduta avuta in gioventù. Sulla tomba lo studioso trovò una scritta che diceva:”Chiunque aprirà questa tomba verrà sconfitto da un nemico più terribile di me”. Il giorno dopo i nazisti invasero l’Unione Sovietica dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale. Data la grande quantità di leggende e misteri che circolano intorno a Tamerlano mi chiedo come mai non esista una puntata di Voyager sul grande condottiero. Finita la visita dell’interno ci spostiamo fuori, dove possiamo ammirare le belle forme dell’edificio e l’affascinante cupola. C’è molta gente e fa caldo così decidiamo di tornare all’ostello per prendere i nostri bagagli e dirigerci verso la stazione. Il treno per Bukhara non è moderno e scintillante come quello che ci ha portato a Samarcanda, tuttavia non è nemmeno un reperto dell’epoca sovietica come quelli che ho visto in Azerbaigian. Ha l’aspetto di quelli che una volta noi chiamavamo “pendolini”, gli interni sono più consumati e i passeggeri sono solo uzbeki. Fuori il paesaggio comincia a diventare sempre più desertico, la vegetazione si dirada, un foschia creata dalla polvere rende il paesaggio sfumato e i centri abitati diminuiscono. Ad un certo punto costeggiamo un lago con bellissimi isolotti rocciosi dalle forme talmente strane da non sembrare neppure terrestri. Peccato che la mia macchina fotografica non abbia la funzione “foto attraverso il finestrino”. Tipica dei paesi post-sovietici è la fastidiosa lontananza delle stazioni ferroviarie dal centro città: Bukhara non fa eccezione. Ben consapevoli che corriamo il rischio di farci imbrogliare prendiamo un taxi dalla stazione fino alla piazza principale, per fortuna però, trattando il prezzo in anticipo riusciamo a non pagare troppo. Grazie alla guida della Lonely Planet abbiamo già scelto un B&B per cui sappiamo esattamente dove andare. La porta d’ingresso c’introduce ad un cortile interno restaurato di recente e su cui si affacciano le stanze. Parapetti in legno, qualche semplice decorazione al muro e alcuni dei tradizionali tavoli rialzati creano un ambiente confortevole e accogliente. Molto meno accogliente è la signora seduta sulla panca di fianco all’ingresso. Come se si trattasse dell’orco di qualche favola per bambini, è curva su un tavolo a contare delle banconote, quando ci nota alza lo sguardo e con fare scorbutico ci chiede se abbiamo una prenotazione. Rispondiamo di no e le diciamo che vorremmo stare solo due notti. Lei risponde che c’è posto e chiama sua figlia perché ci accompagni in camera. La figlia esce dalla porta di quella che è la reception e in quel momento accadono due cose simultaneamente: io m’innamoro, Marco s’innamora. Alessandro non dà segni particolari ma sono sicuro che non è rimasto indifferente e Jan è una persona troppo brava per mostrare qualche segnale. Lei non avrà più di vent’anni: i capelli sono neri, lisci e lunghi fino alla vita, il viso ha dei lineamenti chiaramente centrasiatici, ma non schiacciati. Un elegante nasino crea una perfetta cornice per degli occhi leggermente a mandorla e di un castano chiaro che assomiglia molto a quello della terra della steppa che abbiamo visto dal treno. Di statura è più alta rispetto alla media, porta un colorato vestito che fa intravedere un fisico snello. Cammina silenziosamente e con un sorriso quasi impercettibile ci fa cenno di seguirla. La seguiamo fino al primo piano tenendo gli occhi ostinatamente fissi sul suo adorabile sedere. Ci apre la porta della stanza e poi ci lascia, andandosene elegantemente com’era arrivata. Cerchiamo di riprenderci dopo questa epifania della bellezza, scendiamo per bere un tè e fare un piano per il pomeriggio. In verità il piano lo potevamo fare anche in camera, però scendendo ci sono più possibilità di rivedere il nostro angelo uzbeko. Purtroppo ciò non accade e così beviamo mestamente il nostro tè mentre decidiamo cosa fare. Quando usciamo sono circa le quindici: ci troviamo nelle vicinanze di una delle piazze principali della città: al centro c’è una grande vasca da cui partono un paio di stretti canali: secoli fa tutta la città era cosparsa da queste strutture, le quali che servivano per la distribuzione dell’acqua. Purtroppo il ricambio dell’acqua contenuta nella vasche non funzionava molto bene e spesso si scatenavano epidemie. Ecco perché oggi non sono molte le vasche rimaste: questa è la più grande. Il nome di Bukhara non è certo famoso come quello di Samarcanda, ma la verità è che per secoli è stata anch’essa considerata uno dei maggiori centri urbani della via della seta e l’aura di mistero e di fascino che la circondava era senz’altro paragonabile a quella di Samarcanda. Questo soprattutto grazie a Mohhamed Rahim, il quale nel 1753 autoproclamò emiro di Bukhara fondando così una dinastia di emiri che divennero presto famosi per la loro ferocia, uno su tutti Nasrullah Khan: il quale arrivò al potere nel 1826 dopo aver ucciso i suoi fratelli e altri ventisei parenti. Per una storia più completa di Bukhara consiglio la lettura de Il Grande Gioco di Peter Hopkirk: un libro storico scritto in stile romanzesco, che narra della secolare rivalità tra Impero Britannico e Impero Russo in Asia Centrale. Alcune delle storie raccontate dall’autore hanno dell’incredibile e sono estremamente affascinanti, una su tutte quella di Stoddadrt e Connolly: il primo era un emissario inglese che nel 1839 arrivò a Bukhara per conto del suo governo. Fece però due errori molto gravi: non portò dei doni all’emiro ed entrò in città senza smontare da cavallo come voleva l’etichetta. Due affronti imperdonabili per il suscettibile emiro, il quale lo fece rinchiudere per tre anni in un pozzo pieno di topi e insetti vari. Nel 1841 il capitano Connolly venne mandato dagli inglesi a Bukhara con l’ordine di ottenere la liberazione di Stoddart. Purtroppo l’emiro lo credette parte di un complotto ordito dai britannici per spodestarlo e gettò pure lui nel pozzo. Poco dopo la Gran Bretagna subì una pesante sconfitta in Afghanistan e, siccome l’emiro non aveva ancora ottenuto risposta ad una lettera che aveva mandato alla regina Vittoria, decise di giustiziare i due emissari: i due sfortunati vennero fatti uscire dal pozzo e portati davanti alla fortezza cittadina. Qui furono costretti a scavare le loro fosse e poi decapitati davanti agli abitanti della città. Camminare per il centro storico di Bukhara è un’esperienza particolare, la città non ha gli stessi edifici spettacolari come Samarcanda, ma al contrario di quest’ultima è riuscita a conservare un cuore originale e abitato da persone del posto. L’atmosfera generale assomiglia molto a quella di alcune città tunisine dell’entroterra: gli edifici hanno un color sabbia, il cielo sembra più grande del solito e oggi in particolare tira spira un vento piuttosto forte che alza moltissima polvere, creando una certa foschia che rende tutto più surreale. Arriviamo alla zona dei bazar: in passato Bukhara ne aveva moltissimi e ognuno era specializzato in un preciso gruppo di merci.
Oggi ne restano solo tre e purtroppo vendono soprattutto souvenir per turisti. Da una delle bancarelle, dove si vende frutta, una corpulenta signora seduta su una sedia urla a squarciagola “Bananaaaaa! Bananaaaaaa!”, quando nota che la stiamo fissando aumenta la potenza “BANANAAA MISTER! BANANAAAA MISTER!” La scena di per sé è comica ma mi trasmette una punta di amarezza. I bazar di Bukhara hanno la particolarità di essere coperti da una serie di piccole cupole che una volta dovevano servire per convogliare aria fresca all’interno. Purtroppo non riusciamo a trovare un punto sopraelevato da cui poter ammirare le cupole che però sono visibili anche da terra. Di fianco ai bazar troviamo, l’una davanti all’altra, due delle più belle madrase di Bukhara: quella sulla sinistra è la madrasa di Ulugbek, lo stesso nome di una delle tre madrase del Registan di Samarcanda.
Ulugbek era uno dei nipoti di Tamerlano e divenne poi uno dei suoi successori, passando alla storia soprattutto per le sua capacità di matematico e astronomo. Oltre alle madrase fece costruire anche un osservatorio a Samarcanda, trasformando sia quest’ultima che Bukhara in centri culturali di fama mondiale. Questa madrasa in particolare è la più antica dell’Asia Centrale, venne costruita nel 1417 ed è stata spesso utilizzata come modello per quelle successive. Si capisce subito che la costruzione avrebbe bisogno di essere restaurata: la bellezza delle sue decorazioni e l’eleganza delle sue forme è ancora intuibile, ma i brillanti colori delle piastrelle sono opachi e secoli d’intemperie e d’incuria ne hanno visibilmente intaccato il fascino. In posizione esattamente opposta si trova la madrasa di Adul Aziz Khan, fatta costruire dall’omonimo sovrano con l’obiettivo principale di avere una madrasa più bella di quella di Ulugbek.
Obiettivo che, almeno secondo i miei gusti, è stato raggiunto. La facciata è meglio conservata e le piastrelle colorate hanno ancora la loro brillantezza. Per visitare l’interno delle due madrase si pagano due biglietti separati, ma stavolta vince il nostro spirito taccagno e proseguiamo la visita della città. Attraversiamo un altro bazar e improvvisamente la via si apre in una piazza in cui due lati sono occupati da una moschea e una madrasa. Nei pressi della moschea si erge l’edificio più famoso della città: il minareto Kalon.
Il primo pensiero che si ha guardandolo è che assomigli ad un pedone degli scacchi: si tratta di una torre alta 48 metri costruita nove secoli fa (nel 1127), la pianta è rotonda e si restringe man mano che sale. Vicino alla sommità ci sono delle piccole finestrelle e al di là di queste la costruzione si allarga leggermente, per terminare poi con un’elegante punta. Il minareto ha ben 14 diverse fasce decorate con motivi geometrici diversi, che ne snelliscono la forma. Si tratta senza dubbio di uno degli edifici più belli che abbia mai visto e non mi stupisco che perfino Gengis Khan, quando invase la città, decise di risparmiare il minareto e di non raderlo al suolo come invece fece con tutti gli altri edifici che lo circondavano. Lungo i secoli il minareto non ha avuto bisogno di restauri particolari e il segreto di tale affidabilità risiede in due fattori: fondamenta profonde dieci metri e uno strato di canne poste intorno a queste che funge come vera e propria misura antisismica. Dato che 48 metri di altezza erano veramente tanti per l’epoca, il minareto venne spesso usato come torre di avvistamento, tuttavia ebbe anche un’altra funzione, molto più macabra: accadeva di frequente che i condannati a morte venissero giustiziati gettandoli dalla cima del minareto. Resto sinceramente affascinato da questa costruzione e con calma mi avvicino, ci giro intorno e la osservo da diverse angolazioni. Il raggi del sole cominciano ad essere rossastri e questo dà a tutta la città un’atmosfera di incredibile fascino. Di fianco c’è la moschea Kalon, che al contrario del minareto non sfuggì alla furia distruttrice di Gengis Khan, ma venne poi ricostruita nel XVI secolo: stavolta paghiamo il biglietto ed entriamo. Il cortile interno è molto spazioso, intorno ad esso corre un porticato e al centro c’è un piccolo albero. Poco oltre si trova una struttura ottagonale rialzata. Non riusciamo bene a capire a cosa serva. Sembra che la moschea sia ancora frequentata dai fedeli il venerdì, dal momento che è pulita e ben tenuta. Quando usciamo dalla moschea ci fermiamo ad osservare la bellissima facciata della madrasa Mir-I-Arab, in attività ancora oggi. Secondo uno schema che ormai abbiamo capito essere quello classico uzbeko, l’elegantissima facciata decorata con le piastrelle è coronata da due piccole cupole azzurro cielo posizionate ai lati. Visitare madrase e moschee è un’attività che mette fame: ci prendiamo un gelato in un negozietto nella via che passa di fianco alla moschea. Questa strada porta alla grande fortezza cittadina ed è una delle preferite dai turisti: i negozi e le bancarelle di souvenir sono dovunque anche se per fortuna non ci sono molte persone in giro. Prendo un via laterale e quasi per caso mi ritrovo in quello che, riconosco essere un bazar vuoto: è il mercato Shariston, uno dei pochi ancora frequentato dei locali e specializzato in gioielleria, tappeti, vestiti e oggetti d’artigianato. Le bancarelle sono quasi tutte sotto una struttura a cupole fatta di mattoni e ognuna ha un numero che la identifica. Vicino all’entrata qualcuno ha lasciato una serie di tappeti, sono stati arrotolati, messi in verticale e posizionati in due righe dal più basso al più alto. Ignoriamo il perché di questa strana composizione ma l’effetto scenografico, con il minareto e le cupole della moschea sullo sfondo, è davvero magnifico.
Abbiamo un altro giorno per visitare Bukhara e decidiamo di tornare all’ostello. Per strada non si vedono quasi più turisti e l’incontro più interessante è un ragazzo che va in giro con tre caprette al guinzaglio.
Già in treno Marco aveva fatto una proposta per stasera: visitare l’hammam cittadino e fare un bagno turco. In effetti è una delle attività consigliate nella guida e approviamo l’idea. Grazie alla mappa troviamo la minuscola entrata del Bozori Kord, uno dei più antichi bagni pubblici della città. La sala d’ingresso è tonda, l’arredamento sembra provenire dal XIX secolo e c’è nell’aria parecchia umidità. Al bancone d’ingresso troviamo un ragazzo sulla ventina vestito solo di un asciugamano bianco intorno ai fianchi. Fissiamo l’appuntamento per le 8 e scopriamo che non ci servirà nemmeno portare il costume da bagno. Tornati in ostello ci riposiamo e ogni tanto guardiamo dalla finestra che dà sul cortile nella speranza di vedere la bellissima figlia della proprietaria, che però sembra essere sparita. Mi viene il sospetto che la madre usi la figlia solo per irretire i clienti appena arrivati e poi la tenga segregata in casa. Quando torniamo all’hammam lo stesso ragazzo che ci ha ricevuto in precedenza ci dà un leggero asciugamano bianco a testa e ci dice di andare dietro al paravento a spogliarci. Lasciamo i nostri abiti in appositi armadietti ed entriamo nella sala successiva. La costruzione è fatta di mattoni, ma è talmente vecchia che sembra di trovarsi dentro ad una grotta. Ci sono diverse sale, noi ci fermiamo in una con due grandi lastre di pietra al centro. Qui altri due ragazzi in asciugamano ci introducono in una stanza ottagonale calda come un forno e umida come una calle di Venezia in autunno. Lungo i muri ci sono panche di pietra e scopro che sedendocisi si riesce a respirare un po’ meglio. Lo scopo di questa prima fase penso sia semplicemente sudare, aprire i pori ed espellere tutte le impurità. Restiamo in cottura per un quarto d’ora, poi Jan e Marco vengono portati fuori dai due ragazzi per la fase successiva, ossia il massaggio. Questo ha luogo sulle due lastre di pietra che abbiamo visto prima, ma dal momento che un telo copre l’entrata del forno dove ci troviamo non riusciamo a vedere cosa succede, sentiamo solo qualche rumore ogni tanto e non è per niente rassicurante, perché si tratta principalmente dei grugniti di sofferenza di Marco. Passano dieci interminabili minuti in cui penso seriamente di avere finito le mie scorte di sudore e poi finalmente veniamo chiamati fuori pure io ed Alessandro. Il ragazzo mi fa distendere sulla lastra, è piacevolmente tiepida, ed è così che comincia lo scempio del mio corpo: non credo che questi siano dei massaggiatori professionali, il mio sospetto è che qualcuno gli abbia spiegato più o meno dove toccare e cosa tirare. L’inizio in verità è piacevole, usa un olio profumato e mi scioglie i muscoli delle spalle, ogni tanto mi versa dell’acqua calda per risciacquare e tutto sembra a posto. Poi il tocco inizialmente morbido si fa sempre più brusco e i movimenti prima tranquilli cominciano ad assomigliare sempre più a delle prese di lotta libera: mi tira le braccia dietro la schiena, mi gira il collo, mi torce le gambe, mi preme la spina dorsale, ad un certo punto mi mette un ginocchio sulla schiena, afferra le mie braccia e le tira indietro. Sento ossa che non sapevo di avere muoversi in modo preoccupante e già mi vedo ricoverato in un ospedale uzbeko con una spalla lussata. Ogni tanto mi scappa un gemito di dolore e allora sento Marco e Jan che se la ridono dalla stanza successiva. Alessandro sta subendo lo stesso trattamento, ma non lo sento lamentarsi. Il tutto finisce con una secchiata d’acqua fresca. Barcollante raggiungo gli altri, la nuova stanza è più fresca della prima ma sempre calda. Il mio torturatore mi mette in mano della pomata e mi fa segno di spalmarmela dappertutto, proprio dappertutto. Marco mi guarda con un mezzo sorriso e mi dice:”Dai dai, spalma bene mi raccomando!” Io eseguo e capisco subito il perché del mezzo sorriso: la pomata è a base di zenzero e dopo qualche secondo che la si applica, pizzica in modo piuttosto fastidioso. Sia io che Alessandro ci ritroviamo a saltellare tenendoci le mani sui “gioielli di famiglia” in fiamme. A detta dei due ragazzi questa pomata fa bene alla circolazione. Come ultima fase veniamo portati in una stanza a temperatura ambiente dove ci possiamo sciacquare e asciugare con degli altri asciugamani. Questo Penso serva a far tornare il corpo a temperatura normale. Usciamo e ci rivestiamo. Ci viene offerto un tè verde per reidratarci e in effetti ho talmente tanta sete che non riesco ad aspettare che il tè si raffreddi, col risultato che mi ustiono la lingua. Quando usciamo facciamo un bilancio generale dell’esperienza: siamo tutti piuttosto soddisfatti, ci sentiamo puliti e rilassati, ma abbiamo qualche dolorino causato dal massaggio troppo energico. Sono ormai ventuno e trenta, ma con un po’ di fortuna troviamo un posto dove mangiare: un ristorantino nascosto in una viuzza secondaria, l’aspetto è decisamente triste ma sembra essere un luogo frequentato soprattutto dai locali. I proprietari sono un coppia di anziani incredibilmente bassi. La signora sprizza energia da ogni poro, prende lei le nostre ordinazioni, il marito esegue i suoi ordini con fare piuttosto rassegnato. Mangiamo gli stessi ravioli ripieni di carne che abbiamo assaggiato a Samarcanda, accompagnati da un bella birra fresca di cui sentivamo tutti il bisogno dopo il bagno turco. L’anziana coppia sarà anche simpatica e adorabile, ma il conto che ci presentano non è molto equo ed è chiaramente stato gonfiato visto che siamo turisti. Quando usciamo per strada non c’è quasi più nessuno e la città ci dimostra ancora una volta il suo fascino. C’è qualcosa in Bukhara, una sensazione di antichità, di storia, che non può lasciare indifferenti. Rientriamo in ostello e nemmeno stavolta incrociamo la bellissima figlia della proprietaria. Domani ci aspetta l’antica fortezza di Bukhara e tutto ciò che ci sta intorno, nonostante i dolori muscolari ci addormentiamo senza problemi, cullati dal vento sabbioso di Bukhara che soffia da quando siamo arrivati.
Per approfondire:
https://it.wikipedia.org/wiki/Bukhara
https://it.wikipedia.org/wiki/Ulu%C4%9F_Bek
Francesco Ricapito Gennaio 2016
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