Vailland Roger

La legge

Pubblicato il: 25 Febbraio 2007

Il titolo non deve trarre in inganno: la “legge” intorno a cui ruota la vicenda, e che rappresenta la morale di coloro che animano le pagine del romanzo, non ha nulla a che vedere col concetto di legalità, peraltro parecchio evanescente in quello scorcio di meridione italiano.
Non è altro invece che una sorta di gioco volto a domare le ostilità tra compaesani e a gratificare il desiderio di reciproca sopraffazione: la scelta di un uomo che deve dettare “legge” (“amara quando si subisce, squisita quando si impone”), col preciso compito di umiliare gli altri partecipanti, i quali, tracannando innumerevoli bicchieri di vino, sono obbligati ad obbedire e a rifuggire ogni tentativo o accenno di risposta alle provocazioni.
Soltanto il più forte, chi sarà in grado di subire senza battere ciglio ogni infamia nei suoi confronti e soprattutto nei confronti della sua donna, avrà vinta la partita.
Così il romanzo, rappresentazione di una società del 1956, non del tutto arcaica e non ancora moderna, intesa come aliena da feudalesimi del passato: a Porto Manacore, versione romanzesca di Peschici, un paese della Puglia corrotto da un’atavica miseria materiale e morale, si snodano le vicende di alcuni personaggi, tutti succubi del comando altrui od almeno delle proprie passioni, altrettanto violente e distruttive.
Un romanzo incentrato su di un’umanità che vive per lo più di espedienti, di sopraffazione, e che, nonostante quanto suggerito da una critica in vena di improbabili analisi sociologiche, ben poco ha a che fare con Montegrano e il familismo amorale di Banfield: qui i personaggi, proprio perché protagonisti di un racconto, assumono un carattere universale, peraltro sul crinale stretto della convenzionalità; non fosse altro che il francese Vailland, pur conoscendo bene il nostro paese, a mio avviso ha costruito, complice un linguaggio alieno da ogni dialetto ed espressione regionale, un’opera poco “verista”, almeno come possono intenderla i lettori di Verga, poco caratterizzata dall’ambientazione pugliese.Un romanzo che presenta tuttavia caratteri di evidente realismo e non priva di quel populismo di cui, nel corso degli anni, l’autore volle in parte lasciarsi alle spalle: da qui una vicenda che rivela un mondo fatto di lavoro precario alla mercé dei boss del paese, di disoccupazione, di emarginazione sociale della donna, ed in particolare di una sua sottomissione ai “padroni” tale da prefigurare una sorta di jus primae noctis, di ruoli talmente definiti da apparire a buon titolo come ancora esistente, nel dopoguerra italiano, un non trascurabile residuo di feudalesimo, di una sessualità malata fatta di matrimoni combinati e privi di sentimenti sinceri, di uomini infoiati ed incapaci a tenere chiusa la patta dei pantaloni, di bordelli e di puttane, di relazioni, più sessuali che amorose, in cui domina indifferentemente l’adulterio maschile e femminile. La classe “feudale” è rappresentata da Don Cesare, un anziano proprietario terriero, ex simpatizzante liberale, fuori dalla mischia fin dal primo sorgere del fascismo, ed ora tutto dedito ai suoi studi sull’antica colonia greca di Uria e a godersi sessualmente la sua serva-concubina di turno.
Oggetto delle attenzioni libidinose dei maschi, da Don Cesare al suo servo Tonio, all’agronomo lombardo, è Marietta, una ragazza a servizio dell’anziano latifondista, appena diciassettenne ma abile a difendersi dalla violenza dei suoi aggressivi ammiratori.
Il giudice Alessandro, un magistrato di medio livello ma di grande cultura e, nonostante la sua eccessiva prudenza di fronte al potere, persona sostanzialmente liberale e di simpatie socialiste, è sposato a Donna Lucrezia, una sorta d’incupita Emma Bovary; l’inquieta signora si innamorerà di Francesco Brigante, studente di giurisprudenza: la progettata fuga dei due, causa la debolezza del giovane e le manovre del padre, non avrà luogo e Lucrezia, delusa, finirà tra le grinfie del commissario Attilio, il Don Giovanni “democristiano” di Porto Manacore, e poi, prima del trasferimento del fin troppo paziente marito, di altri stalloni da una notte.
Matteo Brigante, il padre di Francesco rappresenta i nuovi ricchi: ex sottufficiale di marina, ha costruito una fortuna grazie a traffici illegali e al patrimonio della sua consorte, una ex prostituta. Accompagnato dal fido Pizzaccio, si diletta al gioco della “legge” e soprattutto a stuprare ragazze vergini, tanto più che nessuno osa fermarlo; proverà a divertirsi anche con Marietta, peraltro tutt’altro che illibata, ma ne riceverà soltanto uno sfregio in faccia.
Marietta, che ha un rapporto clandestino con Pippo, un giovanissimo capobanda di ladruncoli, alla fine si scoprirà essere responsabile, insieme al suo ganzo, di un furto di mezzo milione di lire ai danni di una coppia di turisti svizzeri. Dopo la morte di Don Cesare, che, morente, non sarà riuscito a farne la sua ultima concubina, si metterà in affari, peraltro poco puliti, con quello stesso Matteo Brigante che pochi mesi prima aveva tentato di stuprarla.

A fare da sfondo alle vicende di questi personaggi dalla moralità quanto meno dubbia, la gran massa anonima e muta dei disoccupati – magari pure taglieggiati dal Commissario, custode più del conformismo politico che della legalità – che nella piazza del paese stanno in attesa di qualche padrone, e le bande di teppistelli dediti al furto, agli espedienti e soprattutto alla scuola di sopraffazione.
Tanto per capirci e per usare un’espressione poco consona ad un critico letterario, potremmo dire che dei personaggi usciti dalla penna di Vailland il più pulito ha la rogna.
Non così nella versione cinematografica, “La loi” diretta da Jules Dassin nel 1958: qui la vicenda, che, in virtù del suo carattere in qualche modo “universale” è trasportata senza troppi problemi in quel della Corsica, si rivela edulcorata, priva di quella morbosità che invece percorre il romanzo dalla prima all’ultima pagina.
Marietta è una Gina Lollobrigida, improbabile diciassettenne, molto meno cinica e disinvolta rispetto alla ladruncola di Vailland; Marcello Mastroianni veste i panni dell’agronomo lombardo, nel romanzo una figura defilata e tutt’altro che fortunato nella conquista dell’inquieta servetta, e che qui, nella finzione cinematografica, diventa, oltre che oggetto del desiderio femminile, uno dei protagonisti.
Il regista e gli altri interpreti (Vittorio Caprioli, Lydia Alfonsi, Gianrico Tedeschi, Paolo Stoppa, Pierre Brasseur, Yves Montand, Melina Mercuri), pur famosissimi e di valore, non riescono a riproporre la forza e lo sconfortato cinismo della pagina scritta; dove invece lo stile estremamente conciso e disciplinato di Vailland, pur tra qualche concessione ad un facile populismo, non è, come nel film di Dassin, strumento per rappresentare un moderno melodramma, ma più specificatamente il mezzo più efficace per rappresentare i meccanismi sociali e le tecniche di oppressione proprie di tutte le società che vedono convivere modernità e feudalesimo.

Edizione esaminata e brevi note

Roger Vailland (1907-1965), ha intrapreso la sua carriera letteraria prima come giornalista, fondando peraltro nel 1930, con R. Daumal e R.G. Lecomte, la rivista para-surrealista Le Grand jeu, influenzata dalle correnti filosofiche orientali. Fu poi redattore e corrispondente di guerra di “Paris-midi” e di “Paris-soir” e dopo l’armistizio tra la Francia e la Germania nazista, fu attivo nel movimento di resistenza; un’esperienza che gli ispirò il suo primo romanzo: “Uno strano gioco” (Drôle de jeu, 1945). Parimenti la successiva militanza comunista, dal 1952 al 1956, influenzò la sua produzione letteraria: affrontò i temi della vita operaia, seguendo i canoni del realismo socialista ma collegandosi anche alla tradizione naturalista di Zola e Maupassant. A Drôle de jeu seguirono i romanzi “Gamba svelta occhio acuto” (Bon pied, bon oeil, 1950), “Bel busto” (Beau masque, 1954), “325000 franchi” (325.000 francs, 1955), per poi giungere al 1957, l’anno de “La Loi”, opera che gli valse il premio Goncourt: un grande successo di pubblico, in cui qualche suggestione erotica e la morbosità insita nella vicenda sicuramente ha avuto il suo peso nell’incrementare l’interesse dei lettori. Vailland, negli anni a seguire, tentò poi il recupero di alcuni miti del libertinismo settecentesco, innestandoli nella realtà contemporanea: da qui pagine che si nutriranno di vita elegante, culto della personalità, disprezzo delle convenzioni, esperienze sessuali fuori da ogni ordine costituito. L’ultima sua produzione letteraria è ben rappresentata da “La festa” (La fête, 1960), “La trota” (La truite, 1964) e dal saggio “Il freddo sguardo” (Le regard froid, 1963).”

“La violenza, amara quando si subisce, squisita quando si impone”.

Roger Vailland – La legge – Feltrinelli 460 UE – brossura, 1964, pag. 212
Trad. dal francese di Mario Ramadoro.

Recensione già apparsa su ciao.it il 20 gennaio 2007 e qui parzialmente modificata.

Luca Menichetti. Lankelot, febbraio 2007