Il cinema del riflusso, caratteristico degli anni Ottanta, a dispetto dell’appellativo che indica palesemente un’epoca di disimpegno rispetto al cinema politico-sociale delle decadi immediatamente precedenti, ha partorito opere tutt’altro che disprezzabili, andando spesso a indagare la fanciullezza e l’adolescenza in modo più libero e più attento alle dinamiche interiori, psicologiche, trovando anche diversi modi di rappresentazione e centrando quasi sempre l’attenzione sui percorsi formativi dei giovani protagonisti. Se certamente restano impresse nella memoria le opere fantasy, come La storia infinita, Labyrinth, E.T. l’extraterrestre, ma anche il meno noto e dolcemente malinconico D.A.R.Y.L., altrettanto interessanti e ricche di spunti di riflessione sono pellicole più scanzonate e avventurose come I Goonies, o più intimiste e nostalgiche come il film oggetto di questa analisi: Stand by me. Ricordo di un’estate. Tratto da una delle più delicate ed empatiche novelle del re dell’horror Stephen King (Il Corpo, racconto contenuto nel libro Stagioni diverse, composto di quattro storie corrispondenti alle quattro stagioni), Stand by me è una classica storia di trapasso generazionale che vede quattro dodicenni partire alla ricerca del cadavere di un coetaneo, alla fine degli anni Cinquanta, mossi dalla curiosità e dalla possibile celebrità, probabilmente ignari che quei giorni d’estate d’inizio settembre, trascorsi insieme prima del ritorno a scuola, sarebbero stati il tempo di uno dei riti di passaggio più importanti della loro vita.
La vicenda si svolge a Castle Rock (cittadina immaginaria spesso protagonista delle storie di Stephen King), nell’Oregon (anche se nei libri di King è nel Maine, sua terra natale), dove vivono quattro inseparabili amici. Gordy, voce narrante che rievoca le vicende di quell’estate del 1959, ha passione per la scrittura e ha perso il fratello maggiore da 4 mesi. Trattato come figlio di serie B già prima del grave lutto, vive invisibile agli occhi dei genitori, persi nel vortice del loro dramma. Chris, il capo della banda, è considerato un poco di buono, anche grazie al pessimo retaggio familiare, ed è noto nella cittadina per esser stato accusato d’aver rubato i soldi dei compagni di scuola. Anche Teddy è mal visto, perché figlio d’un uomo fuori di testa rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Nonostante le vessazioni subite da bambino, Teddy parla con orgoglio di suo padre, da lui considerato un eroe per aver partecipato allo sbarco in Normandia. E infine c’è Vern, il più infantile e grassottello del gruppo. I quattro partono, trovando scuse credibili per i genitori, alla ricerca del cadavere di Ray Browers, un loro coetaneo scomparso in circostanze misteriose qualche giorno prima. Vern, fortuitamente, aveva origliato la conversazione di due ragazzi, teppistelli locali, riguardo al luogo in cui giaceva senza vita il loro coetaneo, sbalzato via dalle rotaie dall’arrivo improvviso di un treno e non ancora trovato dalle autorità. Si parte per il viaggio seguendo per un giorno e una notte le rotaie di un treno, tra piccole e grandi avventure, cementando un’amicizia destinata, come tutte, alla dura prova delle circostanze e del tempo. Per ritrovarsi diversi, trasfigurati, più adulti, all’ingresso del nuovo tempo della loro vita.
Un racconto elegiaco e nostalgico, che scavalca l’infanzia e arriva all’adolescenza attraverso un viaggio di due giorni, intenso, intimo, esistenziale. Un tempo di formazione leggero e frastornante, melodico e urlante, in cui Rob Reiner, sposando con efficacia la novella di Stephen King, in poco meno di un’ora e mezza riesce a mettere sul piatto molteplici temi e sottotemi attraverso una sceneggiatura essenziale, filmando l’emozione con semplicità e naturalezza, affidandosi totalmente alla recitazione dei ragazzini e a dialoghi davvero ben costruiti. Tutti molto ispirati, i giovanissimi attori. Come in ogni percorso iniziatico che si rispetti, Gordy (Wil Wheaton), Chris (River Phoenix), Teddy (Corey Feldman) e Vern (Jerry O’Connel) nel tempo del viaggio dovranno confrontarsi con paure e aspirazioni, dubbi e curiosità, affrontando anche i fantasmi – soprattutto Gordy – che aleggiano intorno alla loro ancor breve esperienza di vita fino a quel momento trascorsa. Toccante ed emblematica, a questo proposito, è la sequenza in cui Gordy ammutolisce di fronte al corpo senza vita di Ray Browers, per poi estraniarsi in un pianto accompagnato da dolorosi sussurri, immediatamente percepiti dall’amico Chris. “Dovevo morire io” – queste le parole di Gordy, che non si dà pace per la morte del fratello e per il disinteresse totale dei genitori nei suoi confronti. La presenza di Chris, sempre protettivo e convinto delle potenzialità dell’amico come futuro scrittore – Gordy è per Chris non solo un grande amico, ma colui che riscatterà la loro vita di sicuri perdenti -, sarà propedeutica per Gordy nell’acquisire consapevolezza di sé, nel trovare sicurezza, nello sviscerare totalmente – nel tempo, a dispetto della distanza, ma cristallizzando il ricordo – le proprie capacità. Non a caso è Gordy la voce narrante, che rievoca la storia attraverso i tasti di un computer, una volta divenuto uno scrittore.
Il tema della morte, dalla scoperta all’interiorizzazione, ha dunque una valenza catartica nell’opera di Reiner, è uno specchio in cui i fanciulli si guardano e si ritrovano adolescenti, l’elemento simbolico in cui vengono fatte confluire tutte le paure. Per essere affrontate, vinte, definitivamente superate. Il tema del trapasso dall’infanzia all’adolescenza, nel tentativo di rielaborare il proprio vissuto e riaggiornarsi ad un’età più adulta, comunque indissolubilmente legata ad un tempo di formazione circoscritto, legando questi percorsi ai motivi della paura e del contronto con la morte, è l’oggetto di un altro libro di Stephen King, forse il suo migliore in assoluto. E parlo di IT, opera scopertamente più angosciante e orrorifica rispetto a Il Corpo, decisamente più corposa (a mia memoria il più lungo romanzo in assoluto del romanziere americano, più di 1200 pagine) e complessa, ma affine a Il Corpo nei suoi motivi più intimi ed esistenziali, nel percorso esperienziale dei personaggi (anche in quel caso dei perdenti: anzi, i perdenti per eccellenza). Anche in IT si parla di riti di passaggio, di teppistelli da cui difendersi e luoghi lontanissimi dai grandi centri urbani, vicini ad una natura che ha ancora un ché di ancestrale e selvaggio. E in più c’è Pennywise, il clown malvagio, lo specchio in cui guardarsi e sconfiggere le paure: lo specchio più terrificante che il buon King ci ha posto di fronte. Di IT ricordiamo anche un discreto film tv, ma niente di paragonabile alla delicatezza e alla poesia della pellicola in questione.
Dei quattro ragazzini protagonisti, forse ve ne possono tornare alla mente tre: Wil Wheaton, Corey Feldman e River Phoenix. Nessuno di essi, per motivi assai differenti, ha avuto fortuna nel dorato mondo di celluloide. In particolare River Phoenix, il più noto, dopo alcune convincenti prove (Mosquito Coast, Nikita. Spie senza volto, Ti amerò fino ad ammazzarti, Indiana Jones e l’ultima crociata, Belli e dannati, I signori della truffa) morì in seguito ad overdose di cocaina ed eroina, nel 1993. Corey Feldman, per non allontanarsi troppo da certe consuetudini, si è rovinato la carriera già molto giovane per abuso di droga e alcol, ancorché partecipi ogni tanto a qualche serie televisiva. Wil Wheaton (al personaggio di Gordy, sia filmico che letterario, resto legatissimo, sia perché fisicamente somiglia in modo impressionante a me dodicenne, sia per motivi narrativi), invece, pare avere avuto una vita più regolare: ruota ancora attorno al mondo dello spettacolo, ma non ha avuto fortuna come attore. Il regista Rob Reiner, invece, raggiunse il suo picco di notorietà due anni dopo questo film, con la commedia Harry ti presento Sally, tra i campioni d’incasso dei fine Ottanta, regalandoci anche, l’anno successivo, un altro bel film tratto da King, l’inquietante Misery non deve morire, con una straordinaria Kathy Bates come protagonista.
Divergente rispetto al libro nella collocazione temporale degli eventi, Stand by me rispetta abbastanza fedelmente l’atmosfera della novella da cui trae spunto, amplificandone la suggestione nostalgica e malinconica. La famosa canzone di Ben E. King, evocata dal titolo, si libera solo sui titoli di coda ma lascia comunque una suggestione circolare, in quanto la melodia interviene – senza i noti versi d’accompagno – anche nell’introduzione e fa capolino, lieve e nostalgica, quasi impercettibile, in altri momenti della pellicola.
Stand by me resta uno dei migliori film sull’infanzia-adolescenza arrivati sul grande schermo, diventato nel tempo un piccolo cult – senza sentire il bisogno di dover andare a scomodare Truffaut (I 400 colpi, Ragazzo selvaggio) o Tarkovskij (L’infanzia di Ivan) -, che ci dimostra come il cinema degli anni Ottanta, partorendo opere affatto banali e rifuggendo i pistolotti politici e l’impegno sociale, non era affatto da buttare come qualcuno ha voluto farvi credere. Dico farvi, perché io non ci ho mai creduto, e confido che in tanti della generazione dei nati nei Settanta la pensino esattamente come me.
Federico Magi, febbraio 2009.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Rob Reiner. Soggetto: Stephen King. Sceneggiatura: Raynold Gideon, Bruce A. Evans. Direttore della fotografia: Thomas Del Ruth. Montaggio: Robert Leighton. Interpreti principali: Wil Wheaton, River Phoenix, Corey Feldman, Jerry O’Connel, Kiefer Sutherland, John Cusack, Richard Dreyfuss, Casey Siemaszko, Gary Riley, Bradley Gregg, Jason Oliver, Marshall Bell, Frances Lee McCain. Scenografia: J. Dennis Washington. Costumi: Sue Moore. Musica originale: Jack Nitzsche. Produzione: Act 3, Columbia Pictures Corporation, The Body. Titolo originale: “Stand by me”. Origine: USA, 1986. Durata: 89 minuti.
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