Labbate Orazio

Lo Scuru

Pubblicato il: 20 Febbraio 2015

Di recente ho letto un testo di Sartre che si intitola “La responsabilità dello scrittore” (Archinto, 2012). A pagina 23 Sartre scrive: “…il lettore non formula sul libro o sull’oggetto artistico un giudizio di fatto, come si dice, ma un giudizio di valore“. Questo significa che ogni giudizio formulato su un libro è e rimane un’opinione legata al gusto e alle preferenze di chi legge. Non posso dire, o scrivere, che “Lo Scuro” sia un brutto libro. Posso dire, o scrivere, che “Lo Scuro” non mi è piaciuto. Qualcuno chiede il mio punto di vista ed io lo concedo. Ri-citando Sartre (pagine 24 e 25): “Non si vuole che io non m’indigni contro un’ingiustizia, e non si vuole nemmeno sottoporre le cose al mio scrutinio imparziale, no: si vuole impegnare il mio giudizio, ma lo si vuole impegnare liberamente. Non ci si rivolge alle viscere, ma a ciò che vi è di specificatamente umano nell’uomo, vale a dire la libertà“. E’ per questo che liberamente esprimo il mio giudizio sul romanzo (qualcuno lo definisce persino poema) di Orazio Labbate e il mio giudizio è serenamente negativo.

Cosa non mi è piaciuto? Il linguaggio, soprattutto. Perché? Perché una volta eliminata questa pirotecnica, artificiosa, posticcia e collosa sequenza di parallelismi astrusi, di aggrovigliate e spesso indecifrabili misture di italiano e siculo, di questo libro non resta niente. Vomitare parole come se si fosse in preda a un rapimento estatico o, più banalmente, ad un’incontrollata ubriacatura linguistica può essere divertente per qualche pagina poi, però, si deve tornare ad una misura seria, ad un regime comunicativo onesto e decente. Semplicemente: scrivere senza deturpare una lingua, senza trascinarla in una pozza di analogie senza senso o incastrando parole alla rinfusa inscenando una profondità di senso che non esiste e che non potrà mai esserci.

Leggere frasi del tipo “…versavo lacrime come un copertone che finge di forarsi sotto il vento africano…” oppure “Quel tramonto che s’appiattisce tra le case in una sorta di milza pressata dentro due lembi rozzi di pane cattivo…” oppure “… dove le stelle si seccano come sigarette abbruciate nel corpo delle blatte…” oppure “… le cornacchie scomparivano nel costato grumoso delle nuvole nere…” non mi colpisce e non mi commuove. Per niente. Anzi. Mi reca fastidio. Perché non vedo in espressioni di questo genere nulla di nuovo, nulla di vero, nulla di potente. Noto soltanto una banale accozzaglia di immagini messe per iscritto in maniera quasi ridicola. Un allucinato ed allucinante viaggio dentro il niente assoluto.

E pensare che durante la lettura delle primissime pagine il vecchio Razziddu Buscemi mi sembrava persino interessante. Un vecchio siciliano, avvocato in pensione, che vive da tempo a Milton, in West Virginia. Solo, ormai vedovo, e prossimo alla morte. Ricorda la propria esistenza, Razziddu. E lo fa sprofondando in un lessico che inizialmente non ha. C’è una Sicilia cupa, arcaica, cattiva che mescola le maldicenze alle superstizioni, la santità ai demòni, la leggenda agli incubi ancestrali. Lì dove è possibile mantenere intatte le proprie radici, la religione si mescola perennemente con qualche altra materia. Dalle mie parti il culto dei santi si sposa da sempre con quello dei serpenti. A Butera, il paesino da cui viene Razziddu, che poi è lo stesso in cui è cresciuto Labbate, il Signore dei Puci sembra somigliare ad una creatura infernale. Eppure è solo una statua di cartapesta. “Era un mostro, il figghiu di Dio, Il signuri dei Puci. C’aveva occhi spirdati, calati siano all’incesto di quella specie di paura che provato nei boschi del parco Comunelli quando cacciavo lucertole nella notte; estesi, uguali alle orbite di un operaio della forestale: imbruttiti, di prima mattina, dal giovane sole nord africano davanti al quale era meglio genuflettersi perché gli insetti e la zagara parevano scoppiare. […] C’aveva la barba rigida, la statua, come cannamela essiccata, e il mento verdognolo, appuntito, caricato di veleni di biscia affinché a nessuno venisse in mente di succhiarlo“.

E questo scrivere somiglia alle pesanti decorazioni barocche grondanti arabeschi e puttini sorridenti che fanno sfoggio di sé in molte chiese di Sicilia. Un tripudio di opulenza fine a se stessa, una ridondanza di visioni e corrispondenze che lasciano una lettrice come me, molto più affascinata dalla sobrietà e dall’essenzialità, totalmente frastornata e sfiancata. Non è questo, per me, il buono scrivere. Non lo è affatto. Tornando al Sartre de “La responsabilità dello scrittore” mi piace riportare una considerazione del filosofo francese: “…il linguaggio priva dell’innocenza; toglie l’immediatezza e nello stesso tempo pone la persona davanti alle proprie responsabilità“. Di fronte al linguaggio scelto da Orazio Labbate per il suo “Lo Scuru” il peso di una riflessione del genere si fa importante e mi domando se il giovane scrittore siciliano si senta richiamato a qualche responsabilità proprio e solo perché si dichiara “scrittore”.

Edizione esaminata e brevi note

Orazio Labbate è nato nel 1985 a Mazzarino. Fin dall’infanzia ha vissuto a Butera e si è laureato in giurisprudenza alla Bocconi di Milano. Collabora con le riviste online “Il primo amore” e “Repubblica nomade”. Il suo blog si chiama “Sicilia texana” e “Lo Scuru” è il suo primo romanzo.

Orazio Labbate, “Lo Scuru“, Tenué, Latina, 2014.

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