Iantosca Angela

Onora la madre. Storie di ‘ndrangheta al femminile

Pubblicato il: 27 Aprile 2014

Ho già letto di ‘ndragheta negli anni scorsi. Una buona immersione nel tema è avvenuta grazie ad un paio di libri di Nicola Gratteri ed Antonio Nicaso, noti esperti in materia. Cosa facciano le donne dentro la ‘ndrangheta, però, non era ben chiaro. L’argomento, di solito, viene appena sfiorato. Il libro di Angela Iantosca, che fa costantemente riferimento a verbali, documenti, tradizioni, rituali, testimonianze, parole e atti giudiziari, è invece interamente dedicato al fenomeno e spiega la ‘ndrangheta partendo dalle storie e dalle figure di donne che, inevitabilmente, popolano e servono le ‘ndrine calabresi. La giornalista e scrittrice parte da un sillogismo piuttosto illuminante: “la famiglia è l’elemento fondante della ‘ndrangheta, la donna è un elemento fondante della famiglia, la donna è un elemento fondante della ‘ndrangheta“. Il concetto appare semplice eppure, carte alla mano, l’apparente estraneità delle donne agli affari mafiosi sembra la regola. Analizzando fino alle radici i reali meccanismi dell’universo ‘ndranghetista, però, ci si rende conto, soprattutto grazie ad inchieste relativamente recenti, che il ruolo delle donne non solo è concreto ma diviene spesso rilevantissimo anche se destinato a non essere mai formalmente riconosciuto dall’organizzazione stessa.

Usuraie, spacciatrici, postine, cassiere, vendicatrici, istigatrici, strateghe. I ruoli incarnati dalle donne di ‘ndrangheta oggi sono tanti. Ma prima di tutto le “fimmine” sono mogli, madri, sorelle, figlie, nonne. Questo significa che a loro è delegato il ruolo di procreatrici e di educatrici. Sono le madri, solitamente divenute tali da giovanissime, a dover inculcare ai loro figli i principi essenziali della vita di ‘ndrangheta. Sono le madri a tramandare una logica fatta di gerarchie, di rispetto, di violenza, di sangue da onorare e vendicare, se necessario. Insegnano tutto ciò che è stato insegnato loro, ammaestrano i figli secondo principi che reputano sacri nutrendo e saldando quei legami che sono alla base della stessa esistenza della ‘ndrangheta. Legami di sangue che fanno la forza dell’organizzazione mafiosa più potente del mondo, legami che si spezzano solo con la morte e che rappresentano il collante più potente che si possa immaginare.

Le donne sono rimaste per molto tempo fuori dalle incriminazioni formali. I dati raccolti e indicati dalla Iantosca sono chiari: “nel 1990 solo una donna era stata incriminata di associazione mafiosa. Nel 1995 erano diventate 89…“. Sale vertiginosamente, nel tempo, anche il numero di donne arrestate per possesso e traffico di stupefacenti, per riciclaggio di denaro sporco e per usura. La domanda nasce spontanea: “E’ verosimile una loro improvvisa comparsa e un’escalation di violenza nei loro comportamenti? O è più probabile una tardiva presa di coscienza della loro esistenza?“. Le donne sono ombre. Non devono mostrarsi, non devono parlare, non devono attirare l’attenzione. Non serve che vengano affiliate secondo i classici rituali di mafia perché “come madri, mogli, figlie, sorelle di uomini d’onore fanno già parte integrante dell’organizzazione“. Alle donne non serve far carriera perché sono implicitamente affiliate pur restando in una posizione di inferiorità e sottomissione. Le regole sostanziali di una ‘ndrina sono basate su principi maschilisti: le donne devono restare in casa, seguire i figli, accontentare i mariti e tacere. Una posizione così defilata che, per tantissimo tempo, ha indotto gli stessi inquirenti a sottovalutare il ruolo della donna considerata compagna del mafioso e non mafiosa a sua volta.

A portare allo scoperto le donne, l’arresto degli uomini“. Se l’uomo viene arrestato tocca alla donna prendere in mano la conduzione degli affari, soprattutto da quando gli affari della ‘ndrangheta non implicano necessariamente violenza ed uccisioni. Le donne si sono dimostrate spesso molto più scaltre e in gamba degli uomini nella conduzione di attività illecite come il traffico di droga o il riciclaggio di denaro sporco. Molte mogli, quindi, si trovano così a gestire un potere che è arrivato tra le loro mani solo dopo l’arresto o la latitanza dei propri mariti nella cui ombra, comunque, continuano a muoversi ed operare. Perché il rispetto dovuto a queste “donne d’onore” deriva solo ed esclusivamente dal fatto che continuino ad essere mogli o madri di affiliati. Le giovani solitamente sono destinate a sposare figli o nipoti di altre famiglie appartenenti all’Onorata per rafforzare alleanze o per crearne di nuove. Non hanno diritto di parola né di scelta. Vengono costrette a lasciare la scuola e a restare chiuse in casa fino a quando non arriva il marito che è stato scelto per loro. Ed accettano con rassegnazione questo destino perché non possono fare nulla per evitarlo: sono state cresciute secondo queste regole e non ne conoscono altre.

Nella ‘ndrangheta i pentiti sono pochissimi, ancora più rari i casi in cui sia stata una donna a collaborare poiché per un mafioso calabrese pentirsi e collaborare vuol dire sostanzialmente denunciare i propri familiari e, come scritto sopra, il legame di sangue che esiste tra gli affiliati rimane un forte deterrente. Eppure, nonostante tutto, ci sono donne, rarissime e coraggiose, che hanno scelto di parlare. La prima è stata Maria Concetta Managò che inizia a parlare nel 1994 raccontando la sua storia all’allora ex Procuratore aggiunto della Procura di Reggio Calabria, Salvatore Boemi. Maria Concetta inizia a collaborare, come spiega in diverse occasioni, per salvare i suoi figli pur patendo la loro ostilità. E come lei riescono a spezzare la pesante catena dell’omertà anche Giuseppina Pesce, Denise Cosco e Rita Di Giovine. Accanto a loro la Iantosca affianca anche i nomi e le storie di donne che hanno pagato con la vita il loro desiderio di uscire dalle spire della ‘ndrangheta. Donne che sono state “suicidate” come Maria Concetta Cacciola e Santa Buccafusca oppure rapite, uccise e bruciate come Lea Garofalo, madre di Denise Cosco, la cui vicenda è nota a molti.

Il potere che le donne di ‘ndrangheta hanno, quindi, è molto più radicale e rivoluzionario di quanto esse stesse probabilmente immaginano. Sanno, vedono, ascoltano, vivono la ‘ndrangheta sulla loro stessa carne. Ci sono donne che accettano remissivamente il proprio ruolo e, anzi, rivendicano la loro identità mafiosa al pari degli uomini. Altre donne, invece, prendono coscienza della loro individualità e si rendono conto che la strada per la liberazione passa attraverso la ribellione, quella che conduce a riappropriarsi di un’esistenza da sempre negata. Le confessioni di alcune collaboratrici permettono di mandare in crisi interi clan, le donne hanno il potere di far saltare molti dei meccanismi che sostengono l’economia e la conservazione dell’organizzazione mafiosa calabrese. Ed Angela Iantosca lo scrive chiaramente: “la ‘ndrangheta lo sa e comincia ad aver paura“.

Edizione esaminata e brevi note

Angela Iantosca è nata a Latina nel 1978. Ha conseguito una laurea in Scienze Umanistiche presso l’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi in Storia Romana. Dal 2003 lavora come giornalista per diverse testate: F (Cairo editore), Più Sani più Belli (Ed. Master), Occhio alla Spesa (Ed. Master), Sos Tata (Ed. Master), Acqua&Sapone (Ed. Medium). Ha lavorato per il quotidiano “Pubblico” di Luca Telese e nella redazione di “L’aria che tira”, programma di La7 condotto da Myrta Merlino. “Onora la madre. Storie di ‘ndrangheta al femminile”, edito da Rubbettino, è il suo primo libro.

Angela Iantosca, “Onora la madre. Storie di ‘ndrangheta al femminile“, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Catanzaro), 2013. Prefazione di Enzo Ciconte.

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