Argento Dario

Inferno

Pubblicato il: 29 Gennaio 2007

Dopo Suspiria, prima incursione argentiana nella fiaba gotica macchiata di (parecchio) sangue, l’evoluzione del cinema del regista romano proseguì, sulla stessa falsariga, con Inferno, capitolo secondo di una trilogia immaginata ma non ancora portata a termine. Ci eravamo lasciati con le streghe e ci ritroviamo, attraverso suggestioni che rievocano il registro fiabesco di Suspiria, in un universo in cui l’orrore è ancor meno visibile e comprensibile, affatto limpido e determinale. Nonostante ciò, questo orrore sfuggente è capace, come vedrete, di generare un incubo terrificante all’interno del quale non esistono vie di fuga.

La trama quanto mai irrazionale, scomposta, slegata e quasi priva di senso logico è solo un pretesto per dar libero sfogo alle allucinazioni argentiane, ad un delirio visionario che non ha eguali in tutta la produzione del regista romano. La vicenda prende avvio a New York, attraverso un libro antico che evoca il dominio delle “Tre madri” – Mater Sospiriorum, Mater Lachrimorum e Mater Tenebrarum (sospiri, lacrime e tenebre) – sul mondo occidentale. Tre le case costruite come loro eterna dimora, tutte all’inizio del Novecento: a Friburgo (dove era ambientato Suspiria), a New York e a Roma. Ci si sposta a Roma, allorché Rose, poetessa appassionata di libri antichi, avendo trovato congruenza tra alcune sensazioni e suggestioni contenute nel testo in questione e la realtà che la circonda, spedisce una lettera al fratello Mark, musicologo americano trapiantato nella Capitale. Ma Mark non riesce a leggere il testo della missiva, improvvisamente ottenebrato da una sensazione di spossatezza inspiegabile, sulle note del Nabucco di Verdi, mentre due occhi che sono specchio di feroce bellezza lo fissano intensamente. La lettera è però raccolta da un’amica collega (Eleonora Giorgi) la quale, stupefatta e incuriosita dalle parole di Rose, va a cercare il libro maledetto in una biblioteca romana. La spirale di morte è oramai innescata, la potenza terrificante dell’orrore imperscrutabile si manifesta e miete vittime: la sorella e l’amica di Mark hanno le ore contate. Il giovane musicologo accorre a New York ma non trova tracce della sorella. Si stabilisce nella camera del palazzo che ospitava Rose, cominciando a cercare indizi per capirne di più. Gli abitanti dello stabile sono soggetti eccentrici e distaccati, dai quali Mark cerca inutilmente di carpire notizie sulle ultime ossessioni della sorella. Nemmeno l’antiquario che ha venduto il libro a Rose è molto loquace: nessuno, in sostanza, sembra sapere dove sia e cosa sia successo alla ragazza, improvvisamente scomparsa nel nulla. Mark ha pochi indizi da poter seguire, tra i quali stralci della lettera della sorella trovati nella stanza dell’amica morta. Tra le poche righe comprensibili, una frase continua a ronzargli in testa: “La terza chiave è sotto la suola delle tue scarpe”. L’orrore si avvicina, miete nuove vittime, stringe il cerchio intorno al musicologo il quale, osservando la pianta del palazzo, ha un’intuizione: esiste una sorta di terra di mezzo tra un piano e l’altro, una via che porta a scoprire il segreto delle tre madri e di chi ha generato l’orrore, alimentando il loro occulto potere. La Madre delle Tenebre è in attesa, e tra le fiamme che divampano arriverà a manifestarsi.

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Visti i deliri e le ossessioni sovrabbondanti, l’uso dei colori scelti e l’amplificazione della componente visionaria, Inferno è certamente il film più personale e intimo di Dario Argento, che nella fattispecie abbraccia l’horror gotico senza se e senza ma, allontanandosi totalmente dalle primissime opere. Il gioco che innesca con lo spettatore è tutto emotivo, cerca un feedback ossessivo, perverso e allo stesso tempo infantile, sovraccaricando l’effetto visivo non tanto per stupire o accendere fuochi che potrebbero rivelarsi fatui, quanto per aprire voragini nell’inconscio, da riempire con incubi tanto inverosimili quanto potenti. Difficile rimanerne immuni, improbabile costruire barriere. E poi c’è tutto il suo cinema, i virtuosismi della macchina da presa, le carrellate improvvise, la fotografia claustrofobica, l’iperbole degli oggetti, l’uso e l’abuso del rosso dominante, l’architettura dai rimandi simbolici, la forte componente espressionista, la follia che magicamente assembla tutte queste componenti. C’è una scena di morte doppia, sulle note del Nabucco, in una stanza che sembra a grandezza naturale ma che improvvisamente, attraverso il suo occhio deformato, ci introduce in un corridoio lungo (infinitamente lungo) in cui la luce viene e và. Il Nabucco si interrompe, il Nabucco ricomincia, la luce viene, la luce và, la morte si manifesta, colpisce, imprigiona, colpisce ancora ed evapora – cosi, come per magia. Al buio, anche nella casa di New York, le dimensioni percepite attraverso la luce di opposizione si dilatano, ci sono tanti vetri, tante porte, infinite scale, troppo silenzio. Anche qui è in atto una deformazione, un’illusione ottica: per quanto la pellicola sia del tutto irrazionale e faccia riferimento al sovrannaturale, la dimensione fisica e psichica in cui ci catapulta Argento è la stessa di sempre. Non c’è trucco e non c’è inganno, né interpretazione possibile diversa da quella della suggestione creata attraverso il gioco di specchi, attraverso il pathos che egli genera in noi facendoci perdere costantemente la cognizione spazio-temporale: Argento crea il campo visivo – come oramai sarà chiaro siamo noi spettatori, con la nostra disposizione percettiva, a fare il resto.

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Gli attori, qui come non mai, sono davvero di passaggio per la storia; i più noti al tempo, Eleonora Giorgi e Gabriele Lavia, muoiono quasi subito, la presenza di Alida Valli è del tutto marginale e il protagonista è sempre sopraffatto dagli eventi. Non vi è il minimo dubbio che qui il protagonista unico sia l’inconscio del regista fattosi immagine, mai tanto carico e debordante, mai tanto ossessivo e visionario. A questo proposito, facendo un doveroso raffronto con le boiate irrazionali dell’ultimo decennio, risulta evidente che Inferno, pur privo di un soggetto lineare, di una sceneggiatura razionale, di un’idea narrativa classica, raggiunge l’obbiettivo che Argento si era posto. Non solo e non tanto gli incassi, che furono ottimi (all’inizio degli Ottanta Argento era all’apice della notorietà, in Italia come all’estero), ma l’idea di regalare allo spettatore amante un giocattolo attraverso il quale solleticare le proprie paure inconsce e le piccole-grandi ossessioni da cui nessuno è immune. Fascinosa e azzeccata la colonna sonora, affidata questa volta a Keith Emerson, che si fa ritmo indiavolato in alcune sequenze le quali, al contrario, non sono particolarmente concitate e seguono i protagonisti in fuga (molto lenta: Rose) o in ricerca (Mark). Argento si diverte anche con i sempre presenti rimandi esoterici-letterari, mostrandoci una targa posta all’ingresso del palazzo-dimora della Madre delle Tenebre in cui si evince che Gurdjeff fu uno dei suoi noti inquilini; anche ispirando, con il negozio d’antiquariato Kazanian, lo Sclavi del tempo dei primordi dylandogghiani (ricordate Safarà?). In definitiva, non è l’Argento migliore che si ricordi, né, come è evidente, quello di più facile interiorizzazione, ma è una tappa fondamentale per capire l’evoluzione del suo percorso artistico. In quest’ottica, senza dubbio da riscoprire e rivalutare.

Federico Magi, gennaio 2007.

Edizione esaminata e brevi note

Regia: Dario Argento.  Soggetto e sceneggiatura: Dario Argento. Direttore della fotografia: Romano Albani. Costumi: Massimo Lentini. Scenografia: Giuseppe Bassan. Montaggio: Franco Fraticelli. Interpreti principali: Leight McCloskey, Eleonora Giorgi, Gabriele Lavia, Irene Miracle, Sacha Pitoeff, Daria Nicolodi, Leopoldo Mastelloni, Alida Valli, Veronica Lazar, Anja Pieroni. Effetti speciali: Mario Bava, Germano Natali. Musica originale: Keith Emerson. Produzione: Claudio e Salvatore Argento per la Intersound di Roma. Origine: Italia, 1980. Durata: 107 minuti.