Parise Goffredo

Atti Impuri (“Amore e fervore”)

Pubblicato il: 5 Luglio 2010

“Perché la critica si sia tanto accanita contro questo romanzetto (fine di una ideale trilogia iniziata con Il prete bello, proseguita con Il fidanzamento) non so proprio. […] Non è certamente un capolavoro, questo lo so anch’io, ma visto nella trilogia ha un senso. […] Visto per la prima volta a distanza di quattordici anni dalle bozze di allora, è un ritratto, tra grottesco, lugubre e comico, della bigotteria italiana. Pare a me.[…] Molta poesia non c’é. Ma c’è irrisione,beffa, e anche analisi di una putrefazione educativo-sociale del sottomondo cattolico.” (Dalla lettera di Parise del 15 giugno 1973 a Daniele Ponchiroli, redattore della casa editrice Einaudi).

Le parole dello stesso Autore e il fatto che il romanzo chiuda in qualche modo una trilogia sono l’unica giustificazione di queste righe. Esigenze di completezza e precisione di analisi mi inducono a scrivere di un testo, da tempo non più ristampato singolarmente, che altrimenti avrei lasciato perdere.

Atti impuri”, originariamente intitolato, per volere dell’editore,“Amore e fervore”, fu pubblicato in prima edizione da Garzanti nel 1959. Nel 1973 Einaudi lo ripropone col titolo “Atti impuri” e con un notevole taglio finale operato dall’Autore.

Tra i pochi pareri favorevoli al libro ci fu quello di Gadda, seppure espresso in sede privata.

Veniamo a qualche cenno sulla trama.

Marcello, il protagonista, è un uomo bigotto, che vive in provincia. Sposato con Maria Grazia, che non ama, conduce un’esistenza piuttosto grigia tra devozioni religiose e vita d’ufficio.

Tutte le mattine partecipa alla Messa e si comunica, si confessa molto spesso, è in amicizia con numerosi sacerdoti. Il suo senso del peccato sembra essere concentrato tutto sul sesso coniugale, considerato “atto impuro” se non è volto alla procreazione (che pare non riesca ai due coniugi, su questo argomento si dice poco).

Piacevole, ripugnante? Come sempre, quando il morso del desiderio carnale lo afferrava alla sprovvista, gli era parso che a toccarlo, a guizzare così contro la sua schiena e i glutei fosse stato un pesce, oppure una nuotatrice senza pinne e squame, né ossa, né lische, dal corpo forte di migliaia di tendini”. (p.696)

Marcello , orfano dall’età di due anni, vive in una grande casa cupa con un insieme di zii viventi e con le ombre di quelli defunti, le cui camere sono ancora intatte, dopo la loro morte, simili a vecchi musei. La famiglia possiede una Cereria Pontificia, anima della quale – ed effettivo capofamiglia – è zia Marta, che ha sempre deciso anche le sorti di Marcello: per suo volere si è laureato in Legge e poi si è sposato con Maria Grazia, una maestra elementare, leggermente zoppa, dal corpo bianco e delicato, infantile e vecchio allo stesso tempo “come certi fiori che pur essendo immacolati e ancora in boccio, appassiscono al bordo dei petali e sono già un poco morti appena nati.” (p.726)

Verso di lei Marcello non prova alcuna attrazione e si sottrae alle sue proposte amorose, pur legittime in quanto coniugali, stringendosi nel suo accollato camicione da notte e recitando preghiere.

Al massimo lui prova una tenerezza, “che sorgeva da caritatevole bontà per la sua gamba difettosa”.

L’atmosfera in cui si muove Marcello è di falsopretismo, di affettazione religiosa, la fede sembra essere esteriorità, partecipazione a riti, una specie di solletico dello spirito, che non cambia l’individuo in meglio, anzi non fa che avallare, tramite i compromessi e le menzogne più studiate, i suoi vizi e difetti.

Un giorno al parco Marcello incontra Gianna Ciriaci, un’infermiera che ha già visto in occasione di una sua visita all’ospedale in qualità di segretario del sindaco.

Gianna ha un “odore salso come quello dei pontili di Venezia sotto il sole di agosto”, eccita Marcello, che con lei finisce per avere una storia e commettere quindi un clamoroso adulterio.

Gianna è molto diretta nel parlare, è spregiudicata, provocante, sensuale, a volte volgare, è molto chiacchierata in città e considerata dai borghesi una specie di prostituta, di cui naturalmente numerosi hanno goduto, anche se non sta bene dirlo.

Marcello subirà le conseguenze del suo atto e susciterà lo scandalo nella famiglia, ma la sua mentalità lo fa ringraziare Dio per Gianna, nessun accenno all’adulterio, che pure la sua fede vieterebbe. Le parole di condanna e disprezzo di parenti e conoscenti costituiscono per lui “la corona di spine che doveva portare per la conquista del regno amoroso della Ciriaci”.

L’adulterio non viene riconosciuto come peccato, sebbene Marcello all’inizio del rapporto con Gianna si infligga penitenze molto rigide per il desiderio e la gioia provati. La perversione del protagonista ha ideato un cilicio particolare con aghi e chiodi intrecciati alla corda.

La Ciriaci gli provoca delle estasi in cui sacro e profano si mescolano:

Erano estasi in cui, ad insaputa di Marcello, lo struggimento amoroso per la donna si confondeva nelle delizie dell’abbandono mistico: amava Gesù, ma poiché se ne sentiva indegno per non saperlo amare abbastanza, allora amava disperatamente la bellezza della Ciriaci che di quella di Gesù era una piccolissima parte e per la quale osava sentirsi, se non del tutto, almeno un poco più degno”. (p.725)

È evidente che l’Autore nutre un profondo disprezzo e avversione per tutto ciò che è borghese e il romanzo vuole dare un quadro di quanta ipocrisia e falsità allignino nelle pieghe di certa provincia.

Il risultato non è esaltante, sono però interessanti i numerosissimi paragoni uomo/animale, che delineano i vari personaggi.

Le vecchie zie di Marcello sono dette le”gazze bianche”, lo zio Mariano pare un uccello tropicale, Gianna è animalesca, il suo corpo nudo al sole è come “un grande pesce d’oro”; oppure ondeggia come una medusa. Maria Grazia sembra invece un cane quando cerca di suscitare nel marito un po’ di desiderio.

Marcello stesso, una volta adultero, diventa per i famigliari, un cane o comunque un anormale, un pazzo o un malato, che va curato e riportato sulla retta via per il suo bene.

Questa la mentalità ottusa e perbenista, caricata fin all’eccesso ed estremamente fastidiosa, tanto che, alla fine del libro, si prova un senso di disgusto verso tutto questo perverso modo di pensare.

Articolo apparso su lankelot.eu nel luglio 2010

Edizione esaminata e brevi note

Goffredo Parise (Vicenza, 1929 – Treviso, 1986), scrittore, sceneggiatore e giornalista italiano.

Goffredo Parise, Atti impuri,in Opere, vol.I a cura di Bruno Callegher e Mauro Portello. Introduzione di Andrea Zanzotto. Milano, Mondadori, I Meridiani 1987.

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