Campana Dino

Canti Orfici

Pubblicato il: 10 Luglio 2006

La lettura dei Canti Orfici di Dino Campana si rivela un’esperienza estetica notevole e, per certi versi, sorprendente.

Nel panorama letterario italiano Campana è un unicum: difficile incanalarlo o accostarlo ad altri autori, vi sono certamente in lui richiami carducciani e dannunziani, echi di Dante, la stima per Leopardi, ma la sua volontà di distacco, il suo senso dell’originalità è estremamente forte.

Ardenti le sue critiche e il suo disprezzo verso la palude melmosa nella quale sembra essersi arenata la cultura italiana (gli strali andranno specialmente a Papini e Soffici, colpevoli tra l’altro di avergli perduto il manoscritto originario dei Canti Orfici, in realtà riemerso poi nel 1971).

Più notevoli le aperture verso le letterature straniere: Poe, Whitman, richiamato nel colophon dei Canti orfici, Nietzsche e Wagner per i quali Campana ebbe interesse, il simbolismo francese, Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, Maupassant, Jammes, Bergson, ma certo Campana stesso è renitente a darsi dei modelli precisi.

La dedica della sua opera, “A Guglielmo II Imperatore dei Germani”, e il sottotitolo in tedesco “Die tragödie des letzten Germanen in Italien” (la tragedia dell’ultimo Germano in Italia) in fondo rivelano come Campana si sentisse estraneo alla cultura italiana del suo tempo e ambisse a una dimensione più vasta, mittel o nordeuropea della letteratura.

E si noti come egli usi il termine “Germano” e non tedesco, che sarebbe riduttivo. A margine fiorisce poi tutta un’aneddotica che narra come Campana abbia voluto tale dedica per indispettire ancora di più quanti in paese lo perseguitavano.

I Canti Orfici costituiscono un testo estremamente frammentario, dove s’alternano prose liriche e poesie, che trascinano in un vortice di visioni, d’immagini straordinarie che paiono procedere attraverso balzi, slanci improvvisi ad alta densità lirica ed immaginativa.

Il poeta è un iniziato a grandi misteri: già il titolo della raccolta, da un lato, si rifà alla tradizione che da Pascoli risale a Leopardi, dall’altro si riferisce a Orfeo e quindi a una poesia esoterica, capace di cogliere grandi segreti, di esplorare l’inconscio e l’inconoscibile e di trasfigurare esperienze reali con una forza straordinaria, una poesia che potremmo definire dionisiaca e che costituisce un’esperienza totalizzante ed assoluta.

I Canti Orfici sono fittissimi d’immagini, di simboli, colpiscono per la straordinaria capacità dell’Autore di trasformare dall’interno quanto vissuto nella realtà collocandolo nella luce dell’infinito, ai confini del sogno, rivivendolo con un’accensione fantastica assoluta, che trascina con se tutti i sensi.

Ecco allora le città divenire luoghi straordinari: la mediterranea Genova col suo porto; Faenza: “Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo” (p. 9) città del ginnasio; Bologna, luogo degli studi universitari.

Le città sono popolate da figure femminili: matrone opulente e peccatrici, prostitute, ragazze che richiamano icone bizantine, cartomanti, donne dal profilo di medaglia o “siracusano”, “la classica mediterranea femmina dei porti” (p. 133), sibille, sfingi, corpi ambrati e flessuosi, le regine peccatrici di Dante, incontri lussuriosi e notturni in atmosfere esotiche e misteriose.

Spesso troviamo la triade poeta, matrone, ancella.

E la sacerdotessa dei piaceri sterili, l’ancella ingenua ed avida e il poeta si guardavano, anime infeconde inconsciamente cercanti il problema della loro vita” (p. 12).

Sono frequentissimi i riferimenti alle arti figurative (Michelangelo, Leonardo, Ghirlandaio).

La ricerca della bellezza sembra passare attraverso questi incontri svariatissimi, ma su tutte le figure domina la Chimera, la Poesia, sorella della Gioconda leonardesca, meta agognata, desiderio irrealizzato, creatura sfuggente e misteriosa.

Ed il mio cuore era affamato di sogno, per lei, per l’evanescente come l’amore evanescente, la donatrice d’amore dei porti, la cariatide dei cieli di ventura. Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva tra le mani rosse il mio antico cuore” (p. 20).

Temi ricorrenti nei Canti Orfici sono: il viaggio, cui non è estranea l’inquietudine esistenziale che portò Campana a spostarsi continuamente finché fu libero di farlo, e il ritorno, la notte – Campana è poeta notturno – la ricerca della bellezza, la capacità di cogliere scorci naturalistici e architettonici degna delle migliori arti figurative, il cromatismo, caro anche ai simbolisti, il senso del dolore, dell’isolamento e di un proprio destino (“io dovevo restare fedele al mio destino” (p. 75)

Le descrizioni sono ricchissime di dettagli prospettici ed architettonici: ponti, arcate, rosse torri, vicoli, canali, finestre, fontane, lapidi e statue. Ed ancora costellazioni misteriose unite a una tavolozza di colori:rosso e oro, azzurro, bianco, verde “bizantino”.

La notte, la gioia più quieta della notte era calata. Le porte moresche si caricavano e si attorcevano di mostruosi portenti neri nel mentre sullo sfondo il cupo azzurro si insenava di stelle. Solitaria troneggiava ora la notte accesa in tutto il suo brulicame di stelle e di fiamme. Avanti come una mostruosa ferita profondava una via. Ai lati dell’angolo delle porte, bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso poggiato alla palma” (p. 20).

Campana procede per analogie e sinestesie; non è estraneo a una dimensione musicale, sonora: “Per rendere il paesaggio, il paese vergine che il fiume docile a valle solo riempie del suo rumore di tremiti freschi, non basta la pittura, ci vuole l’acqua, l’elemento stesso, la melodia docile dell’acqua che si stende tra le forre all’ampia rovina del suo letto, che dolce come l’antica voce dei venti incalza verso le valli in curve regali: poi ché essa è qui veramente la regina del paesaggio” (p. 47).

Melodia invisibile e silenzio dunque, fruscii, tremiti, sussurri, voci, remoti canti, tutto conduce al sogno, al mistero, allude e non svela mai totalmente, richiede immaginazione e un abbandono alle zampillanti visioni della mente creatrice.

La visione trasforma: “Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni dell’adolescenza” (p. 10). Qui l’io narrante inizia a trasformarsi in un io osservato – “la mia ombra” dirà in seguito e in un lui “Fu scosso”. L’io si scinde nell’affrontare le visioni.

Il poeta ha consapevolezza di essere un fuggiasco (“il mio destino fuggitivo” p. 47) e questo suo errare si riflette nei racconti di alcuni suoi viaggi: il pellegrinaggio alla Verna, “fortezza dello spirito”, a tappe attraverso paesini ancora barbarici fino al luogo sacro, permeato di misticismo; il lungo viaggio in America fino a Montevideo con il fascino della pampa.

Lentamente gradatamente io assurgevo all’illusione universale: dalle profondità del mio essere e della terra io ribattevo per le vie del cielo il cammino avventuroso degli uomini verso la felicità a traverso i secoli. Le idee brillavano della più pura luce stellare” (p. 93).

Mi ero alzato. Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio” (p. 96).

Con orgoglio e sfida al cielo stesso, il poeta sente di poter cogliere l’infinito in pienezza assoluta. È una poesia che s’interseca con la vita e la trasforma dall’interno, talvolta con visioni allucinate e inquietanti, talvolta con immagini pacificatrici e serene.

Campana bruciò se stesso nell’impresa, non ebbe limite, i suo canti dovevano essere la giustificazione della sua vita e rimanere a testimonianza di un percorso poetico ed esistenziale tormentato e osteggiato dai contemporanei.

Stilisticamente i testi sono ricchi di richiami interni, assonanze, ripetizioni, sono frammentari eppure nonostante i mezzi retorici non siano sempre eccelsi, riescono a far soffiare un vento nuovo, un’originalità unica, una passione autentica, senza limiti, per l’Arte, quale raramente è dato trovare.

Articolo apparso su lankelot.eu nel luglio 2006

Edizione esaminata e brevi note

Dino Campana (Marradi, 1885 – Castel Pulci, 1932), poeta italiano.

Dino Campana, “Canti Orfici e altre poesie”, Torino, Einaudi Tascabili 2003. A cura di Renato Martinoni. Ottima edizione con introduzione, note e appendici filologiche ben curate.