Ricapito Francesco

Reportage Dal Senegal – La città Santa Di Touba – Parte 2

Pubblicato il: 15 Febbraio 2017

Mbour, domenica 15 gennaio 2017 – 17:15

Intorno alle sei e mezza vengo svegliato da una cacofonia simile a quella di una mandria che muggisce. Sono ancora mezzo assonnato ma capisco subito che si tratta del richiamo alla preghiera: ogni muezzin chiama i propri fedeli dalla moschea con l’aiuto di potenti altoparlanti. Nulla di male in sé, diciamo che è l’equivalente delle nostre campane. Esattamente come capita da noi però, non tutte le chiese sono sincronizzate al secondo, alcune cominciano prima ed altre dopo. In questo caso si tratta di canti e non di campane e il risultato è appunto un miscuglio impressionante e non molto piacevole per un povero infedele come me.

Per fortuna lo strazio dura poco e posso quindi riaddormentarmi. Mi risveglio sulle otto e mezza. Per colazione troviamo pane con burro e del caffè Touba: venne inventato da Amadou Bamba in persona, che ne perfezionò la ricetta e la introdusse in Senegal al suo ritorno dall’esilio in Gabon, nel 1902. Da allora questa bevanda è diventata una sorta di simbolo identitario a livello nazionale. Non c’è ora del giorno in cui non sia possibile acquistarne una tazza dai venditori ambulanti che vanno in giro con grandi thermos e non c’è tangana, ristorantino locale molto alla buona, che non lo serva. Si tratta di un caffè molto zuccherato a cui vengono aggiunti chiodi di garofano e del djar, ossia pepe di Guinea. Prima di essere servito viene travasato più volte da un bicchiere all’altro per creare uno strato di schiuma superficiale che sembra superfluo, ma che in effetti ne esalta il sapore.

Questo che assaggiamo è fatto in casa e ovviamente è buonissimo. Non so bene quale sia il contenuto di caffeina, ma come tutte le bevande senegalesi, quello di zucchero è scandalosamente alto.

Finita la colazione usciamo con Samba: come ieri, prendiamo il carretto che porta fino al mercato, stavolta però proseguiamo oltre e ci avviciniamo alla grande moschea. C’è molta più gente la mattina e il nostro carretto deve letteralmente fare lo slalom per non colpire qualcuno. L’ultimo tratto lo facciamo a piedi e nel frattempo intorno a noi si sono moltiplicati i negozi di souvenir: ci sono delle collane che hanno lo stesso scopo dei rosari cristiani e poi poster, pendenti e magliette tutti raffiguranti Amadou Bamba o qualcuno dei suoi eredi. A questi si aggiungono migliaia di differenti edizioni del Corano, sempre ed esclusivamente in arabo. Non è decisamente merce destinata a turisti normali, qui si punta sui pellegrini.

La strada si apre su un grande incrocio che c’introduce nello spiazzo della grande moschea: questa venne inaugurata nel 1963 e con la sua capienza di circa 7000 persone, è una delle più grandi di tutta l’Africa. Dei suoi cinque minareti, quello più alto misura 87 metri ed è chiamato Lamp Fall, in onore di Ibrahima Fall, uno dei discepoli più famosi di Amadou Bamba. Attualmente sono in corso ulteriori lavori di abbellimento e quindi alcuni dei minareti sono circondati da impalcature, così come parte degli edifici che la circondano. S’intuisce subito che non si è badato a spese per la costruzione: marmi rosei e bianchi (quest’ultimi provenienti da Carrara) risplendono sotto il sole e creano un bellissimo contrasto con le due cupole blu mare, grandi arcate decorate con motivi geometrici corrono lungo tutto il perimetro, la pavimentazione è liscia e anch’essa decorata elegantemente. Dentro l’edificio principale si trova la tomba di Amadou Bamba. Nel grande cortile che la circonda, e dove bisogna camminare scalzi, ci sono altri edifici più piccoli dove riposano alcuni dei suoi figli.

Non appena ci avviciniamo ecco che arriva l’immancabile guida improvvisata. Qui in Senegal è uno dei giochetti preferiti: abbordare degli ignari turisti, fargli fare un rapido giro turistico come se si trattasse di un favore e poi alla fine chiedere un compenso per il servizio. Io lo trovo decisamente fastidioso e se fossimo da soli declineremmo gentilmente l’offerta. Essendo con Samba però, decidiamo di lasciare fare a lui. I due discutono tra di loro e poi il tizio resta con noi e comincia con alcune spiegazioni.

Entriamo nel cortile e camminiamo lungo il perimetro dell’’edificio principale. Intorno ad esso ci sono molti porticati o navate secondarie ancora in fase di allestimento. Bancali carichi di lastre di marmo sono accatastate contro i muri ancora imballati.
Arrivati all’entrata ci fermiamo sulla soglia oltre la quale non possiamo andare: dentro vediamo una serie di eleganti arcate e una fontana per le abluzioni. Le decorazioni sono veramente squisite ed eleganti.

Usciamo dal cortile e ci rimettiamo le scarpe. Lasciamo mille franchi a testa alla nostra guida per liberarcene, ma questo, forse mosso dalla generosità dell’offerta, decide di mostrarci anche il vicino cimitero. Il cimitero di Touba è il luogo dove ogni seguace del muridismo sogna di essere seppellito. Si trova di fianco alla moschea e ospita molti personaggi illustri, tuttavia dal 2014 ne è stato aperto un altro in periferia per via della mancanza di spazio. Samba ci racconta che tutti i defunti vengono comunque portati qui per le benedizioni e le preghiere prima di essere trasferiti nell’altro cimitero. Ecco come mai non è raro vedere auto e pulmini con sopra bare di legno diretti verso la città santa.

Come per la moschea, ci leviamo le scarpe all’entrata. Tra le tombe importanti, quella che spicca di più è senza dubbio quella di Ibrahima Fall, il più devoto seguace di Amadou Bamba. Nacque nel 1856, come Bamba era figlio di una famiglia nobile e da giovane s’immerse negli studi coranici e teologici. Il suo incontro con Bamba segnò le sorti del muridismo, gli giurò eterna fedeltà e lo aiutò a stabilire le regole del nuovo movimento, in particolare la parte riguardante la cieca obbedienza dei fedeli al capo spirituale.

Fall stesso divenne una delle figure più importanti all’interno della confraternita: fondò i Baye Fall, una specie di “confraternita nella confraternita” dove il seguace lascia tutti i suoi interessi materiali e si dedica corpo e mente all’obbedienza e alla fede, che spesso deve essere dimostrata tramite il lavoro per conto del marabout, il capo religioso. Oggi spesso si possono vedere i Baye Fall camminare per le strade a chiedere qualche moneta per sostenersi. Sono facili da riconoscere: sono vestiti con larghi boubou coloratissimi, portano lunghi rasta e quando vedono un bianco lo assalgono finché questo non sgancia qualche offerta.

Ormai è un fatto che alcuni Baye Fall hanno interpretato a modo loro le idee di Ibrahima Fall e questo li ha portati spesso a confondersi con i rastafariani. Fall morì nel 1930 e venne sepolto appunto a Touba, dopo essere stato nominato Lamp Fall “faro del muridismo” e Babul Mouridina, “Porta del muridismo”.

L’edificio che ospita la sua tomba non è molto grande ma sembra piuttosto recente. All’entrata ci sono un paio di Baye Fall di guardia, dentro troviamo un paio di tombe secondarie e poi al centro quella di Ibrahima Fall: un esagono foderato di rame con incise scritte in arabo e circondato da un recinto. Qualche fedele sta pregando, le donne da un lato e gli uomini dall’altro. Ci inginocchiamo anche noi qualche minuto in silenzio. Quando vedo Samba fare una foto col il telefono prendo coraggio e ne faccio una pure io.

Usciamo di nuovo, tornando nel parcheggio antistante il cimitero dove la nostra guida ci lascia definitivamente. Qui ci sediamo su una panchina all’ombra, di fianco ad una boutique gestita da un amico di Samba. Decidiamo di concederci un altro caffè touba: anche questo è veramente buono e non ha nulla a che fare con quelli assaggiati nel resto del Senegal. Per la prima volta sento veramente il sapore del pepe e si sposa benissimo con quello del caffè.

Finita la pausa ci dirigiamo verso la biblioteca, un’altra delle principali attrazioni della città: è intitolata proprio ad Amadou Bamba e qui infatti sono conservati i suoi scritti e la sua collezione di libri, insieme a buona parte dei manoscritti che fece redigere dai suoi seguaci per conservare e trasmettere la conoscenza dell’Islam. All’entrata Samba si ferma a parlare con il guardiano, un giovane alto e magro con l’espressione molto seria. Questo lascia le sue occupazioni, chiude l’ufficio e ci fa da guida nelle sale della biblioteca. Anche qui dobbiamo toglierci le scarpe: il fatto che in una biblioteca ci siano le stesse regole di un luogo di culto lo trovo bellissimo.

I manoscritti sono tutti ordinati a seconda della tematica e posizionati su decine di scaffali metallici. Sono quasi tutti in arabo. Le varie sale danno tutte su un cortile centrale che sembra quasi un chiostro. Al centro del quale si trova il mausoleo di uno dei figli di Bamba. Nell’ultima stanza che visitiamo troviamo conservati dentro una grande teca di plastica proprio gli effetti personali del fondatore del muridismo: mobili di legno, casse decorate, libri ed un letto. Adama, la guida, ci spiega che Bamba lasciava sempre una copia del Corano sul letto mentre lui dormiva per terra perché non voleva stare più in alto della parola di Allah. Incontriamo ben poca gente durante la visita, questo è un luogo di silenzio e di studio, dove la conoscenza è la cosa più importante.

Usciamo di nuovo: è quasi ora di pranzo e quindi riprendiamo il carretto che ci riporta a casa di Samba. Per pranzo ci viene servito il Thiebudienne: riso con concentrato di pomodoro, pesce e verdure varie. Praticamente è il piatto nazionale, non c’è donna in Senegal che non sappia prepararlo e quando si è ospiti a pranzo a casa di qualcuno è quasi automatico offrirglielo.

Come ieri, le quantità sono abbondantissime, ma cerchiamo comunque di finire tutto per non offendere le cuoche. Il risultato è che una volta finito di mangiare dobbiamo fare una siesta di un paio d’ore per recuperare. Samba fa lo stesso e veniamo svegliati verso le sedici da un buon odore di caffè. Viene dal patio interno della casa, dove la moglie di Samba sta facendo abbrustolire dei chicchi di caffè dentro ad una teglia di metallo.
Li rimesta continuamente affinché la tostatura sia omogenea e lo fa con dei gesti ampi e regolari che deve aver acquisito con la pratica. Di fianco a lei, sua figlia minore la guarda ammirata e allo stesso tempo si tiene a debita distanza da me e Giada. Il nostro pallore un po’ la inquieta.

Usciamo di nuovo, camminiamo fino alla strada principale e qui montiamo su uno dei trasporti pubblici: pick-up Toyota modificati in modo da avere delle panchine nel cassone posteriore. Una sorta di capote le ripara dal sole e dalla polvere e riescono a contenere circa dodici persone. Oltre all’autista, dietro c’è un altro addetto che raccoglie i soldi del biglietto e gli dice quando fermarsi tramite un complesso codice di manate sulla carrozzeria.

Superiamo la grande moschea e scendiamo poco dopo; questa zona ospita un altro mercato, che però non è molto diverso dall’altro. Il motivo per cui siamo venuti è per fare visita ad un amico di Samba: un signore sulla sessantina, molto distinto e dai modi gentili. Parla molto bene italiano ed infatti è là che Samba l’ha conosciuto, la sua casa è piuttosto grande e molto ben arredata.

Restiamo seduti nel salotto, a chiacchierare tranquillamente. El Hadj, questo il suo nome, ci conferma che Touba è una città molto tranquilla, nessuno beve o fuma, non ci sono bar, ristoranti, discoteche e perfino hotel, insomma una città pia e religiosa. Samba questa mattina ci ha detto che l’assenza di strutture ricettive nella città deriva dal fatto che non avrebbero mercato: gli abitanti sono quasi obbligati ad ospitare i visitatori, è una sorta di regola non scritta ma estremamente rispettata. A me il fatto che la città non sia per niente pubblicizzata a livello turistico e che spesso sia a malapena nominata nelle mappe del paese, un po’ insospettisce e sono abbastanza convinto che l’avere troppi stranieri a Touba è una cosa che molti vogliono evitare.

Mentre parliamo ci viene offerto un bicchiere d’acqua che accettiamo senza pensarci troppo. Appena l’assaggio capisco di aver commesso un errore: è acqua del rubinetto, questo significa un probabile mal di pancia prossimamente. Giada come me ha commesso lo stesso errore e per un momento ci guardiamo avendo lo stesso pensiero stampato in faccia: speriamo che gli effetti si presentino domani quando saremo già a casa e nel nostro bagno.

Usciamo e torniamo verso casa di Samba. Stavolta prendiamo un autobus dove stranamente troviamo anche posto a sedere. Per pagare il biglietto bisogna consegnare cento franchi ad un tizio seduto di fianco all’entrata posteriore e che sta dietro ad una sorta di gabbia di metallo, quasi per proteggersi. Capisco subito il perché della grata: in poche fermate l’autobus si riempie all’inverosimile. Giada si trova nel sedile parallelo al mio ma non la vedo più e sul mio braccio si appoggia una signora con un sedere decisamente africano sia per dimensioni che per solidità. Al momento di scendere dobbiamo stare attenti a non colpire nessuno. Senza la sua gabbia, per il controllore sarebbe decisamente difficile fare il suo lavoro.

Per cena ci viene servito un piatto a noi sconosciuto e dal nome non molto chiaro: in pratica è riso con pasta d’arachidi e pesce. Non troppo leggero, ma estremamente gustoso, non fatichiamo troppo a finire la pantagruelica porzione che ci hanno dato. Nel frattempo alla televisione vediamo il discorso molto appassionato di un capo religioso locale a cui segue una sorta di video musicale religioso con tanto di paesaggi idilliaci, tramonti, arcobaleni, inquadrature della grande moschea e fotomontaggi di Amadou Bamba e dei suoi eredi.

L’intensità della cena ci ha messo di nuovo sonno e così alle ventidue siamo già a letto. La notte passa nuovamente tranquilla e la mattina siamo ancora svegliati dai richiami alla preghiera dei tanti muezzin della città.

Una rapida colazione a base di pane e burro e siamo pronti per ripartire alla volta di Mbour. Scattiamo una foto ricordo con Samba e la sua bella moglie e li ringraziamo sinceramente per l’ospitalità. Un taxi ci riporta alla gare routière, dove troviamo facilmente un sept place diretto a Mbour. Durante il viaggio Samba chiama Giada al telefono per dirle che è stato veramente contento di vederla e che si scusa se non è stato un bravo ospite e se la sua casa non era abbastanza bella per noi. Giada cerca di fargli capire che abbiamo gradito moltissimo la sua gentilezza, ma con scarsi risultati.

Durante il viaggio di ritorno pago le conseguenze della mia leggerezza di aver bevuto acqua di rubinetto e sento lo stomaco brontolare minacciosamente. Per fortuna riesco ad arrivare a casa prima che sia troppo tardi.

Noi siamo stati fortunati e abbiamo potuto visitare un angolo molto particolare del Senegal che non molti riescono a vedere. Entrare nella vita degli abitanti di un luogo è sempre un ottimo modo per comprendere qualcosa in più e noi abbiamo solo avuto il merito di cogliere al volo l’occasione.

Francesco Ricapito       Febbraio 2017