Anni fa, su “Linea d’ombra”, Goffredo Fofi puntò il dito contro gli scrittori bizantini e barocchi, alfieri della reazione, quelli che anziché sporcarsi le mani con la realtà si riparavano dietro atmosfere retrò e uno stile antiquato: tra quegli scrittori, in prima fila Fofi poneva Michele Mari.
Che la realtà sia sporca è risaputo, e anche oscena, volgare, cruda, e affondarvi le mani è prassi letteraria diffusa (nomi al volo: Saviano, Lattanzi, Babsi Jones, Bajani, Lagioia, Pascale, ma la lista potrebbe continuare). Quello che sfugge, però, alle periodiche crociate contro i turriseburnei scrittori, è che la realtà non è soltanto sozza, non soltanto sporca le mani, ma è anche terrificante. E il terrore che semina non è necessariamente fatto di sangue, di missilistiche stragi o di camorristiche mattanze, ma è anche l’orrore puro, ontologico, del sapersi creature destinate inesorabilmente alla morte. Un orrore bianco, senza sangue, che non si può togliere o rivoluzionare con appelli all’etica, alla pace universale, all’impegno sociale dello scrittore e del cittadino. Semplicemente, è un orrore che c’è, e ce lo dobbiamo tenere.
“Euridice aveva un cane” è uno splendido libro su quest’orrore primario che è la paura della morte, una paura che è allo stesso tempo certezza, inesorabile e inconsolabile. Una ventina di racconti di metafisica crudeltà e comica cupezza, in cui il registro ironico, anziché sdrammatizzare o alleviare la pena, non fa che rendere ancora più mesta e patetica la rappresentazione della condizione umana. Come ad esempio accade in “Tutti vivemmo a stento”, esilarante descrizione della giornata di un nevrotico ossessionato dai pericoli mortali che si corrono dal momento del risveglio al sonno notturno:
«Sul pianerottolo del suo appartamento riconsiderò l’antico dilemma: scale o ascensore? Scivolar sui lustri gradini e cadere (dopo tre gradini la frattura dell’ilio, a fine rampa frattura della cervice e paresi) o restar chiuso in ascensore e morire di sete e di fame? Sembrando l’inedia preferibile alla paresi non ci sarebbero dovuti essere dubbî, ma solo uno sprovveduto si sarebbe risolto così senza riflettere: lui invece sapeva che la paresi era comunque recuperabile anche per via d’ascensore, causa rottura de’ cavi e precipite crollo, e corretto schiacciamento di vertebre, e che questo rimetteva tutto in equilibrio. Dopo qualche esitare si affidò, come ogni mattina, all’ispirazion del momento, e fûr le scale».
Viene da pensare al monologo “Oh mamma” di Giorgio Gaber (quello del nevrotico che teme di rimanere chiuso in ascensore, che fa avanti e indietro dal letto alla cucina per accertarsi ossessivamente di aver chiuso il gas, e che si addormenta alle cinque del mattino, sul frigorifero, col gas aperto). Irresistibile l’elencazione dell’ipotetica infinità di rischi fatali che punteggiano il percorso casa-ufficio:
«Si diresse spedito verso la metropolitana passando davanti al benzinaio (mozzicone, fatal negligenza, sei palazzi sventrati, vetri infranti in arco di due chilometri, duecentosedici morti), alla banca (prima rapina giovani banditi, precipite fuga, colpo accidentale, proiettile attraversa cranio brillante commercialista e proseguendo corsa conficcasi in suo), al civico n. 12 (dopo vent’anni vittoria ruggine paziente su ferro gabbia cassetta geranei signora Bonaldi sesto piano, cassetta libera soddisfare antico sogno caduta, devastazione sua testa, schizzi materia cerebrale su marciapiede), alla bottega del falegname (sega circolare sfuggita mano sudata garzone inesperto, rotazione impazzita in direzione sua giugulare)».
Sotto le mentite spoglie della nevrosi e del caso limite di chi percepisce vividamente la propria contiguità con la morte, Mari descrive in realtà il dramma universale dell’inesorabilità del morire («Il vero argomento della letteratura è la morte», ha dichiarato in un’intervista ad attimpuri.it, citando Manganelli). C’è morte incombente (non solo minaccia ipotetica ed eventualità incontrollabile, ma inevitabile traiettoria di ognuno) anche nello struggente “Forse perché”:
« […] I regali mi appenano, e tutti, e sempre […] Principiò in mia tenera età, allor che ricevendo un presente dalla mamma o dal babbo, e constatandone la dura sodezza e il meccanico incastro, il mio cerebro pusillo sapeva con atroce evidenza che quell’oggetto sarebbe sopravvissuto al genitore amoroso, talché sol di morte odoravano i trenini e gli elmetti, sol di tomba i buratti e le biglie».
«C’è chi nel seme divisa l’albero bello, il tronco, le radici, i rami, le poma. Io fo di più, e già vi leggo la putrida torba in cui decrepito e marcio si tradurrà al fine di sua parabola lunga […] Chissà perché in ogni cosa riesco solo a vedere la morte?».
Un memento mori che ritorna in “In virtù della mostruosa intensità”, in cui un uomo in visita ad un appartamento da comprare, assieme ad un agente immobiliare, viene sopraffatto dalle tracce ancora fumanti di vita della famiglia che in precedenza vi abitava, e in quelle tranches de vie in decomposizione percepisce con “mostruosa intensità”, nella sua stessa carne, la triste fine di un ciclo vitale.
Il vano tentativo di cristallizzare il passato e sottrarlo alla fine naturale delle cose campeggia nei “Palloni del signor Kurz”, ambientato in un collegio di Quarto dei Mille. Kurz è il misterioso dirimpettaio del collegio, che sequestra i palloni con cui i ragazzi giocano in giardino e che, quando il tiro è alto, superano il muro di cinta e finiscono nel suo cortile. Una spedizione notturna a casa di Kurz svelerà a uno dei collegiali che i palloni sono stati tutti raccolti in contenitori e allineati come in un museo (ricordano un po’ le tombe a fornetto quei vasi ancora vuoti, «pronti ad accogliere i nuovi arrivati», e le scritte sotto i palloni, col nome della marca e il giorno della scomparsa nel cortile di Kurz). Sottratti al gioco dei bambini, dunque, ma anche strappati alla consunzione e a una fine disonorevole:
«[…] i palloni con cui un individuo gioca in sua vita si perdon per mille strade, finiscon nei fiumi, e sui tetti, lacerati dai denti dei cani o bolliti dal sole, si sgonfiano come prugne appassite o esplodono sulle picche dei cancelli, o semplicemente scompaiono».
In un altro splendido racconto, “Euridice aveva un cane”, Mari narra di una vecchia donna, Flora (l’Euridice del titolo) che vive col cane Tabù in una casa di campagna vicina a quella di Michele, l’io narrante della vicenda. Flora è per Michele la custode del piccolo mondo semplice e antico della sua infanzia, un mondo che va scomparendo, minacciato dalle insidie della modernità rappresentata dai rumorosi e vitalissimi vicini, i Baldi:
«[…] sempre un martellare, un trapanare, un ridipingere, un amor di sostituzione, sempre un’ansia di nuovo, di moderno, di “giovane”. Guardavo la nostra casa e la loro, e le trovavo sempre più divergenti, l’una ancorata in una fissità quasi minerale […], l’altra immersa nel flusso del tempo, che se la portava via, se la lavorava a sua immagine, ne cambiava la chimica. Una casa va e l’altra resta pensavo, e nella nostra sentivo abitare lo spirito della morte […]; poi però mi ribellavo a questa idea, e mi dicevo che se lo spirito della vita coincideva con la catena di scempi che si perpetrava oltre il muro, se vivere significa morire in continuazione, allora la morte era anche di là, dai Baldi, e più brutta di là che di qua».
Un giorno, Flora, malata, viene ricoverata in una casa di riposo e Tabù viene portato chissà dove. Michele rimanda in continuazione la visita in ospizio, perché andare a trovare Flora significherebbe ammettere la gravità della sua malattia: come Orfeo con Euridice, Michele si sforza di non voltarsi verso la donna, come se questo bastasse a garantirle il ritorno dall’Ade in cui è finita. Terrà duro fino alla fine, ma Flora morirà. Confortata dalle visite dei Baldi, ma non da Michele, troppo sensibile alle ingiurie del tempo che passa e che stravolge tutto per cedere al più semplice dei gesti pietosi.
In questo universo nostalgico, acquista senso e ragion d’essere anche l’antimoderna lingua di Mari, tagliata con un italiano del primo ottocento e screziata di invenzioni lessicali perfettamente mimetiche (efainto, artigliopàpine, lurviale, anticafro …), con un effetto straniante che serve bene sia l’intento comico che quello elegiaco. Si direbbe l’imitazione di un italiano leopardiano, non tanto per esattezza filologica, quanto per l’indole malinconica e crepuscolare che la pervade. Non un esercizio di stile, dunque, o un capriccio barocco, ma una lingua funzionale allo specifico paesaggio interiore di Mari: solitario e lunare, lugubre e palpitante al tempo stesso.
L’antimodernismo di Mari non sembra nascere da un retroterra politico o religioso. Il suo è un conservatorismo estetico, non ideologico: «Per me l’inattualità è un valore… io sono uno che si incanta quando per strada vede una vecchia millecento, cioè io farei cambio subito, vorrei una cinquecento, una milletre … […] Fossi un costruttore non modificherei mai neanche mezzo paraurti. Quest’idea del rinnovamento a tutti i costi è una cosa che è al di là della mia struttura cerebrale», ha dichiarato nell’intervista ad attimpuri.it. Il suo antimodernismo non è altro che un debole tentativo di esorcizzare il tempo che passa, di fare diga al fluire di tutte le cose. È figlio del rifiuto psicologico della morte, e del Tempo che, passando, le prepara la strada. Anche se, in questo sforzo fallimentare di fermare il mutamento, in questa «fissità quasi minerale», c’è altrettanta morte che nel libero divenire di tutte le cose. Ne è metafora, forse involontaria, la collezione di palloni del signor Kurz: un po’ museo, un po’ camposanto, a metà tra la conservazione e l’inumazione.
Edizione esaminata e brevi note
Michele Mari (Milano 1955). Romanziere, poeta. Insegna letteratura italiana all’Università statale di Milano. Tra i suoi libri di narrativa, “Io venìa pien d’angoscia a rimirarti”, Longanesi, 1990; “La stiva e l’abisso”, Bompiani 1992; “Rondini sul filo”, Arnoldo Mondadori editore, 1999; “Verderame”, Einaudi, 2007; “Rosso Floyd”, Einaudi, 2010 (ripubblicato da Einaudi nel 2012).
Michele Mari, “Euridice aveva un cane”, Einaudi, Torino, 2004.
Prima edizione: “Euridice aveva un cane”, Einaudi, Torino, 1993
Bibliografia consigliata: Alice Di Stefano, “Le ossessioni di Michele Mari”, Sincronie, 2004, n. 16, 185-191; Alessandro Iovinelli, “Le strategie ipertestuali di Michele Mari”, Narrativa, 2001, n. 20-21, 297-304; Riccardo Donati, “Collezioni di ceneri. qualche appunto su Michele Mari”, in “I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi”, Bulzoni, Roma, 2010, 213-230; Carlo Mazza Galanti, “Michele Mari”, Cadmo – Scritture in corso, Fiesole, 2011.
Approfondimento in rete:
archiviostorico.corriere.it/1993/maggio/19/vecchia_Euridice_bastardino_Tabu__co_0_9305195927.shtml + http://www.minimaetmoralia.it/wp/the-end-of-bookishness-uno-scrittore-al-confine-tra-due-mondi – http://www. elaleph.it/2012/02/19/una-lotta-con-il-mostro-fin-nei-meandri-dellabisso-conversazione-con-michele-mari + http://www.attimpuri.it/2009/12/situazioni/intervista-a-michele-mari-di-ade-zeno/
In Lankenauta: schede sui libri di MICHELE MARI
Elettra Santori, 2012
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