Erelle Anna

Nella testa di una jihadista

Pubblicato il: 8 Luglio 2015

Possiamo iniziare dalla fine dell’inchiesta, ovvero dalla fatwa lanciata nei confronti di “Melodie”, alias la giornalista Anne Erelle: “Fratelli del mondo intero, lancio la fatwa contro questo essere impuro che si è preso gioco dell’Onnipotente. Se la vedete, ovunque siate, rispettate le leggi islamiche e uccidetela. A condizione che la sua morte sia lenta e dolorosa. Chi si fa beffe dell’Islam ne pagherà le conseguenze col sangue. Essa è più impura di un cane, violentatela, lapidatela, finitela. Inshallah”. Fine dell’inchiesta ma evidentemente non fine della vicenda, perché Anne Erelle (pseudonimo) adesso si ritrova braccata dagli jihadisti di mezzo mondo ed è costretta a vivere sotto scorta. Facciamo però un passo indietro. La reporter francese, nel marzo 2014, si è creata una falsa identità su facebook e ha finto di essere Mélodie, una mussulmana appena ventenne, attratta dal mondo degli jihadisti. Lo scopo era chiaro: comprendere il fenomeno delle giovani occidentali che si arruolano nelle file dell’Isis. Una volta entrata nel calderone della rete, Anne-Mélodie viene avvicinata da un tipo molto spavaldo che si scoprirà presto essere Abu Bilel, un mujahiddin francese con fedina penale tutt’altro che immacolata, da qualche anno trasferitosi in Siria e diventato braccio destro di Abu Bakr al-Baghdadi, califfo dello Stato Islamico. I colloqui si trasferiscono su skipe e qui la giornalista francese è costretta a mostrarsi a tutti gli effetti come Mélodie, con un velo che riesce a farla apparire più giovane di almeno dieci anni. Quel tanto da permettere al terrorista islamico di tessere la sua tela e di corteggiare, a modo suo, la presunta ragazzina. Dopo meno di una settimana Abu Bilel, quasi fosse davvero innamorato, chiede a Mélodie di sposarlo e di raggiungerlo nel califfato dove “la vita è bella e costa poco” (pp.116). Insomma, la rappresentazione di un mondo bellissimo, tra esaltazione del campo di battaglia (“Il mio lavoro è uccidere persone”), sensuali piaceri e piacevolissime comodità per i convertiti occidentali.

Quello che emerge dalla lettura dei siparietti tra Anne-Mélodie e il suo sanguinario corteggiatore è un quadro parecchio inquietante; e non soltanto per la vicenda personale della giornalista francese, sempre più invischiata in una storia difficilissima da gestire: Anne Erelle, venendo a contatto con decine di giovani europee reclutate sui social network, ci ha fatto scoprire un lato inedito della propaganda digitale dello Stato Islamico, la cosiddetta “Jihad 2.0”. Un metodo che potrà forse stupire coloro che s’immaginano i miliziani del califfato sprofondati in un mondo medievale. In realtà: “L’IS ha costruito la propria forza espansionistica attraverso una propaganda ricalcata sulla spettacolarizzazione e il sensazionalismo, sul modello dei blockbuster americani […] Un esempio fra tanti? In foto, i martiri dell’IS hanno tutti un viso d’angelo e un sorriso pieno di pace. Le spoglie dei loro avversari, invece, appaiono orrendamente carbonizzate” (pp.146). Uno degli artefici di questa comunicazione spregiudicata, ad esempio, è Guitone, un marsigliese di ventidue o ventitré anni, che Anne Erelle, definisce “addetto stampa”: “ogni sua apparizione fa letteralmente sbavare decine di adolescenti un po’ in tutta Europa. Indossa abiti firmati dalla testa ai piedi. Sostiene di vivere come un pascià […] Ha sempre un sorriso angelico stampato in faccia. In un paese drammaticamente in guerra, cosa ci può essere di meglio di un uomo felice per convincerci ad abbracciare la causa?” (pp.37). Proprio la parola felicità diventa l’elemento chiave di questi reclutamenti a distanza. E’ evidente che i terroristi dell’IS si rivolgono a giovani donne con molti problemi, immerse fino al collo in un profondo disagio familiare e sociale, che hanno bisogno di avere dalla loro parte uomini forti e protettivi: “Mélanie si sente amata. Si sente utile. Cercava di dare un senso alla propria esistenza: lo ha trovato” (pp.12). Il reportage di Anne-Mélodie prosegue fin tanto che Abu Bilel non diventa ossessivo, pretendendo di avere la sua “sposa” presto in Siria. La giornalista si trova sempre più in difficoltà nel reprimere il disprezzo che prova per il suo “sposo”, considerato non soltanto sanguinario ma anche profondamente ipocrita col suo alternare atteggiamenti integralisti e quelli di famelico playboy. Poco prima di chiudere l’inchiesta Anne Erelle finge di assecondare la richiesta di Bilel, ma invece di partire per la Turchia, si reca ad Amsterdam insieme a un collega fotografo. Anne, infatti, aveva intenzione di intervistare Lola, una giovane belga veramente convertita e in partenza per la Siria. Non tutto però va secondo i piani, Abu Bilel non tollera il silenzio di Mélodie e s’infuria: il reportage quindi non termina come previsto, e Anna-Mélodie è costretta a tornare a Parigi.

Per non essere scoperta la giovane giornalista cancella il suo account facebook, fa sparire i cellulari che aveva dato a Bilel. Una mossa che evidentemente non basta ad evitarle ritorsioni: dopo poco riceve minacce sul suo account Skype ed anche una telefonata in ufficio da Bilel. E’ evidente che la sua copertura, ancora non si sa bene come, è saltata e da allora Anne Erelle ha dovuto cambiare casa, telefono e vive sotto protezione. Il frutto di questa drammatica inchiesta, ricca d’inaspettate tensioni nonostante la falsa Mélodie e il terrorista islamico dialogassero a migliaia di chilometri di distanza, è appunto questo libro, “Dansle peau d’une djihadiste”: non lo ricorderemo quale esempio memorabile di letteratura, ma di sicuro è una lettura molto istruttiva, che svela un mondo forse ancora poco indagato e che rappresenta con una certa efficacia il profondo disagio della giornalista nel fingersi sottomessa al fiero combattente islamico. I repentini passaggi della prima alla terza persona mostrano il pericolo sempre incombente di farsi condizionare dalla scissione tra Anne e Mélodie; e soprattutto tutto quello che può passare realmente per la testa di una ragazzina piena problemi. Anche se, quando parla esplicitamente, la repulsione di Anna verso il suo reclutatore non conosce mezze misure: “ho una gran voglia di fregarlo. Di farlo cadere nella sua stessa rete. Ai miei occhi non è un essere umano, non più di quanto sia credente. Quando non è occupato a uccidere qualcuno, questo assassino psicopatico passa il tempo a plagiare delle ragazzine come Mélanie per convincerle ad andare incontro alla morte. Non posso prendermela con il jihadista, è troppo potente, e nemmeno con il suo esercito, ma posso prendermela con l’uomo, facendo leva sulle sue debolezze maschili. Cioè sulla sua sete di dominio e riconoscimento. Con Mélanie è convinto di essere lui a condurre il gioco, mentre in realtà è proprio il contrario” (pp.149).

Edizione esaminata e brevi note

Anna Erelle, giovane reporter francese, ha indagato la propaganda digitale dello Stato Islamico e i metodi di reclutamento utilizzati dai jihadisti su Internet, la cosiddetta «Jihad 2.0». Nel corso delle sue ricerche è venuta in contatto con decine di giovani europee reclutate sui social network e dichiaratesi pronte a partire per la Siria. Per comprendere meglio il fenomeno e realizzare un reportage ha creato l’identità fittizia di «Mélanie».

Anna Erelle,“ Nella testa di una jihadista”, TRE60, Milano 2015, pag. 254. Traduzione di Guia Pepe, Elena Sacchini, Maddalena Togliani.

Luca Menichetti. Lankelot, luglio 2015