Furlan Lidia

Lo spazio obliquo

Pubblicato il: 11 Gennaio 2018

Lidia Furlan (Venezia, 1980) è una giovane autrice che vive in un posto splendido: a Mira (VE), sulla Riviera del Brenta. Laureata in Tecniche Artistiche e dello spettacolo, ha lavorato come ufficio stampa nel settore teatrale e oggi si occupa di Comunicazione. Ho avuto il piacere di conoscere personalmente questa creatura minuta e delicata quanto i suoi arabeschi di parole e – diciamo così – di tenere a battesimo questo suo esordio letterario, in occasione di una tavola rotonda imperniata sui percorsi della scrittura.

Sui percorsi della scrittura si addentra Lo spazio obliquo (Edizioni Saecula, 2017), questa sua prima, coraggiosa fatica. Perché coraggiosa? Per una serie di motivi. Primo fra tutti la capacità di misurarsi con la propria sofferenza – perciò fragile solo in apparenza, lei, ma salda e consapevole dell’implosione interiore di una forza che attendeva solo il momento e lo strumento propizi per essere drenata ed esteriorizzata –, di contenere le emozioni, per quanto destabilizzanti, di farle sedimentare per poi tradurle in carta e inchiostro, a uso consumo e proiezione per il suo lettore.

«Quando iniziai ad ascoltarmi, non ero consapevole di cosa stessi mettendo in pratica. Come altri ragazzi della mia età, trascorrevo ore sulla scrivania a scrivere lettere e confessioni su dei quaderni, ascoltando musica di cui oggi non rammento molto. Poi ho iniziato a lasciar scorrere intrecciati tra loro più pensieri, parole e sensi e ho scoperto la poesia, il piacere di dare un aspetto ai sentimenti. Ma crescendo mi sono stancata dei versi melensi e gli ho preferito il getto irruento e appassionato del flusso di coscienza, rinunciando alla punteggiatura e alla ritmicità, ai quali oggi invece – conseguenza della maturità – sono legata e condizionata.»

È quasi un manifesto della propria poetica, e poco importa che sia lutto, perdita sentimentale, una malattia o qualsivoglia travaglio che la vita ci pone davanti. Il dato autobiografico è valido, per Furlan, solo nella misura in cui si traduce in un flusso, dove l’inquietudine dipinge paesaggi emotivi, erige monumenti concettuali, stilizzati, suggerisce forme e volumi, complesse architetture, talvolta, in cui il rigore della grammatica e il lavoro di cesello operato sulla parola costituiscono la veste, sontuosa e minimale al tempo stesso, di un’urgenza interiore. «La punteggiatura ci permette di virare con un minimo preannuncio, di accentuare o attenuare, di esaltare quel senso di sé che ci attraversa nel momento in cui si elabora la forma del pensiero.»

Ecco perciò che questo libello si propone – con ulteriore coraggio, sottolineo – come una riflessione sulla pratica della scrittura, una ricognizione sull’impulso ad esporsi ed esprimersi con onestà e sprezzo del pericolo, in bilico tra sublime e ridicolo, direbbe Freud, su quello “spazio obliquo” dove le parole sono sassi rotolanti e, cadendo dall’alto, affondano meglio nella melma dell’esistenza quotidiana, informe e disomogenea. E fanno male, credetemi, a passarci sotto.

Il bisogno di scrivere è impellente; la scrittura scalcia nella pancia, esige quasi di esser partorita, la scrittura. Ma l’evento scatenante, la rottura delle acque, a volte è improvviso, inaspettato: un dialogo semplice nel suo dipanarsi, a margine di un’attività lavorativa, un’affermazione complice quanto icastica: scrivere è un’arte nobile. Ma la scelta che ne consegue è tutt’altro che facile. Come scrivere della scrittura come lenitivo, come scoperta ed evoluzione di sé? Se il problema si riducesse al solo reperimento di una terapia non saremmo qui a commentare. C’è bisogno di uno scarto ulteriore.

«Una persona molti anni fa mi disse che non bisogna scrivere per se stessi ma per gli altri, se si vuole che il testo sia efficace, che arrivi a destinazione. Ma nessuno scrive per chi legge, chi scrive lo fa per amor proprio, per trovarsi, per mettersi a fuoco, per affermazione, per sofferenza. Si scrive per smarrimento, non per consenso. Per un’esasperata ricerca di risposte.»

Eccola la risposta. Lo spazio obliquo. Non una trama così come siamo soliti intenderla: fosse anche il gomitolo del proprio vissuto. Il lettore che la cercasse, una storia, troverebbe degli indizi davvero esiziali. Qualche elemento, un periodare più disteso e dettagliato, in alcuni passaggi. Forse l’ambientazione: la provincia, toponimi e geolocalizzazioni dell’hinterland veneziano. Hanno importanza queste notizie? L’hanno solo nella misura in cui sono funzionali al testo, quando trascendono il dato, si trasfigurano e si trasformano nella mappa di un’anima. Potreste leggere questo libro scegliendo, di volta in volta, la pagina che più vi aggrada, il capoverso che cattura la vostra attenzione. È una scrittura, quella di Furlan, che procede per frammenti, per istantanee, per stop motion, finanche per incisi o aforismi, se vogliamo. Una prosa poetica, affine a qualche sparuto, illustre esperimento, come la scrittura automatica di William Butler Yeats o il folgorante taccuino del Giacomo Joyce, qualche visione alla Anne Sexton o una manciata di pagine di Elsa Morante.

Lo spazio obliquo non è una lettura che si faccia imbrigliare nelle maglie in cui siamo adusi (e rassicurati) a collocare quel che il mercato ci propina. In questo si riconosce anche il coraggio – sì, ancora questo sostantivo! – di un editore come Saecula, nella persona di Gabriella Gavioli, con un occhio di riguardo seguace e complice del talento più che della contabilità. Perfettamente in tema anche la splendida, invidiabile copertina opera di Alessandro Dado Ferri. Che altro dire di questo libro se non caldeggiarne la lettura? Entrate nelle segrete dell’anima dell’autrice. Quando le acque si saranno ritirate sentirete le porte sbattere e vi troverete in balia di una corrente disordinata che si incunea lungo i corridoi, in un turbinio di foglie e polvere. Ci saranno parole che non sono ancora state scritte, o non ancora dette. Ma per queste c’è la fessura nel muro. Scrivete, siate inquieti, abbiate sete dell’altro. Siete nello spazio obliquo di Lidia Furlan.

Edizione esaminata e brevi note

Lidia Furlan è nata a Venezia nel 1980 e vive a Mira, lungo la Riviera del Brenta. Laureata in Tecniche Artistiche e dello Spettacolo ha lavorato come Ufficio Stampa nel settore teatrale e attualmente si occupa di Comunicazione. Fin da bambina coltiva segni curvi e punti e colleziona allegorie e frammenti di luoghi abbandonati. “Lo spazio obliquo” è il suo esordio letterario.

Prima edizione: Lidia Furlan, “Lo spazio obliquo”, Edizioni Saecula, Zermeghedo (VI), Collana La Vita nel Tempo, 2017, pagine 100.

Alberto Carollo gennaio 2018 (Articolo comparso in precedenza qui: http://www.albertocarollo.it/blog/2017/12/04/la-nobile-arte-dello-scrivere-lo-spazio-obliquo-lidia-furlan/ )