Pahor Boris

Necropoli

Pubblicato il: 28 Febbraio 2010

La parola necropoli ha origine dall’unione di due termini greci: nekròs (morto) e pòlis (città). Nella Nécropole nationale de Struthof, come scrive Pahor, si trova “ogni francese diventato polvere nel mondo crematorio tedesco”. Perché il campo di concentramento di Natzweiler-Struthof è in territorio francese, in quella terra alsaziana che per qualche anno fu annessa al Terzo Reich. Ed è proprio in questa necropoli che l’ex deportato Boris Pahor, sopravvissuto allo sterminio, torna venti anni dopo, nel 1965.
Il Lager, ormai, è divenuto, come molti altri Lager nazisti, meta di pellegrinaggio turistico. Lo stridore tra l’orrore incarnato da quel luogo e gli sguardi penosi e curiosi delle persone che lo visitano, generano in Pahor sentimenti contrastanti. E’ evidentemente irritato dalla involontaria ed innocente attenzione della gente a quello spazio e a quegli oggetti che lui conosce atrocemente bene, quasi volesse rimproverare ai turisti il fatto di non capire in profondità l’inferno che ogni centimetro quadrato di Natzaweiler-Struthof incarna: “… continuo a sentire come un’ingiustizia il fatto che quei visitatori si facciano un’idea di questo luogo in un’atmosfera così piacevolmente calda e pacifica, quasi sognante”. Tutto è ingiusto al cospetto della sofferenza e della morte.

Lo scrittore sente intimamente il senso di colpa tipico di ogni sopravvissuto. Colpevole di respirare, vedere, sorridere, apprezzare il calore del sole o il rumore mare o la serenità dei bagnanti. Una colpa perenne. La colpa di essere vivo, un privilegio inspiegabile ed incomprensibile: “Io sono vivo, perciò anche i miei sentimenti più schietti sono in una certa misura impuri”.

Pahor viene arrestato perché membro del Fronte di Liberazione Nazionale Sloveno. La Gestapo lo spedisce a Natzaweiler-Struthof dove viene destinato prima ad affiancare un medico come traduttore, poi al lavoro di infermiere. Ed è forse proprio grazie a questo incarico che Pahor riesce a sopravvivere nonostante la denutrizione, il freddo e la tubercolosi. Essere in costante contatto con la sofferenza, la malattia e la morte induce però ad una sorta di agghiacciante abitudine. L’abominio diventa normalità per chi non vede null’altro. La descrizione di gruppi di persone senza nome né volto, masse che si muovono come ombre, divise a righe, crani calvi, ossa legnose, costole e mani ridotte a rami secchi dà l’esatta percezione del processo di totale spersonalizzazione compiuto nei Lager. E la morte si vive con tutti i sensi: annusata, vista, udita e toccata. Cadaveri in quantità inimmaginabili, afferrati per il collo da grandi tenaglie e scaraventati nel forno. Una bocca vorace ed indifferente pronta a divorare e produrre calore. Un calore convogliato a scaldare acqua. Acqua utilizzata per pulire e disinfettare altri corpi umani.

Pahor continua a camminare da vivo in quella città di morti. Osserva oggetti che ora, come in un museo, sembrano aver cristallizzato la loro funzione originaria ma che a lui riportano alla mente episodi risalenti al suo internamento. Un’esperienza che lo scrittore ha vissuto in preda ad una perenne ed umanissima paura. Pahor ammette che tutto il suo spirito, nel momento in cui è arrivato al campo, è sprofondato in una nebbia stagnante. Il suo atteggiamento si è mantenuto distaccato e totalmente privo di curiosità, una presa di coscienza raggiunta solo più tardi, leggendo le opere di altri sopravvissuti. “Pensavo di saperne parecchio sui campi, ma di fronte a testimonianze come la sua (Franz Blaha, ndr) mi sento proprio un novellino. Lo ripeto, quanto ero lì non cercavo di penetrare i misteri del lager. Li evitavo come un invisibile raggio letale. Non so, ma in questa limitazione istintiva, in questa mia fuga davanti alla conoscenza definitiva, di sicuro c’era una mancanza di maturità”.

La testimonianza di Boris Pahor si aggiunge a quelle di tanti altri scampati. Nel suo racconto è possibile rintracciare un sentimento di profonda ostilità nei confronti degli italiani. Purtroppo però lo scrittore si abbandona ad asserzioni erronee, come conferma lo stesso Magris nella sua introduzione a “Necropoli”. Riferimenti terminologici e storici inesatti relativi alla condizione degli sloveni triestini. Pahor è uno dei più grandi sostenitori e difensori dell’identità slovena in Italia. Posizione del tutto legittima, ovviamente, ma da tutelare ed affermare, probabilmente, con maggior rispetto ed oculatezza.

Resta assolutamente inappuntabile la qualità narrativa/letteraria di “Necropoli”. La prosa di Pahor è attenta ed intelligente, le sue riflessioni sulla natura umana dimostrano grande sensibilità ed un acuto spirito d’osservazione. Dopo gli orrori visti e vissuti, lo scrittore triestino sembra voler continuare a credere nella bontà degli esseri umani e, facendo un riferimento diretto ad Anna Frank, scrive: “Anna Frank dice che, nonostante tutto, non ha mai smesso di credere che l’uomo è fondamentalmente buono. Bene, sono d’accordo; il problema però è di sapere quando la società sarà organizzata (e chi l’organizzerà) in modo che sia la bontà, e non la corruzione e il sadismo, a esprimersi”.

Edizione esaminata e brevi note

Boris Pahor, sloveno, è nato a Trieste il 28 agosto 1013. Da bambino assiste a degli episodi che segneranno la sua vita e la sua vena letteraria. Il 13 luglio 1920 viene incendiata la Casa della Cultura slovena, poco tempo più tardi agli sloveni viene imposto di parlare solo la lingua italiana e di frequentare solo scuole italiane. Pahor studia prima a Capodistria e poi a Gorizia ma abbandona gli studi nel 1938. Nel 1940 viene arruolato in Libia, tornato in Italia aderisce al Fronte di Liberazione Sloveno ed arrestato. Viene mandato nei campi di sterminio di Natzaweiler-Struthof, di Dachau e Bergen-Belsen. Dopo l’arrivo degli Alleati, Pahor trascorre del tempo in un sanatorio francese dove guarisce dalla tubercolosi. Torna a Trieste nel 1946 e si laurea a Padova. Inizia ad insegnare e a scrivere. E’ autore di numerosi romanzi, saggi e articoli in cui non manca di sottolineare il suo impegno in difesa dell’indipendenza slovena.

Boris Pahor, “Necropoli”, Fazi Editore, Roma, 2009. Traduzione di Ezio Martin. Revisione del testo di Valerio Aiolli. Introduzione di Claudio Magris.