Segre Bruno

Israele, la paura, la speranza. Dal progetto sionista al sionismo realizzato

Pubblicato il: 31 Gennaio 2015

Qualche anno fa, per i tipi di E/O, è stato pubblicato “Ebreo, israeliano, sionista: concetti da precisare” di Abraham B. Yehoshua: un tentativo di schiarire le idee di coloro che non si fanno problemi a mettere nello stesso calderone Israele, la religione ebraica e l’ideologia sionista. È evidente che l’operazione editoriale rappresentava non più che una goccia d’acqua pulita nel mare sporco dell’ignoranza; tanto più se abbiamo presente cosa succede ogni giorno sui social network, sfogatoio dei peggiori e più ridicoli istinti: copia incolla di qualche link di dubbia provenienza ed ecco che diventa realtà pontificare su tutto lo scibile umano e sentirsi legittimati all’insulto più trucido. Anche la raccolta di scritti di Bruno Segre, pubblicati tra il 1970 e il 2013, possiamo interpretarla come testimonianza “dei cambiamenti radicali intervenuti nel corso degli anni nella multicultura degli israeliani, nei rapporti tra Israele e la diaspora ebraica (in particolare la grande diaspora nordamericana) e tra Israele e il mondo” (dalla quarta di copertina); ed in qualche modo opera che, sulla scia del saggio di Yehoshua, evidenzia quanto sia disonesto confondere i concetti di israeliano, ebreo e sionista. Le analisi di cosa abbiano voluto dire le deviazioni dall’originario progetto sionista, la critica laica alle contraddizioni del sionismo realizzato, e la presenza di due diversi modi di interpretare il sionismo, rappresentano i leit motiv di articoli e saggi che, sempre con bello stile e chiarezza espositiva, spaziano dalla storia del kibbutz, alla lettera ad un prete filopalestinese, passando per la storia di Nahun Goldmann e la sua idea di “uno Stato totalmente neutro”, fino all’itinerario intellettuale di Koestler alle prese con politica, scienza e religione.

Del resto Bruno Segre, fin dalla premessa, ha voluto precisare la sua interpretazione di sionismo realizzato: “nei decenni successivi, mentre seguivo con partecipazione le vicende politiche e culturali di Israele e del Medio Oriente, mi sono reso conto che nella cultura politica coagulatasi attorno al progetto sionista erano presenti ab origine, e ancora oggi continuano a fronteggiarsi, due linee di pensiero e di azione ben distinte. Una di esse fa leva prevalentemente sulla speranza, l’altra sulla paura. E date le circostanze difficilissime in cui lo Stato d’Israele nacque ed è vissuto per oltre sessant’anni, entrambe tali tendenze presentano più d’una plausibile giustificazione, avendo al proprio attivo realizzazione e sconfitte […] Storicamente, l’ultimo grande leader che ebbe la lucidità di proporre al popolo d’Israele, come stella polare, un solido e sano equilibrio tra le esigenze ineludibili della sicurezza e le speranze nel futuro di pace implicite nell’originario progetto sionista fu Yitzhak Rabin […] Sulla bilancia hanno finito per pesare quasi esclusivamente le ragioni della sicurezza, più o meno rettamente intese, spesso a discapito dei valori della laicità e della democrazia” (pag. XII). Coerente con questa impostazione anche il lungo e approfondito articolo “L’itinerario di Koestler tra politica, scienza e religione” (1979), praticamente un saggio: l’analisi di come negli anni lo scrittore ungherese-britannico, pur evidenziando il rischio di riduzionismo e di approccio meccanicistico, abbia interpretato sia l’ebraismo che il sionismo; anche grazie ad un’opera come “La tredicesima tribù”, nella quale, raccontando dell’impero dei cazari, ebrei non semiti, praticamente viene archiviata l’idea di razza ebraica. Riferimenti più espliciti all’attualità li troviamo nella “Lettera ad un prete filopalestinese” (2002): “Ti assicuro che mi è molto più agevole relazionarmi con i vari palestinesi che mi accade d’incontrare, che non con i numerosi italiani che – senza mai essersi dati pena di studiare e capire in tutta la sua complessità la tragedia in atto nel Vicino Oriente – utilizzano il loro ostentato sostegno alla causa palestinese per finalità che, con quella causa, nulla hanno da spartire […] Per costruire la pace (mi hai scritto) non bisogna essere equidistanti. Ebbene l’atteggiamento che io mi permetto in tutta amicizia di chiederti non è quello dell’equidistanza – neppure io sono equidistante -, bensì quello di un indispensabile equilibrio” (pag. 118).

Lo spirito laico di Segre, fermamente convinto che non si possa prescindere dai “due stati e due popoli”, emerge negli articoli “Gott mit uns: l’ABC dell’odio” e nell’analisi di una sempre più pervasiva “violenza sacra”, in un Vicino Oriente caratterizzato da “leader miopi e provinciali” e “guide politiche di profilo culturale bassissimo” (pag.143). In questo senso risultano eloquenti le pagine dedicate al fondamentalismo dei wahabbiti sauditi, la loro visione bellicosa dell’Islam, e nel contempo, in “Israele verso i sessant’anni” (2007), le parole su una sostanziale tirannia della maggioranza presente fin dal 1948: “manca nel Paese una componente fondamentale della democrazia: la parità nella cittadinanza. Lo Stato israeliano è un sistema etnocratico in quanto si fonda per legge sulla superiorità di un gruppo etnico su un altro” (pag. 159). Le conseguenze risultano pesanti: oltre ad una lettura distorta della Shoah in nord Africa, di cui Segre dà conto in “Gli Schindler scomodi”( 2008), viene evidenziato come gli ultimi leader israeliani si siano mostrati persuasi “che sarà la sicurezza a portare la pace, e non viceversa (come invece era nelle convinzioni di Rabin)” (pag. 198). Rabin che, giustamente, non viene descritto come pacifista e non violento, ma nelle vesti di soldato diventato statista, pragmatico “artigiano della pace”.

Ed infine Segre torna esplicitamente sul concetto di sionismo: “Al di fuori di Israele, ma un po’ ovunque all’interno e all’esterno del mondo ebraico, si dà spesso per scontato che la nozione di sionismo abbia un significato univoco, che attorno vi sia un consenso unanime. Si tratta di un luogo comune privo di fondamento, alla luce del quale il progetto perseguito dai coloni ispirati da pulsioni messianiche sarebbe semplicemente una versione estrema di un unico progetto sionista” (pag. 223). In realtà i sionismi sarebbero almeno due, sulla scorta di quanto scrive il prof. Gadi Taub in un’opera sulla “filosofia” della colonizzazione ebraica dei territori occupati: “Il sionismo secolare, in buona sostanza, valorizza il momento dell’autodeterminazione, e ha come obiettivo finale la creazione di uno Stato nazionale ebraico. Il sionismo ad orientamento religioso, invece, in quanto obbedisce prioritariamente all’imperativo della redenzione integrale del territorio, pone de facto le basi di uno Stato binazionale, creando in tal modo le premesse per il superamento, o la liquidazione dello Stato nazionale […] constatazione che in campo non vi è un sionismo solo ma ve ne sono, in realtà, almeno due, nettamente diversi tra loro: la logica dell’uno nega in radice la logica dell’altro (pag. 224).

Insomma, possiamo già capire che le pagine di Segre affrontano argomenti a dir poco controversi, ed appunto per questo motivo abbiamo apprezzato la scelta di citare lo storico americano Robert Satloff: “l’unico mezzo che abbiamo per sconfiggere coloro che diffondono le idee più dannose in tema di Shoa e di fondamentalismo islamico è quello di aiutare la gente a compiere le proprie scelte avvalendosi del potere che deriva dalla conoscenza” (pag. 177). Sono affermazioni che dovrebbero mettere in guardia i lettori: siete convinti che il tuttologo Paolo Barnard, perfetto esemplare di giornalista distopico e di storico alternativo, sia personaggio affidabile e degno della massima considerazione; oppure vi sentite gratificati dalle invettive di Fiamma Nisterein in versione Fallaci? Allora vuol dire che il libro di Bruno Segre non fa per voi.

Edizione esaminata e brevi note

Bruno Segre, (Lucerna, 1930) ha studiato filosofia con Antonio Banfi e lavorato nel Movimento Comunità fondato da Adriano Olivetti; ha insegnato in Svizzera dal 1964 al 1969. Già membro del Consiglio del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano, ha presieduto l’associazione italiana “Amici di Nve Shalom/Wahat as-Salam e diretto la rivista di cultura ebraica “Keshet”. Tra le sue opere: “Gli ebrei in Italia” (2001); “Shoah” (2003).

Bruno Segre,“Israele, la paura, la speranza. Dal progetto sionista al sionismo realizzato”, Wingsbert House, Roma 2014, pag. 254.

Luca Menichetti. Lankelot, gennaio 2015