Sorrentino Luigia

Piazzale senza nome

Pubblicato il: 13 Gennaio 2022

La poesia di Luigia Sorrentino è sempre stata caratterizzata da un’osservazione analitica delle pieghe dell’animo umano, capace di scendere a tale profondità da risvegliare e interpellare i suoi archetipi di fondo – quelle matrici essenziali del suo carattere che spesso schermano e ingabbiano la sua vera identità, impedendogli di spiccare il salto verso la realizzazione del Sé (ovvero il miglior potenziale individuale). Una di tali matrici, e delle più forti, è il dolore – insieme alla paura dello stesso. Piazzale senza nome, la nuova silloge dell’autrice, è un’esplorazione di questi territori condotta “senza anestesia”. Alternando testi in versi a brevi prose liriche, entrambi evocativi di momenti di strazio e di prova, conduce attraverso una sorta di itinerario guidato – in effetti, la si potrebbe vedere proprio come una sorta di meditazione guidata – nelle nicchie di tormento che l’essere umano cerca sempre di evitare, ma che solo venendo guardate in faccia possono essere portate a consapevolezza e smettere di bloccarlo nella sua evoluzione.

 

deve andare
mani abbandonate e sole – il polso
non si sente più –
il respiro precipita nel vuoto
la corsa chiude il suo ritorno

stringergli la mano

nella calma materna
corre tutta la vita

(pag. 21)

E poi:

il fazzoletto di lino imbevuto
nell’acqua, il dito passato
sulle labbra
lo abbevera oscenamente l’antico
silenzio di notti affamate

nel compiersi della fine
l’emergenza è un corteo di torture

(pag. 22)

E ancora:

gli ultimi gesti
sconfinano nella gravità
sempre più giù

la testa contro il petto
impressa sul torace la faccia
l’ultima vena si è fermata

morire con gli occhi offuscati
oltre le labbra
compulsiva
sofferenza senza risposta

(pag. 23)

Qui vediamo l’archetipo-mostro per eccellenza, quello della morte – e, ancor più e prima, quello dell’agonia. Luigia e io ci siamo passati con i nostri padri, e ci abbiamo dialogato, come chiunque abbia avuto un’esperienza simile. È per questo che posso dire senza tema di smentita che qui l’autrice è tanto perfetta nello scendere nell’archetipo, quanto nel trascenderlo. Non lo edulcora, ma lo restituisce in tutta la sua spietata verità – spietata in senso oggettivo, non intenzionale, e in qualche modo riecheggiante la fisiologica indifferenza delle dinamiche naturali, consonante con la poetica di Lucrezio nel De rerum natura – mi viene in mente la descrizione della peste di Atene nel capolavoro del poeta latino, massima espressione della filosofia epicurea in versi. E ciò avviene non solo per l’intensità della scena, ma, come dicevo, proprio per la sua capacità di elevarsi a bellezza, e dunque a spirito, in quell’afflato di amore che è l’esatto opposto dell’indifferenza dei neutri fenomeni naturali, ma è parte integrante delle relazioni energetico-spirituali, e in primis di quelle umane (finché restano umane, almeno). Così, anche il nucleo dell’esperienza cristiana, il sacrificio che è prima di tutto un rendere sacro, attraverso la condivisione e la carità che escono spontaneamente dal cuore, si riversa su questo scenario, squarciando – o cuocendo, come direbbero i sapienti orientali – l’archetipo del dolore (e della paura) per lasciar intravedere un Oltre di Eterno.
Non per questo, sia chiaro, siamo di fronte a una poesia religiosa. Eppure, profondamente spirituale lo è: di quella spiritualità che è insita nella materia e si fa strada nell’ostile resistenza del mondo e del corpo, impregnando e vivificando anche la morte, e anticipando un bagliore di resurrezione. Prima, però, è necessario, dantescamente, attraversare i reami infernali. Da qui le parti imperniate sul dramma della droga e della violenza, che sono come orlate da scenari metropolitani periferici immersi nel grigiore, la cui “purgatorialità” pare la promessa di un forse-Oltre aperto a chi sa resistere o reagire.

L’iniziazione era avvenuta nel piazzale della ferrovia mentre la brezza gonfiava la sera. Una raffica violenta scopre i ragazzi sotto il cielo chiaro in un altro risveglio. Il viaggio è appena cominciato. nelle vene il freddo glaciale dell’inverno.

– Posso smettere quando voglio – disse con aria di sfida. Poi si allontanò rapido e la brezza spense la fiamma dei suoi capelli.

Te ne vai, solo, negli occhi e nel sangue. Nessuno ti parla, nessuno. Un lago ti circonda.

Amasti il gelo della fine.
Ecceduti. Schiantati in gola.
In un unico accordo discendente.

(pag. 28)

Mi piacciono molto questi squarci narrativi intrisi di una dimensione esistenziale “periferica”, che ricorda la mano di autori sensibili tanto all’emarginazione sociale quanto alle atmosfere dei luoghi – da Pier Paolo Pasolini a Mario Pomilio, tanto per citare due nomi autorevolissimi. Ne traspare un dolore che è noia quintessenziale, e al contempo un barlume di quel sublime in senso burkiano (ovvero “orroroso”) illustrato dal compianto Prof. Giuseppe Panella, nel quale la cosiddetta normalità può a un tratto convertirsi, spiazzando e creando straniamento e angoscia.

La strada è deserta nella controra. Nessuno attraversa a piedi il piazzale per montare sui gradini della scala che porta alla Villa comunale. Fa freddo. Il vento fa volare la polvere nel riverbero del sole. Gli occhi fissi dietro la finestra hanno raggiunto il fondo melmoso dell’acqua. Il sudore cola dal viso e lascia sul vetro un alone bianco. Il battito cardiaco è in una frequenza convulsa. Porta via con il dorso della mano la schiuma biancastra dagli angoli della bocca.

Ricordo solo il viso, nient’altro. Nessun nome.

L’incontro all’ora del tramonto sul marciapiede. Camminava a testa bassa con l’andatura molliccia dei perdenti. Aveva vent’anni, ma era stanco. Le mani sudate, infilate nelle tasche del cappotto. Lo vidi svanire dietro l’angolo sulla strada in salita senza dire una sola parola.

(pag. 32)

Luigia Sorrentino concentra il suo attento sguardo contemplativo sulle dinamiche sottili del mondo: quelle appena accennate ma decisive, come il proverbiale battito d’ali di farfalla che può scatenare una tempesta. Offre così un assist perfetto alla riflessione di fondo del nostro tempo: la necessità di rendersi conto di ciò che avviene, di non lasciarsi propinare finte verità, prendendo invece subito coscienza di ciò che non va e rifiutandolo. È l’eterna partita del libero arbitrio, spesso non sostenuto da un intuito altrettanto vasto e forte – precisamente quello senza il quale ogni “libera” scelta rischia di tradursi nell’inizio di un ineluttabile piano inclinato, il cui risultato sono scene come questa:

La tangenziale sprofonda nel buio
di tutte le notti
schiantato il canto contro
il finestrino
sull’asfalto drenante
scavato
cupo spalancarsi di arterie
declinano i fari,
scomparsa nel nero la sagoma
l’autocarro fermo sulla corsia
d’emergenza

barriere di neve nel sangue
cadute in un suono sordo
automatico

ecco dove si ammassano i giorni
dove dileguano corpi già morti

(pag. 37)

Versi e righe simili suonano come un allarme. Come a dire: questo è quanto la nostra vita si è ridotta a essere, e non per “destino”, ma in conseguenza (non sempre diretta, ma pur sempre evidente) di un sistema di vita squilibrato e fuori centro. Ciò non significa, comunque, che l’autrice voglia in alcun modo “fare la morale” alla società. Anzi, prevale sempre un tono confidenziale e quasi affettuoso, come se i suoi versi venissero componendo una profonda, viscerale nenia, capace – per sua stessa natura, e anche qui senza “intenzione” – di dare conforto alle anime tormentate.

i gesti che offendono sono macerie
seppelliscono la nostra miseria

tu stessa hai conosciuto l’inquietudine
il riflesso scuro
di una notte piantata in un’altra notte

il giardino chiuso alla madre

l’albero avvertito sul confine
la fatica della sua forma vacillava

(pag. 65)

E a seguire:

eri preoccupata
dal gesto che ti silenziava
la sua forma era oscura
la violenza perpetrata
addomesticava

tenevi fra le braccia
una terra fredda e antica
l’odore di legna bruciata

accese dal timo le mani
l’attimo presente curvo
sull’aria alta

(pag. 66)

Riemerge così un terreno ancestrale, fatto di emozioni di base – che richiama la misura mitico-archetipica della precedente raccolta poetica dell’autrice Olimpia –, di elementi naturali in lotta, di sempre incerto transitare tra le dimensioni dionisiaca e apollinea. Dove l’unico centro di riferimento è quell’amore che, come suaccennato, è capace di sublimare (in senso classico, ovvero di “elevare a bellezza”) ciò che in sua assenza, abbandonato al caos dell’entropia (anche) dei sentimenti, spesso degenera in violenza e nel tormento del karma più distruttivo.

Edizione esaminata e brevi note

Luigia Sorrentino è nata a Napoli e lavora alla Rai. Ha fondato e dirige dal 2007 il primo blog della Rai dedicato alla Poesia. Fra sue principali pubblicazioni: C’è un padre (manni, 2003, Prefazione di Ruggero Cappuccio), La nascita, solo la nascita (manni, 2009 Prefazione Maurizio Cucchi), Olimpia (Interlinea, 2013-2019, Prefazione Milo De Angelis, Postfazione Mario Benedetti), Inizio e Fine (I Quaderni della Collana Stampa2009, 2016, a cura di Maurizio Cucchi), Piazzale senza nome  (Collana Gialla Oro Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021).
Le sue poesie, tradotte in numerose lingue straniere, sono uscite su riviste e antologie. Fra i suoi libri pubblicati all’estero: Figure de l’eau/Figura d’acqua (Al Manar, 2017, con inchiostri di Caroline François-Rubino, traduzione in francese di Angèle Paoli), Début et Fin (Al Manar, 2018, con collage di Catherine Bolle, traduzione in francese di Joëlle Gardes), Olympia, (Al Manar, 2019 con disegni di Giulia Napoleone, traduzione di Angèle Paoli), Olimpia (RIL Editores, 2020, traduzione in spagnolo di Antonio Nazzaro) uscito in Cile e in altri paesi latino americani.

Ha curato con Alberto Garlini e Gian Mario Villalta il libro Per Mario Benedetti (Mimesis, 2021).
Per il Teatro ha scritto e pubblicato il dramma Olimpia, Tragedia del passaggio (2020), una produzione del Napoli Teatro Festival Italia diretto da Ruggero Cappuccio, messo in scena al Palazzo Reale di Napoli il 16 luglio 2020.

Luigia SorrentinoPiazzale senza nome, Samuele Editore, 2021, pagg. 102