FORTI LAURA

Una casa in fiamme

Pubblicato il: 3 Dicembre 2022

Qualche volta la quarta di un libro è sfavillante: induce a un acquisto irrazionale, la cui irragionevolezza è comprovata spostando appena di poco lo sguardo più sotto o, come in questo caso, dentro il risvolto, sul prezzo di copertina.

Qui, la quarta è forviante al contrario, perché banalizza, pur essendo un brano estrapolato dallo stesso romanzo. Probabilmente, la scelta dell’editor non è caduta sul brano giusto: non è il più significativo o il più pregnante. È vero, vi si accenna al palazzo che brucia, riecheggiando il titolo, ma ciò non basta a determinarne l’elezione.

Il libro è bello, senza dubbio, ancorché sia infarcito fino all’osso di ammiccamenti a un pubblico di lettrici. Con tutto il rispetto per la propagazione dello schwa finalizzata alla nobile causa del linguaggio inclusivo, per questo romanzo non è il caso di servirsene, dal momento che è abbastanza chiaro che si tratta di narrativa esclusiva, nell’accezione etimologica del termine, perché tende a escludere la fetta XY del genere umano.

Il cancro al seno (o presunto tale) di Manuela, la voce narrante, è (patologia) femminile. Il personaggio che esso attacca è, per l’appunto, femminile. L’ebraismo, che potremmo pensare come l’antagonista onnipresente della protagonista, è tramandato per linea di discendenza femminile. Lea, figlia adolescente di Manuela, è una specie di compost salvifico della biodiversità familiare, anche se lo si capirà solo a romanzo inoltrato. Lorenza, l’amica molto malata di Manuela, è antipatica e aggressiva all’esasperazione ma pur sempre combattiva come una valchiria. Quanto ai maschi, sono un ricettacolo di catastrofi. A cominciare dal marito di Manuela, Sergio. Fagocitato dall’ortodossia di un ebraismo acritico, è incapace di sondare sé stesso e i legami che ha tentato di costruire per un’esistenza intera; fallimentarmente, si è illuso di rattoppare le crepe profondissime della sua famiglia d’origine, intessendo un nucleo nuovo, senza aver soppesato che avrebbe potuto essere anch’esso eterogeneo e frangibile, al punto da venir sospinto egli stesso in un altrove virtuale e corruttibile, antitetico al suo, iper-deontologico, quasi senza averne la percezione. Elias, il figlio piccolo della coppia, è un disadattato, che necessita di supporti scolastici e psicologici, ed è destinato all’emarginazione, perfino dal padre, che lo ha generato e successivamente quasi rigettato. Tuttavia, manifesta qualche barlume di riscatto nella sua sete di curiosità etologica che, però, non trova corrispettivo rituale nel Ma Nishtanà[1] farfugliato in apertura della cena solenne di Pesach[2]. Gioele, il padre di Sergio, è un vecchio carico di risentimento, che esibisce con una livorosa incapacità di relazionarsi al prossimo; questi pretenderebbe, tramite i suoi malumori, di dare voce a una nemesi atta a risarcire una sequela di suicidi ineluttabili, e tutti germinati dalla Shoà, dei quali lui parrebbe essere l’ultimo epigono, miracolosamente scampato alla predestinazione. Infine, Bin, il farmacologo, l’amante di Lorenza, che migra verso l’insoddisfatta ‒ e, si vedrà, nostalgica ‒ Manuela, che a lui si è clinicamente affidata. Un insicuro camuffato da smargiasso. Ma anche un malato travestito da medico.

Come si desume dal tempo qui dedicato alla porzione maschile del romanzo, essa non è affatto di contorno, anzi, è decisamente preminente nella sua esilità. Ed è in questa prospettiva che, plausibilmente, dovrebbe essere individuato il cardine della dialettica tra i due generi: in uno scontro di forze non sempre congruo, indipendentemente dai contenuti.

Questo il panorama umano. La storia però va letta, e ne vale senz’altro la pena, anche perché lo stile è accattivante, si giostra tutto tra la prima persona e i discorsi diretti ma senza squilibri. Solo qualche inserto didascalico-comportamentale (Pausa imbarazzata. Lungo sospiro nel ricevitore; Una pausa etc.), che fa trasparire le ascendenze drammaturgiche dell’Autrice.

Concludendo, qualche doveroso rapido cenno alle numerose citazioni cinematografiche, alcune delle quali mai esplicitate (Do ut des Clarice[3]): forse, una raffinatezza; più probabilmente, un piccolo dandysmo, come lo è anche la scelta di non inserire un glossario dei termini ebraici (molti) presenti nel testo, dando in qualche modo per inteso che tutti li debbano conoscere. Discutibile l’eliminazione di tutte le ‘d’ eufoniche: una presa di posizione formale che si direbbe improntata a ipercorrettismo, dato l’abuso che ne viene comunemente fatto.

Qualche svista redazionale ovviabile in una prossima ristampa (siamo certi che Alvin sia proprio un criceto, e non piuttosto un Chipmunk, ossia uno scoiattolo? Giusy e Giusi sono la stessa persona?) ma, al contempo, svariate ricercatezze letterarie. Su tutte: il rivolo del sangue abortivo rievocato dal riaffacciarsi di quello mestruale, a conclusione della terapia ormonale di Manuela, che è più di un sigillo. È una rinascita dalle ceneri di una casa che è andata a fuoco.

 

[1] È il passo introduttivo dell’Haggadà, che si legge durante la cena di Pesach (seder), e solitamente spetta al più piccolo della famiglia. Esso raccoglie tre domande: perché questa sera è differente da tutte le altre sere? Perché questa sera mangiamo il pane non lievitato? Perché questa sera si mangiano le erbe amare?

[2] È una festività ebraica che dura otto giorni (sette nel solo Israele) e che ricorda la liberazione del popolo ebraico dall’Egitto e il suo esodo verso la Terra Promessa.

[3] Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs) [USA, 1991, di Jonathan Demme]; nel film, la battuta, rivolta da Hannibal Lecter (Anthony Hopkins) a Clarice Starling (Jodie Foster) è, per la precisione, «Quid pro quo, Clarice» che, comunque, ha la medesima valenza. Andrebbe verificato il testo originale del romanzo di Thomas Harris (1988).

Edizione esaminata e brevi note

Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021.

Laura Fortihttps://www.guanda.it/libri/laura-forti-una-casa-in-fiamme-9788823531017/Una casa in fiamme, Guanda, 2022