Castelli Cornacchia Raffaele

L’educazione

Pubblicato il: 3 Agosto 2023

“L’immaginazione non è una semplice facoltà, è l’esistenza umana stessa.”
William Blake

La poesia di Raffaele Castelli Cornacchia, anche in questa silloge “L’educazione”, edita da PeQuod nel marzo del 2022, oscilla fra il prosaico e l’aulico, quest’ultimo riportato sempre con scetticismo molto contemporaneo. Il poeta sembra intento sempre, come nelle parole di Montale riferite a Gozzano, proprio a far “cozzare l’aulico con il prosaico.” Questo per produrre la ”scintilla selvatica” in grado di far divampare quel “fuoco senza compassione” che ci permetta di vedere, con cinico e necessario disincanto, le cose della vita.

Fra oggettività e soggettività il velo diventa sempre più sottile, la scrittura si scopre quel percorso rigoroso in cui nessuno spazio rimane per banali effusioni liriche. È uno scavo nel linguaggio, se in poesia la pagina è sempre bianca, va ascoltata nel suo profondo dire aporetico, formicolante paradosso che rende conto dell’inquietante duplicità che caratterizza ogni espressione che possa chiamarsi poetica.

Fra i “lezzi delle cose umane”, si tratta di “lasciare echi che sembrano linguaggi”, nella “penitenza dello scrivere”, muovendosi in un contesto in cui tutto muta ed evapora. Più che di società liquida, il poeta sembra narrare di una società in cui tutto è evaporato da un pezzo, dove le emozioni ci stancano e “l’esercizio della vita”, dove anche “Il buono bestemmia” e si è solamente “tronfi del proprio io” , si consuma fra “momenti sobri e pieni disastri”.

Sebbene il tono sia colloquiale, il poeta non cerca mai una, in fondo falsificante, complicità con il lettore, né lo lusinga con i cascami di una retorica consolatoria, così conformisticamente veicolata oggi da molti poeti in cerca di facili consensi. Quella di Raffaele Castelli Cornacchia è una parola dura, anche se non spietata, che fruga negli interstizi della quotidianità per cavarne ciò che rimane aldilà della sua presente fuggevolezza. Ci sono momenti di quiete, “quando la brezza del rancore” cessa di spirare e si scambiano sogni al “baratto del quartierino”, sempre ”in attesa/ d’una storia, adrenalina o gelati”.

Sentenze brillano nel testo: “Forse s’impara da soli a odiare”, in una realtà in cui “anche le ombre mutano”, il poeta è consapevole di proferire enigmi, “scritte siderali”, fuse con “lemmi incerti”, “nomignoli sgraziati”, “bassezze”. Tutte le rappresentazioni del reale non possono che essere fallaci, se “ogni disegno è prodotto da ciechi” e noi “facciamo in fretta/ ad ingannare le parole”, accettando infine ogni inganno, “purché chiaro”.

Qui si capisce che, come sempre, la poesia è quell’atto filosofico che, mettendoci davanti ai vortici e ai segreti del linguaggio, facendoci attraversare i suoi buchi neri, inaugura altri tempi e altri spazi, è una sonda per percepire l’incessante divenire e darci quindi, in filigrana, il fil rouge di ciò che permane.

Non manca in questi versi lo spasimo di un’intollerabile realtà, quando “il fato si chiama fallimento” e solo le aiuole sono ”senza cause e colpe”, se tutto in questo mondo, vessato dal culto dell’iperrealismo e della visibilità, c’è letteralmente “sbattuto in faccia”, a chi resiste non resta che venerare “il nascosto”, il “buco nero fra le dichiarazioni”, poiché è proprio la natura umana “che già da vivi ci fa un po’ morire” e troppo spesso gli uomini “scambiano vita per sopravvivenza”.

Quello che ci tocca in sorte è impetrare “quell’elemosina di luce” che possa liberarci anche dalle nostre farneticazioni, fra archetipi e miti, che codificandoci ci intrappolano. E allora per trovare un “gesto da salvare”, bisogna riappropriarci di questo sguardo cinematografico che faccia anche di un semplice posacenere durante un aperitivo il correlativo oggettivo dei nostri desideri reali.

Pur tuttavia si nota qualche caduta, nel pleonastico “istupidita gente stupida”, per esempio, o in qualche parolaccia di troppo, che appesantisce alcuni versi in un contesto che, secondo me, non ne ha bisogno- fa eccezione la parola “culo”, usata musicalmente in maniera interessante in chiusura della poesia 52 – qualche ossimoro un po’ ingenuo, “la grazia di infiniti giorni finiti” ma sostanzialmente il registro conquista la sua credibilità di operazione artistica evoluta, come sottolinea Amilcare Bronchielli nella bella e densa postfazione.

Ci sono sottili riflessioni filosofiche, elaborate in filigrana, amarissime constatazioni di un’involuzione antropologica in corso; penso, per esempio, alla poesia 44, dove gli spazi della nostra asettica normalità borghese sono “loculi” e ogni memoria sembra dissolversi nel “cullare pomeridiano”. La poesia tende sempre al grido, sebbene mai cessi il controllo di quella “sentinella/ che impedisce al verso davvero di urlare”. Il grido è quello in cui riecheggia la profonda animalità preumana, prima della parola e del Senso. Del resto anche dal punto di vista antropologico tutto è un tentativo di tornare al “pensiero selvaggio”, come ha mostrato Levi Strauss.

Ed è proprio provando a sfuggire al Senso opprimente e normatore, in cui “tutto ha un posto”, che il poeta cerca “sogni senza senso” e di congedarsi dalla parola, proprio per non essere di questo Senso “la marionetta/irresponsabile”; con una granitica certezza, forse la sola, nell’umano sbandare: “Nulla smette di essere realtà immaginata.”

Edizione esaminata e brevi note

Raffaele Castelli Cornacchia, “L’educazione”, PeQuod, Ancona- marzo 2022

Raffaele Castelli Cornacchia (1964) ha pubblicato i libri di poesia: “A meno che” (Ennnepilibri, 2008), “Via Milano” (Lampi di stampa, 2012), “L’alfabeto della crisi” (PeQuod, 2013), “La zona rossa” (Transeuropa, 2020).

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Lankenauta, Ettore Fobo, agosto 2023