Con questo ennesimo, gradevolissimo e scorrevole saggio Petacco si è ancora una volta confermato uno dei pochi validi giornalisti, che in questi anni, col maestro dei maestri Montanelli, Venè, Grillandi, Bertoldi, hanno riconciliato tanti lettori con la “Storia”. Quella “Storia” che gli accademici alla De Felice, col loro atroce stile involuto, e una scuola che è quello che è, ha contribuito a farne uno degli argomenti più pallosi che ci siano.
Ma veniamo al “Prefetto di ferro”. Decisamente una tipica storia italiana quella di Cesare Mori, l’incorruttibile funzionario piemontese, inviato del governo fascista in Sicilia per debellare la mafia. Spesso vengono fatti incoerenti paragoni con gli odierni giudici del pool antimafia. Una sciocchezza: Mori all’inizio del suo mandato fu dotato di pieni poteri ed ebbe a disposizione un piccolo esercito. Riuscì a distruggere le basi del brigantaggio, a fare piazza pulita dei “pinciuti” di piccolo e medio calibro, offrendo il destro a Mussolini per annunciare a tutto il mondo che vittoria del regime sulla mafia. La realtà fu ovviamente ben diversa: il prefetto stava diventando troppo famoso e incominciava ad indagare troppo in alto, arrivando ai protettori – compari stanziati in quel di Roma.
Fu brutalmente messo da parte e il suo lavoro fu sapientemente eliminato: i fascicoli delle sue inchieste furono fatti sparire dall’Archivio di Stato. Proprio per questo non è stato facile per Petacco ricostruire nei dettagli l’opera del prefetto.
Non facile per diversi motivi: innanzitutto Mori è stato sempre descritto come un fascistone della prima ora, bieco esecutore dell’azione repressiva fascista. Praticamente uno dei relitti del passato regime. Tanto che due dei più noti padrini del dopoguerra, Don Calogero Vizzini e Genco Russo, si videro assegnati la Croce di Cavaliere della Repubblica a compenso delle persecuzioni subite.
Lo stesso De Felice, con la sua monumentale storia del fascismo, dedicò al prefetto poche pagine e solo per dire che “Mussolini affidò a Mori le repressione delle organizzazioni mafiose in Sicilia” e che “uomo gradito ai fascisti”. Ed altre affermazioni, che in base alle ricerche di Petacco, risultano lacunose, imprecise, se non menzognere. In realtà Mori non fu mai amato dal regime e dai suoi scherani: tanto per capirci, come prefetto di Bologna fu l’unico che ebbe il coraggio nella primavera del 1922 a tenere testa alla violenza dei ras locali. “Vogliamo pisciare in testa al prefettissimo”: queste le affermazioni dei cortesi fascistoni con cui Mori ebbe a che fare.
Mori, come viene raccontato da Petacco, risulta essere stato uomo della “vecchia Italia”, sicuramente ambizioso e contraddittorio, che almeno fino al 1926 si è appoggiato ai sempre più sparuti circoli monarchici. Proprio quelli che, invano, avevano tentato di mettere un argine di legalità alla nascente dittatura fascista. Il Mori in camicia nera è l’uomo degli ultimi anni siciliani; un misto di ambizione, conformismo e disincanto: ormai aveva preso atto che non rimaneva che il fascismo e, alla fine della sua parabola, decise di sostenerlo esplicitamente. A questo punto si può parlare della vicenda dell’onorevole Cucco, un concentrato di indegna italianità, che potrebbe essere cronaca dei giorni nostri e non del 1927. Oppure delle vicende del Mori impegnato nel far west delle Madonie, Gangi e i suoi particolarissimi “briganti” come la “cagnazza”.
Comunque sia il libro è agile, scorrevole, si legge d’un fiato, tale da far venire meno tanti luoghi comuni. Per di più il personaggio Mori non è affatto presentato come un santino. Petacco ce lo descrive, pur non dissimulando ammirazione, con tutti i suoi limiti e ambizioni. Finalmente un ritratto in chiaroscuro
Edizione esaminata e brevi note
Arrigo Petacco, “Il prefetto di ferro. L’uomo di Mussolini che mise in ginocchio la mafia”, Mondadori (collana “Oscar storia”), Milano 2004, pp.237.
Recensione inizialmente pubblicata nell’anno 2002 su ciao.it
Luca Menichetti
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