“Le strade di polvere” è considerato uno dei libri fondamentali della produzione artistica di Rosetta Loy. Un’opera complessa, affascinante e di notevole qualità narrativa. Non è un caso, infatti, che “Le strade di polvere” abbia ottenuto una sequela di premi letterari: il Campiello, il Supercampiello, il Viareggio, il premio Città di Catanzaro, il premio Rapallo e il Montalcino. Riconoscimenti, a mio avviso, pienamente meritati. Lo stile accurato e diretto confermano la grande capacità di Rosetta Loy di descrivere con sapienza personaggi e luoghi, psiche ed atmosfere, umanità e sogni. Il suo grande merito sta soprattutto nel saper mescolare con destrezza la verità dei ricordi e l’invenzione letteraria perché “Le strade di polvere”, come spiega la stessa autrice, nasce da vicissitudini legate alla propria famiglia d’origine, quella da cui proviene suo padre, ingegnere piemontese originario del Monferrato.
La grande casa che fa da sfondo a tutte le vicende de “Le strade di polvere” fu costruita alla fine del Settecento dal Gran Masten, il burbero capostipite di cui nessuno ha mai saputo il vero nome. Si era arricchito “tra l’andare e venire dei soldati, con il foraggio per i cavalli e il grano nascosto e rivenduto tre volte tanto. Con il vino per far ubriacare i francesi e austriaci, russi, bavaresi, alsaziani, durante quelle interminabili guerre che avevano colorato come un gioco di travasi la mappa dell’Europa centrale“. Perché la saga della progenie del Gran Masten si muove tra i piccoli fatti di un quotidiano vivere e i grandi eventi storici che, volenti o nolenti, coinvolgono chiunque. E ci si spinge, così, dalla fine del XVIII secolo fino agli anni dell’Italia post-unitaria. Il Gran Masten si era sposato tardi e dei numerosi figli avuti, ne sopravvissero solo due: Pietro, detto Pidrèn, e Giuseppe, detto Giai. Ai due fratelli, giunti all’età giusta, vennero presentate dal cugino Mandrognin due giovani sorelle, “due ragazze di Moncalvo orfane di madre che ricamavano i paramenti per la Chiesa e qualche volta, sedute davanti al cuscinetto irto di spilli, si esercitavano nel tombolo sotto la guida di una zia veneta, la Luison“. La Maria era bruna e molto bella. L’altra, la Matelda, parlava con le piante e le sementi ed aveva i capelli di un castano spento, “colore così diffuso in certe zone del Monferrato da far pensare a un adattamento della specie: simile alla terra, al fango, alle interminabili nebbie“.
Sia il Pidrèn che il Giai si sentirono attratti da Maria ma entrambe le sorelle mostrarono interesse per il Giai, per i suoi riccioli biondi, per la sua gioia di vivere. Una combinazione che doveva portare necessariamente qualche sofferenza. Per questo Maria e Giai si sposarono mentre il Pidrèn, a cui sarebbe toccata la Matelda, scelse semplicemente di partire al seguito di Napoleone Bonaparte. Il Giai rimase a lavorare con scarsi risultati e poca destrezza le terre ereditate dal Gran Masten e a suonare il suo amato violino. Gli anni passarono e la gelosia tra Maria e Matelda, innamorate dello stesso uomo, si solidificò fino a ramificarsi in mille tralci. Ma quando il colera giunse a reclamare i propri morti, fu la Matelda, detta ormai la Fantina e destinata a restare zitella, a rimanere al capezzale del Giai e a curarlo fino all’ultimo respiro mentre Maria era stata mandata altrove per sfuggire all’epidemia. Alla morte del Giai si cercò il Pidrèn ma nessuno sapeva dove fosse. Tornò a casa una sera di fine marzo, circa sette anni dopo la morte di suo fratello e sposò Maria poco tempo dopo. “Lei non sapeva se lo voleva oppure no ma non osò dire nulla per via di quelle terre, sementi e bestie di cui non poteva rendere conto. Lo sposò alle cinque del mattino in una Chiesa deserta, buia, con due candele ai lati dell’altare e il Prevosto con la barba lunga“.
Dal matrimonio di Maria col Pidrèn nacquero cinque figli: Gavriel, il maggiore; Louis-Charles, detto Luis; la Bastianina amante della pittura e destinata a divenire badessa; Gioacchino, morto bambino volando giù dal fienile; e la Maddalena, detta Manin. Le pagine del romanzo della Loy, quindi, si riempiono dell’infanzia e delle esistenze dei più prossimi discendenti di quel ricco Gran Masten e così ne seguiamo gli amori, le delusioni, le passioni, le sofferenze. Assistiamo anche ai matrimoni ed alle discendenze di Gavriel e Luis in un perenne ed inevitabile susseguirsi di accadimenti e storie domestiche, semplici ma necessarie. L’incalzare del tempo fa il suo dovere e le stagioni si muovono inesorabili tra il mutare della terra e quello degli uomini che la abitano. Ogni singolo personaggio de “Le strade di polvere” racchiude un universo di emozioni ed è descritto dalla Loy in maniera avvincente e dettagliatissima. Ogni parola ha il potere di farci vedere, sentire, sfiorare e percepire le cose così come erano o come avrebbero dovuto essere. La componente favolistica si mescola con quella più asciutta e laconica di un raccontare che si compone di suggestioni al limite del magico ma anche di commoventi e sorprendenti attimi di materialità. La scrittrice riesce a mantenere sempre piuttosto alta la soglia d’attenzione del lettore perché non annoia, non infastidisce, non asfissia. L’intreccio di persone e vicende è così ricco e colorato da non consentire momenti di staticità: tutto si muove, tutto cambia, tutto si fa inatteso e spigliato. Senza dubbio “Le strade di polvere”, pubblicato per la prima volta circa trenta anni fa, resta uno dei migliori esempi di saga familiare che la letteratura italiana contemporanea possa offrire.
Edizione esaminata e brevi note
Rosetta Loy, “Le strade di polvere”, Einaudi, Milano, 1987.
Pagine Internet su Rosetta Loy: Wikipedia / Scrittori per un anno (Rai) /Enciclopedia Treccani / Scheda Einaudi
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