«There was an Old Person of Gretna
Who rushed down the crater of Etna
When they said, ‘Is it Hot?’
He replied, ‘No, it’s not!’
That mendacious Old Person of Gretna».
(C’era un vecchio di Gretna
che ruzzolava nel cratere dell’Etna
Quando gli chiesero “È caldo un po’?”
Lui rispose “Proprio no!”
Quel mendace vecchio di Gretna)
La peculiarità de “Il libro dei nonsense” è che ci si trova fra le mani un sostanzioso catalogo – più di quattrocento pagine – di immagini e piccole composizioni senza capo né coda. Nell’introduzione Izzo ricorda molti precedenti nella tradizione britannica mettendo in risalto alcuni aspetti tipici di Lear: l’accostamento fra due sinonimi che non hanno a che fare niente l’uno con l’altro. Persino Shakespeare è tirato in ballo, un po’ forzatamente.
Io gradirei spostarci, non nell’Inghilterra elisabettiana, quanto all’Italia umanista e dare la parola ad un certo Domenico di Giovanni, chiamato il Burchiello: leggiamo “Nominativi fritti e mappamondi”.
Nominativi fritti e mappamondi,
e l’arca di Noè fra due colonne
cantavan tutti Chirieleisonne
per l’influenza de’ taglier mal tondi!
Vale a dire che per via dei piatti irregolari i suddetti cantarono il Kyrie eleison. Logico, no? Poi:
La luna mi dicea: – Ché non rispondi? –
E io risposi: – Io temo Giansonne,
però ch’i’ odo che ‘l diaquilonne
è buona cosa a fare i capei biondi –.
Se la luna gli chiede perché tace, lui risponde che teme Giasone poiché col sapone vengono bene i capelli biondi. E, soprattutto, continua argomentando:
Per questo le testuggini e i tartufi
m’hanno posto l’assedio alle calcagne,
dicendo: – Noi vogliam che tu ti stufi –.
E questo san tutte le castagne:
pe’ caldi d’oggi son sì grassi i gufi,
che ognun non vuol mostrare le sue magagne.
Infine conclude con un’immagine educativa, molto vicina a Lear:
E vidi le lasagne
andare a Prato a vedere il sudario
e ciascuna portava l’inventario.
C’è chi tende a giustificare le parole del Burchiello (1404 – 1449) trovando riferimenti logici forzati con la stessa illusione di chi vuol spiegare che c’è sotto al Perché non starnutire? di Duchamp. Immaginarsi delle lasagne turiste in visita alla Sacra Sindone è stupendo, perché complicarsi la vita? È così e basta.
Francamente trovo il Burchiello molto vicino a Lear che non lo stesso Carroll. Izzo parla di una tendenza tutta inglese al non farsi domande o, comunque, a dare per scontato che la più strana delle azioni abbia un suo personale motivo d’esistere. Al contrario l’italiano tende a giudicare (negativamente) qualsiasi stranezza gli capiti d’incontrare. In Italia regna il doppio senso: è dai tempi dei Salamini (1905) di Petrolini che l’umorismo non fa progressi. Siamo il paese delle barzellette, in grado nemmeno di competere con l’umorismo inglese del XIX secolo.
C’è un particolare che sorprende nella biografia di Lear; non tanto il fatto che fosse un pessimista e che vivesse di malanni d’ogni sorta, quanto che i suoi disegni al principio non fossero indirizzati ad un pubblico infantile, come si potrebbe immediatamente considerare e come, in effetti, lavorava Carroll. Le scemenze (per dirla alla Petrolini) di Lear sono puro passatempo giocoso insensato, un vicolo cieco da affrontare in piena corsa. Alice si ingarbugliava in intrecciati soliloqui su ciò che potesse o meno aver senso, i personaggi di Lear convivono con l’incongruo: Alice però è un romanzo, il libro dei nonsense una raccolta di istantanee. Purtroppo ci si accorge che ogni fotogramma che ci è concesso è troppo veloce, come non voler approfondire la vicenda del vecchio di Rehims?
There was an Old of Rehims,
Who was troubled with horrible dreams;
So, to keep him awake,
They fed him on cake,
Which amused that Old Person of Rehims.
L’anziano signore tormentato da incubi è consolato con fette di torta. E poi? Poi niente, si passa alla pagina successiva. Il quadro è ben chiaro, il disegno esplicita ancora il bizzarro quanto vacuo accaduto e si passa al resto. Se intesa come favola per bambini passa inosservata, se interpretata come messaggio, beh, non comunica granché. Almeno, il messaggio è ben poco chiaro. Basta solo un’occhiata al disegno – che spesso è poco fedele ai testi – per capire l’irresistibile nulla che racconta. C’è un fattore ricorrente che rende spassose le inconcludenti microstorie illustrate. Facciamo un esempio fra i tanti:
There was an Old Man of Vienna
Who lived upon tincture of senna;
When that did not agree
He took camomile tea,
That nasty Old Man Of Vienna
.
(C’era un vecchio di Vienna
Che viveva di tintura di senna;
quando quella non gli andava,
Al tè di camomilla si affidava
quel disgustoso vecchio di Vienna)
La cattiveria di quel “disgustoso” è esilarante. Non è concepibile perché Lear se la prenda così col povero vecchio che si diletta nell’ingerire qualsiasi cosa. Volendo realizzarsi un cosmo abitato da tutti i personaggi nonsensical probabilmente non sarebbe il caos, come in Alice. Nel mondo dentro lo specchio tutto è distorto, il tempo è piatto e lo spazio non esiste. Nei limericks potremmo tentare di spiare un pianeta parallelo al nostro, con città pari alle nostre, con gli stessi paesaggi e animali, popolato però da Old Persons atti a compiere la propria azione quotidiana: in Lear il tempo c’è, dilatato, ma c’è. L’album fotografico che ci presenta suggerisce un luogo non lontano dal nostro, palpabile e al contempo inarrivabile. Se leggiamo di un tale inseguito da un toro non possiamo stupirci, anzi è cosa normalissima e possibile, è la risoluzione ad imbarazzarci: nessuno si sognerebbe mai di pretendere (è ciò che succede, noi non sapremo se la pretesa diverrà concreta attuazione dell’intenzione) di sedersi su una panca e sorridere alla bestia inferocita, per placare il suo odio. Nemmeno potrebbe venire in mente a qualcuno di sedersi su una sedia per morire.
Eppure gli elementi perché ciò accada sono a portata di mano. Volendo, potremmo provare. Non basta accomunare due sostantivi fra loro per ottenere un non senso; una frase, un concetto, un’esclamazione, un disegno senza senso fa ridere perché è impossibile; ciò che diverte è l’immaginare (o ancor di più: il poter vedere) concetti distanti l’uno dall’altro uniti con la forza, convincendosi che ciò sia logico. Non basta elencare una sedia o un tergicristallo per ottenere un nonsense, come invece pare suggerire Izzo nell’introduzione. Divertente sarà contestualizzare i due elementi portandoli ad una situazione estrema che non potrà – in nessun caso – essere attuata in realtà. Spingere una F, è impossibile: la frase è un nonsenso. Izzo racconta un esperimento in cui si propone di elencare sostantivi che non abbiano alcuna attinenza fra loro. Sostiene sia cosa impossibile: non ci riesce, beh, questione di esercizio.
Edward Lear racconta di città in cui donne dal naso lunghissimo ne salutano la punta con un materno “Dio t’accompagni, o punta del mio naso”; di vecchi seduti su rami che si fanno staccare via i capelli perché gli uccellini possano farsi il nido, o anziani romantici che mangiano ragni guardando il tramonto. Traspare una penetrante tristezza di fondo, come se gli uomini descritti – simili più a cartoni animati che persone – tentassero in ogni modo di rasserenare il debole umore di Lear, come se egli cercasse un consiglio dai propri omini e questi tentassero di apparire più stolti possibile, per strappargli un sorriso. Pare di immaginare lo scrittore, gran pittore ed esperto di botanica, barbuto e con doppiopetto, sghignazzare di nascosto mentre guarda un pelato che ride segandosi due dita della mano.
Il libro dei nonsense è un volume da aprire di scatto, leggere fra le righe, ridere dei disegni e richiudere immediatamente. Non vale sfogliare le pagine. Non vale cercare continuità fra le storie; ognuna è a se stante, non a caso nessuna è ambientata nella stessa località di qualcun’altra. Fra l’altro per ragioni di salute, Lear, ha viaggiato moltissimo fra gli stati europei, scoprendo l’Italia e descrivendola in numerosi diari. Tornando al pessimismo e al malumore, motivo anch’esso degli svariati viaggi, nel secondo libro, More nonsense, i personaggi tendono ad avere una sorte più malevola, scivolando spesso a morte certa o all’esilio forzato. Un esempio:
There was a Young Person of Kew,
Whose virtues and vices were few;
But with blameable haste,
She devoured some hot Paste,
Which destroyed that Young Person of Kew.
(C’era una ragazza di Polizzi,
Di poche virtù e pochi vizi;
Ma un cucchiaio di colla bollente,
Ingoiato con fretta inconcludente,
Finì quella ragazza di Polizzi)
Una donna inutile muore. Attenzione: il decesso avviene, non perché abbia ingerito della colla, piuttosto perché l’ha ingoiata con “fretta inconcludente”. I personaggi dinoccolati che saltellano, volano in sella a pesci mosconi o cavalli, che si vergognano o si ribellano ai matti, fanno parte di una scappatoia alla rigidità della realtà. Non sono un’efficiente via di fuga, ma semplicemente una pausa e una distrazione alla noia e al malessere d’una vita affannosamente normale. Non hanno alcuna pretesa se non quella di esistere per un po’ nella nostra testa e in quella di Edward Lear. Ed avere una testa come quella di Lear non è cosa da poco.
Edizione esaminata e brevi note
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