Campana Dino

Al diavolo con le mie gambe

Pubblicato il: 16 Giugno 2016

La collana “I pacchetti” de L’Orma editore di Roma è un piccolo tesoro, e la presentazione che si trova sul sito della casa editrice si può dire veritiera: “I Pacchetti, i primi libri da chiudere, affrancare (con un francobollo da 1,50) e imbucare in una qualsiasi cassetta postale… racchiudono le più originali, sconosciute, umane e quotidiane lettere dei massimi pensatori, artisti e uomini politici di tutti i tempi e riscoprono il gusto del dono implicito in ogni lettera di carta… Libretti leggeri nella forma e nel prezzo (5 euro), ma raffinati nell’estetica e nel contenuto, corredati al loro interno da un apparato di immagini in perfetta assonanza con il loro spirito”. Se vi è capitato di incrociarli in libreria vi avranno senza dubbio incuriosito, se avete ceduto alla curiosità e ne avete acquistato uno credo non vi abbia deluso. Almeno per me è stato così con Al diavolo con le mie gambe, volume curato da Chiara Di Domenico, che raccoglie una serie di lettere di Dino Campana indirizzate, tra gli altri, a Cecchi, Papini, Soffici, Aleramo negli anni che vanno dal 1914 al 1918, saltando poi fino al 1927 per le ultime due. Se negli anni scolastici si è letto della non ricezione iniziale di questo libro da parte dei letterati fiorentini, delle mille difficoltà incontrate da Campana per la pubblicazione (finendo poi col farla a proprie spese), della sua storia d’amore con Sibilla Aleramo, del suo finire rinchiuso in ospedale psichiatrico, leggere queste lettere dello stesso poeta rende molto più chiaro il suo carattere e i muri contro cui si trovò a sbattere.

C’è l’esordiente convinto di avere scritto qualcosa di nuovo, di estremamente valido e che cerca contatti con quelli che considera voci capaci di comprenderlo, o almeno che dovrebbero avere la capacità di capire cosa si trovano di fronte, e si fanno invece ingannare dai suoi toni scorbutici, insofferenti, dal suo essere uomo di campagna: “Egregio Signor Prezzolini, […] Io sono quel tipo che le fu presentato dal signor Soffici all’esposizione futurista come uno spostato, un tale che a tratti scrive cose buone. Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato. Aggiungo che io merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia che so fare ha una purità di accento che è oggi poco comune da noi.” (pag. 19). Pregiudizi che Campana avverte e che finisce con il giustificare col suo comportamento, spesso contraddittorio, fra offese e ricerca di consenso, tra guanti di sfida lanciati e scuse. A Giovanni Papini scrive, nel febbraio del 1914: “[…] Tutti mi hanno sputato addosso dall’età di 14 anni, spero che qualcheduno vorrà al fine infilarmi. Ma sappiate che non infilerete un sacco di pus, ma l’alchimista supremo che il dolore ha fatto sangue. Urrah! io voglio infilare od essere infilato in odio ai sacchi di pus coperti di futurismo”. (pag. 21) e sempre a lui due anni dopo: “Se dentro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni orsono verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò”.

C’è l’uomo che vede ferita la propria dignità e non sa come recuperarla. C’è l’uomo innamorato e poi respinto. C’è l’uomo, infine, che se ne va. Sembra quasi impossibile che un libretto di tali dimensioni possa restituire in modo così vivido il ritratto di un essere umano, eppure la scelta delle lettere, i brani della stessa curatrice, riescono a farlo. Si sente un’estrema solitudine nelle parole di Campana, quel senso di abbandono, sconforto, rabbia di chi ha bussato alla porta del mondo-città (di ciò che lui considerava mondo) e non gli è stato aperto, ma gli sono giunte risate dai bastioni.

“Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni dell’adolescenza. Saliva al silenzio delle straducole antichissime lungo le mura di chiese e di conventi: non si udiva il rumore dei suoi passi. Una piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre mute: a lato in un balenìo enorme la torre, otticuspide rossa impenetrabile arida. Una fontana del cinquecento taceva inaridita, la lapide spezzata nel mezzo del suo commento latino. Si svolgeva una strada acciottolata e deserta verso la città.” (dai Canti Orfici, Einaudi, pag. 4)

Dalla lettera del 25 settembre 1917 che scrisse, ancora a Papini, da Marradi: “Come un fauno deluso prendo il ghiaccio di un bacino sotto una cascatella montanina. Il sole non s’affaccia ancora dietro i castagni. […] Povero Dino. Non restare in mezzo alla via ti schiacceranno. Ma lui resta in mezzo alla via. Son nate fuori le cavallette e mi saltano intorno con ruote rosse. Pure in tutto c’è una certezza che io… (c’est un secret par tous connu). Devo farmi coraggio?” (pag. 51)

ab, giugno 2016

Edizione esaminata e brevi note

Dino Campana (Marradi, 1885 – Castel Pulci, Firenze, 1932), scrittore, poeta. Autore dei Canti Orfici (1914), raccolta di frammenti, poesie, prose liriche.

Dino Campana, Al diavolo con le mie gambe, a cura di Chiara Di Domenico, L’Orma editore, 2015. pag. 64. Euro 5.

Due siti dedicati all’autore: dinocampana.it e campanadino.it.