Cibotto Gian Antonio

La vaca mora

Pubblicato il: 6 Settembre 2013

La vaca mora è il termine con cui di solito nelle campagne venete viene indicata la vecchia littorina, quel treno che da Venezia-Mestre conduce nel Polesine, attraversando vaste pianure coltivate a mais e costellate da filari di pioppi.Stando al risvolto di copertina, la vaca mora era il nome che gli alpini davano alla loro tradotta durante la guerra.

In questo romanzo il mitico treno è soltanto evocato, poiché vaca mora è il soprannome dato dai due protagonisti a un giovane contadino silenzioso e apparentemente stolido, incontrato in una loro avventura notturna, che assumerà risvolti drammatici.

Non sapremo mai il vero nome di questo personaggio.

Nell’Italia dell’immediato dopoguerra, ridotta a un cumulo di rovine e occupata dalle truppe statunitensi, due giovani compari usufruiscono di un passaggio da Rovigo a Venezia a bordo di un camion americano. La stazione ferroviaria è stata distrutta dalle bombe e non c’è neppure la speranza che una vaca mora possa transitare. Si aggrega loro un contadino, stretto alla sua valigia e diretto a Venezia in cerca della sorella sedicenne, che non dà più notizie di sé da un mese. Partita per andare a servizio da una famiglia, ha detto di aver trovato un posto migliore come cameriera, ma di fatto è scomparsa. Nella valigia il contadino trasporta abiti da consegnarle.

I due amici, scapestrati e in vena d’avventure, tendono a sfotterlo, lo vedono come il tipico contadino testardo, ottuso, conservatore e dalla mente semplice, schematica.

Sebbene fosse l’unico abituato da una tradizione atavica a sopportare con rassegnata fermezza i tiri della sorte, per cui di fronte alla snervante durezza del viaggio serbava come un tono di composta sofferenza, di dignitosa sopportazione, pure a tratti un’ala cupa di presentimento, di fonda tristezza, gli calava sul volto, indurendone i lineamenti”.

Vaca mora detesta gli americani, sempre ubriachi, che hanno bombardato inutilmente il suo paese, uccidendo un vitello nella sua stalla e aborrisce i negri e le donne italiane che vanno con loro. Sembra uscito da una commedia del Ruzante, è un personaggio tra il patetico e il sarcastico che infine diventa una figura tragica.

I due giovani sono diretti al Lido, dove uno dei due, Antonio, ha organizzato alcuni incontri di boxe tra americani e italiani non professionisti, che hanno tutta l’aria di esser stati reclutati a casaccio e forse con l’inganno e perciò destinati a massacranti sconfitte.

Giunti di notte a Venezia, mentre Antonio va diretto alla meta, il suo compare accompagna il contadino fino alle Fondamente Nuove in cerca della sorella e poi raggiunge Antonio al Lido. Segue una serata di sballo tra descrizioni degli incontri di boxe, donnine allegre e una sbronza colossale. L’atmosfera è di un’Italia che, pur con le macerie ancora fumanti, ha fretta di dimenticare e di divertirsi, mentre gli americani, da vincitori, scorrazzano per città e paesi e si ubriacano dopo le fatiche della guerra.

Verso l’alba i due, insieme ai pugili, vengono rispediti con un motoscafo a Piazzale Roma, scortati dagli ufficiali americani e da qui s’imbarcano su un camion guidato da un folle conducente negro, che li riporta a Rovigo. La loro avventura non è ancora finita, perché ritrovano il contadino vaca mora e la storia avrà un epilogo violento inaspettato, che cambierà per sempre la mentalità dei protagonisti.

Storia di provincia profonda, fitta di colpi di scena, “La vaca mora” vanta un’atmosfera di sballo notturno e un finale noir che la rende estremamente moderna. Tutta la smania di divertimento cela un senso di disperazione e di miseria, che spinge, ad esempio, le ragazze a prostituirsi con gli americani come ha fatto la giovanissima sorella del contadino.

Alla fine, dopo un’epica fuga tra i meandri della biblioteca cittadina (la cultura offre pur sempre una salvezza!) i due giovani si scopriranno cambiati.

La vita di sempre, gli amici, le strade, il colore vetroso dell’aria che respiravamo dalla giovinezza, erano a pochi metri di distanza, e sarebbe bastato allungare le dita di una mano per rientrare nel grembo dolcemente protettivo della normalità quotidiana. Ma lo spirito d’iniziativa sufficiente a girare la chiave d’una porta ed a confondersi fra la gente come se nulla fosse accaduto, diveniva con il trascorrere delle ore una probabilità che viaggiava sempre più lontana dalla nostra mente”.

Hanno assistito a un omicidio, a una violenza improvvisa ed efferata e ne escono disorientati, desolati, cresciuti di colpo e privi di speranza, incapaci di reagire e di trovare un senso a quanto accaduto. È una provincia che sembra collassare su se stessa e non sa offrire ai suoi figli motivazioni né per vivere, né per morire. Spente, con la scena finale, le speranze nella devozione religiosa che aveva retto intere generazioni, rimane un’oscura notte dove si muovono le ombre degli uomini.

Un’ultima osservazione riguarda Venezia, qui vista con lo sguardo di chi non le appartiene e la trova giustamente labirintica, estranea, ostile. Vi è anche qualche imprecisione, perché si parla di strade, di viali, di una piazza, ma a Venezia l’unica piazza è san Marco, tutti gli altri sono campi o campielli e vi sono calli e non vie.

La Venezia periferica, quella delle Fondamente Nuove, è decisamente più oscura e misteriosa di quella centrale e affollata, consona al protagonista.

Articolo apparso su lankelot.eu nel settembre 2013

Edizione esaminata e brevi note

Gian Antonio Cibotto (Rovigo 1925) scrittore e critico teatrale italiano.

Gian Antonio Cibotto, La vaca mora, Firenze, Vallecchi 1965.

Link: http://www.premiobrunocavallini.it/premio2003.html