Eastwood Clint

Gran Torino

Pubblicato il: 18 Marzo 2009

Quando Walt Kowalski tira fuori l’accendino, nel malinconico epilogo di Gran Torino, ci tornano in mente tutti i personaggi interpretati dal grande Clint Eastwood, regista, attore e musicista californiano che ha consacrato la sua vita – soprattutto la vecchiaia, mai tanto ispirata in un artista del mondo di celluloide – alla settima arte, lungometraggio dopo lungometraggio, in un crescendo stilistico e narrativo che lo ha consacrato come il più grande cantore cinematografico delle contraddizioni d’America. Patria amata-odiata, cui non ha risparmiato – come anche in questa vicenda – feroci critiche, senza mai dimenticare l’afflato lirico, ancorché sovente doloroso, quando faceva capolino la bandiera, materialmente o anche solo idealmente. Flags of our fathers, a questo proposito, è un titolo emblematico, preludio a un dittico che conteneva in sé l’evocazione del padre e dell’identità e la relatività della morte, a qualsiasi latitudine e per qualsiasi figlio del mondo. È questo lo spirito del cinema eastwoodiano, che in quest’ultimo, intenso lungometraggio recupera anche il vecchio Callaghan per usarlo come specchio in cui guardarsi e confrontarsi, a distanza di oltre trent’anni dalla leggenda del suo mito violento e idealista. Ma in Gran Torino, congedo di Eastwood come attore (ma non come regista, per fortuna), c’è non soltanto la summa dei personaggi interpretati dall’ex duro d’America, ma anche un compendio delle tematiche che hanno caratterizzato l’ultimo cinema dell’artista californiano. In questo senso, e ancor prima di raccontarvi la storia ed elencarvi i motivi di pregio della pellicola, Gran Torino è destinata a rimanere come una delle più importanti opere del regista americano, in cui l’Eastwood attore ci dice addio quasi beffardamente, regalandoci un personaggio detestabile e umanissimo che resterà indelebile nel ricordo dello spettatore amante.

Midwest, giorni nostri. Walt Kowalski è un veterano della guerra in Corea, premiato con la medaglia al valore per alti meriti militari, che ha perso da poco la moglie e che si ritrova, vecchio e solo, probabilmente amato esclusivamente dal suo cane, a consumare le sue giornate bevendo birra e mangiando manzo essiccato, seduto nel giardino della sua villetta a schiera. Con i figli non ha mai avuto un gran rapporto e non coltiva particolari amicizie, se non quelle di bevute. Vive in un quartiere che oramai è divenuto una comunità asiatica, con tanto di bande a contendersi il territorio. Ha un solo vero grande amore, la sua Ford Gran Torino, che custodisce gelosamente in garage. È anche “braccato” dal giovane prete di quartiere, che ha promesso alla moglie morente di confessarlo, nonostante l’estrema ritrosia in merito a ciò dell’ex soldato. Kowalski ha pregiudizi razziali contro tutti coloro che non sono americani, in particolar modo nei confronti dei “musi gialli”, con cui suo malgrado confina. Con loro non vuol aver proprio nulla a che fare, e quando sorprende l’adolescente Thao, figlio della vicina di casa, costretto ad una sorta di iniziazione al teppismo nel garage dove tiene la sua Gran Torino, lo minaccia con il fucile conservato dai tempi della guerra in Corea. Ma il destino è pronto a sconvolgergli la vita, minando le sue certezze: interverrà in difesa del giovane, contro una gang asiatica guidata dal cugino dello stesso Thao, per istinto e repulsione nei confronti di chi usa sopraffare i più deboli, ma non soltanto per questo. Di qui in poi il rapporto tra il vecchio reduce e il giovane diventerà sempre più stretto, empatico, di mutua solidarietà, di sincero affetto reciproco: Thao va iniziato alla vita, e Walt è la persona adatta. Walt, a sua volta, gravato da una malattia che lo consuma, cerca di restituire quell’amore paterno mai regalato ai figli. Ma la gang non si è dimenticata degli affronti dell’ex soldato alla loro sovranità territoriale, sfogando la frustrazione accumulata su Thao e la sua famiglia. Walt, a questo punto, decide per una dolorosa e inusuale resa dei conti.

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Capovolgendo l’ideale callaghaniano e di tutti i giustizieri della notte tanto in voga nell’America dei Settanta, l’Eastwood della maturità attua una vendetta malinconica e umanissima, che assume un potente valore simbolico ed etico, oltre che estetico e narrativo. L’America e i suoi totem, l’America e i suoi tabù, l’America e le sue contraddizioni, si svela nelle metamorfosi di un ex soldato che recupera lo spirito che l’aveva animato nella giovinezza ideale per fare i conti con un doloroso passato, attraverso il riscatto nel presente e proiettando la contingenza nella possibilità propria al futuro. Il passato è la morte che ha dovuto dare, suo malgrado, e per cui è stato anche decorato: i fantasmi lo hanno tormentato per una vita, e attraverso il rapporto con il giovane d’origine asiatica incontra una sorta di inconscia espiazione che lo libera a quell’amore paterno ai figli inevitabilmente precluso. Il presente serve a ripristinare l’ordine naturale delle cose, a riportare ogni tassello al suo posto, a chiudere i conti con sé e con la propria memoria. Il futuro è Thao, con tutta la sua famiglia: l’estremo atto dell’ex soldato va esclusivamente in questa direzione. E il dono dell’amata Gran Torino sta simbolicamente a testimoniarlo.

Gran Torino è anche un film brillante e sarcastico, che soprattutto nella prima metà si fa forte di dialoghi politicamente scorrettissimi e divertenti. Il personaggio interpretato dall’Eastwood attore è colmo di forzature facciali, restituito con propensione ad andare sopra le righe, con evidente decrescita di caratterizzazione man mano che ci si avvicina all’epilogo. L’Eastwood dietro la macchina da presa ci conferma, a questo proposito, la sua sapienza registica, la sua capacità di far muovere sulla scena gli attori anche quando si tratta di dirigere se stesso. Pur virando decisamente sul dramma, nella seconda parte, la pellicola e il suo protagonista non perdono lo spirito cinico e disincantato dell’inizio rispetto al modo di vita statunitense, lanciando nemmeno velatamente, tra le pieghe della storia, accuse politiche direzionate a un modello evidentemente fallace e indifendibile piuttosto che a questo o quel colore politico. Il bello dei film eastwoodiani è anche in questa estraneità alla dialettica partitica, per universalizzare il più possibile le sue tematiche nel tentativo di far interiorizzare, attraverso l’emozione cinematografica, quelle verità di cui è in continua ricerca il suo cinema. È inevitabile notare, a questo punto, come l’amaro mondo di celluloide del regista californiano sia quello oramai più in netta opposizione con l’idea di american dream, il più incline a una disillusione che pur nel palese disincanto non può comunque non concedersi una flebile speranza. E l’immagine di Thao sulla Gran Torino, che si dilegua al sole del mattino verso un orizzonte inconoscibile sulla note del bellissimo tema musicale che chiude l’opera, dimostra che nel cuore di Clint la fiammella arde ancora.

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Gran Torino è, ancora una volta, in linea con l’idea eastwoodiana palesata in recenti pellicole, un apologo sulle vite al margine, sugli sconfitti, sulla non violenza e sul rispetto della diversità etnica e culturale, talmente lontano dalle banalità ideologiche sull’argomento da non aver bisogno di sovrastrutture alternative alla semplice struttura classica del cinema d’intrattenimento qualitativo tanto caro alla Hollywood dei Cinquanta e Sessanta. Un film sempre rigoroso e asciutto, ottimamente sceneggiato e ben recitato. Un modo di far cinema che dovrebbe essere portato a modello per tutti coloro che vogliano accostarsi con cognizione di causa alla complessità della settima arte, che Eastwood come pochi altri registi rende semplice e immediata allo spettatore, pur se centrata su un lavoro di dettagli – ad occhio di spettatore attento risulta evidente – davvero maniacale.

Credo che l’Eastwood attore non potesse congedarsi meglio. I suoi affezionati spettatori, pur con evidente rimpianto – io tra questi –, non potevano chiedere di più e si rallegrano della coerenza di questo grande artista. L’Eastwood regista ha invece ancora molto da darci, perché come il buon vino invecchiando migliora. Gran Torino, opera circolare – apre e chiude con un funerale, evocando inequivocabilmente la morte – ed emblematica dell’arte dell’artista californiano, è il film che, a mio personalissimo parere, avrebbe meritato il massimo riconoscimento della critica nel 2008, negli States. Cosi non è accaduto, visto che agli Oscar è stato clamorosamente trascurato, a vantaggio di opere che nessuno ricorderà. Ha invece ottenuto largo successo di pubblico. Al contrario, qui in Europa sia la critica che il pubblico lo hanno accolto benissimo, dimostrando ancora una volta l’amore che il Vecchio Continente nutre per l’inossidabile Clint. Un film intenso, coinvolgente, sarcastico e malinconico che conferma il cinema di Eastwood su livelli di eccellenza suprema.

Federico Magi, marzo 2009.

Edizione esaminata e brevi note

Regia: Clint Eastwood. Soggetto: Dave Johannson, Nick Schenk. Sceneggiatura: Nick Schenk. Direttore della fotografia: Tom Stern. Montaggio: Joel Cox, Gary Roach. Scenografia: James J.Murakami. Costumi: Deborah Hopper. Interpreti principali: Clint Eastwood, Christopher Carley, Bee Vang, Ahney Her, Brian Haley, Geraldine Hughes, Dreama Walker, Brian Howe, John Carrol Lynch, William Hill, Brooke Chia Thao, Chee Thao. Musica originale: Kyle Eastwood, Michael Stevens II. Produzione: Clint Eastwood, Bill Gerber, Robert Lorenz per Double Nickel Entertainment, Gerber Pictures, Malpaso Productions, Media Magik Entertainment, Village Roadshow Pictures, Warner Bros. Origine: Usa, 2008. Durata: 116 minuti.