Gran Premio al Festival di Cannes, miglior film non anglofono ai Bafta 2010, candidato all’Oscar come miglior film straniero e vincitore di ben 9 Premi César, tra i quali film, regia, sceneggiatura e attori maschili. Non solo premi ma anche un’ ottima accoglienza di pubblico per l’opera quinta di un regista, Jacques Audiard, amato e sovente premiato dalla critica (Sulle mie labbra, Tutti i battiti del mio cuore), a cui piace definirsi artigiano ma che anche in questo suo ultimo, intenso lungometraggio dimostra di essere un autore capace di fondere il realismo con le divagazioni oniriche, l’intrattenimento col minimalismo, il ritmo con la riflessione e con il dubbio. Il profeta è un film che viaggia arditamente lungo opposti apparenti per restituire una tensione e una compattezza narrativa che travalicano decisamente il mestiere, facendosi arte di celluloide allo stato puro. Ecco perché Audiard non è un semplice artigiano come vuole farci credere, e del resto ce l’aveva dimostrato col toccante ma misurato Sulle mie labbra; ecco perché Il profeta è una pellicola che si eleva decisamente dal genere (il gangster movie-dramma carcerario), per andare a incontrare il gusto dei palati cinematografici più esigenti. Vediamone brevemente la trama.
Malik, un ragazzo maghrebino semi analfabeta e cresciuto in un orfanotrofio, finisce in carcere a 19 anni. Non ci interessa tanto sapere perché, quanto il fatto che di anni deve farsene addirittura sei. In un luogo del genere, in cui sono ben distinte e chiare le appartenenze, lui che non ne ha e non ne ha mai avute – né etniche, né politiche, né religiose, né malavitose – è destinato a fare una brutta fine. Arriva in suo soccorso interessato Cesar Luciani, boss della malavita còrsa, che per prenderlo sotto la sua ala protettiva gli commissiona l’omicidio di un importante testimone di origine araba, momentaneamente detenuto nel carcere e assolutamente inavvicinabile se non da un altro arabo. Malik non può rifiutare, pena fare una bruttissima fine. Allora si adegua, e dopo l’omicidio, con pazienza, entra sempre di più nelle grazie di Luciani, fino a diventare il suo referente esterno nel momento in cui, a metà della pena, gli arrivano i primi permessi d’uscita. Nonostante l’assenza quasi totale di istruzione scolare, il giovane non solo in regime di detenzione impara i trucchi del mestiere, ma anche a leggere e scrivere, a decifrare i messaggi codificati dei còrsi. Inoltre, si costruisce un giro d’affari e d’amicizie con la comunità carceraria islamica e con un piccolo spacciatore che ha nascosto un massiccio carico di droga in un bagno pubblico, prima dell’arresto. Malik è sveglio e riesce con freddezza a tenere il piede in più scarpe, subendo passivamente gli ordini e le prepotenze di Luciani e dei còrsi, fino al momento in cui farà brillantemente coincidere gli affari con la vendetta.
Quattro anni di studi sulle carceri per restituire un cinema il più possibile realistico, un impasto etnico sociale e culturale che non può non generare conflitti, uno sguardo d’antropologo e di fine scienziato sociale, non sempre usuale per un regista. Audiard fa centro e ci regala uno dei più coinvolgenti e riusciti film della stagione, affidandosi al rigore ma senza rinunciare a intrattenere, intervallando di tanto in tanto con fugaci intermezzi onirici una narrazione asciutta e una regia calibrata che si fondono efficacemente e che rappresentano, unitamente all’interpretazione di Tahar Rahim e Niels Arestrup (con Audiard già in Tutti i battiti del mio cuore) e a una fotografia tanto realistica da far entrare lo spettatore all’interno delle mura carcerarie, i valori artistici più evidenti di un’opera che non ha comunque alcun cedimento strutturale o punto di debolezza, nonostante le due ore e trenta di durata. Un piccolo miracolo, da questo punto di vista, perché, vista l’ambientazione, la noia poteva far capolino facilmente. E invece no, si resta incollati a Il profeta dalla prima all’ultima sequenza, anche grazie alla parabola personale del protagonista, alla sua iniziazione alla malavita, alla sua crescita, alle sue progressive e silenziose metamorfosi. Un percorso scandito più dagli sguardi che dalle parole, più dall’attesa del momento che dalla frenesia del fare che spesso offusca gli approdi e confonde le mete. Malik sembra aver molto chiaro il suo percorso, tanto che, piano piano, chiunque gli si avvicina riconosce spontaneamente il suo “valore” e il suo conseguente diritto alla decisione e al comando. Ecco come nasce un “profeta” della mala, un boss, un futuro padrino: un ragazzo “allevato” dall’istituzione carceraria, in una Francia multi-etnica in cui divampa il conflitto sociale.
Audiard ci parla di prigione e conflitti etnici, religiosi, culturali e sociali, e ce li propone come allegoria e come metafora di una Francia confusa che vive le profonde contraddizioni di un’identità frammentata destinata a incendiare sempre più il clima e a partorire contrasti, lotte, rivendicazioni, ghetti e appunto prigioni fisiche, psichiche e soprattutto esistenziali. Il regista non giudica e non aderisce, guarda con distacco ma coinvolgendo lo spettatore, si muove in equilibrio ideale e in totale assenza di buonismo e moralismo, tanto che il plusvalore di fondo della pellicola risiede proprio nell’equidistanza non relativistica che sceglie; andando a infrangere, in questo senso, tutti gli stereotipi legati al genere. Non esistono buoni e cattivi ma solo personaggi i cui fatti vengono filmati e indagati, anche da molto vicino, in assenza di qualsivoglia (pre)giudizio etico. Gli stessi intervalli onirico-surreali vanno a supportare questa evidenza, laddove il cadavere sgozzato dell’arabo, in conseguenza del quale Malik era entrato nelle grazie di Luciani, si manifesta più volte al ragazzo non tanto come spirito inquieto vendicativo e tormentato, quanto più come specchio in cui trovare il confronto se non addirittura il conforto per proseguire il percorso intrapreso. E c’è di più, a ben guardare: Malik, esteticamente, non ha nulla del boss malavitoso e non ha nemmeno le stimmate del capo. Archetipo visivo ben incarnato, al contrario, dalla perfetta figura di Luciani (davvero straordinaria la prova di Niels Arestrup, il cui volto parla come pochi altri, in assenza di parole). Il futuro profeta ha invece un viso quasi d’angelo, che per ciò stesso inquieta e confonde.
Senza alcun dubbio il miglior film europeo della stagione appena conclusa, Il profeta è stato immeritatamente privato della Palma d’oro a Cannes dal troppo celebrato (dalla critica) Il nastro bianco, e forse anche dalla ritrosia di una giuria di un festival radical chic – come lo è Cannes, per l’appunto – nel voler premiare pellicole di genere, pur particolari e inusuali come quella in questione. Quel che conta, comunque, è che Il profeta abbia raggiunto il vasto pubblico oltre ché riconoscimenti festivalieri, peraltro del tutto meritati. Il mio consiglio, in questi casi, è sempre lo stesso: correte al cinema, prima che lo tolgano dalle sale!
Federico Magi, aprile 2010.
Edizione esaminata e brevi note
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