“Continuo a pensare a un fiume da qualche parte là fuori, con l’acqua che scorre velocissima. E quelle due persone nell’acqua, che cercano di tenersi strette, più che possono, ma alla fine devono desistere. La corrente è troppo forte. Devono mollare, separarsi. È la stessa cosa per noi. È un peccato, Kath, perché ci siamo amati per tutta la vita. Ma alla fine non possiamo rimanere insieme per sempre”. (p.286)
Tre bambini felici, un forte legame d’amicizia – per due di loro diverrà amore -, ignari del destino crudele cui andranno incontro, vivono in un collegio situato nella campagna inglese. Tre bambini “speciali”, in un collegio che accoglie e prepara alla vita “bambini speciali”, sono solo tre tra i tanti ospiti fanciulli di Hailsham. Tutti i bambini di Hailsham hanno il destino segnato, ma in qualche modo sono dei fortunati rispetto ai simili di altre strutture di questo tipo.
L’ultimo romanzo di Kazuo Ishiguro, scrittore giapponese nato a Nagasaki nei primi anni Cinquanta e trasferitosi in Inghilterra con la famiglia da bambino, è soprattutto un’elegia dei sentimenti, raccontata in modo visionario e doloroso, attraverso uno stile di scrittura semplice ma denso, lieve quanto intenso, criticamente rivolto al mondo moderno e alle sue derive medico-scientifiche. La vita di Kathy, Tommy e Ruth scorre dolce e inconsapevole, lungo un’infanzia di piccole scoperte in cui vengono sollecitate prioritariamente le loro doti artistiche. Tutti i bambini di Hailsham non hanno genitori, ma non sono neppure orfani. Da dove vengono questi fanciulli? Perché sono educati in modo particolare e sottratti al mondo? Che luogo è Hailsham? La presa di coscienza dei bimbi è progressiva, la loro natura gli è svelata a piccole dosi, ma mai completamente. Sanno che, una volta usciti dal collegio, verranno smistati nei vari Cottage del Regno per completare i loro studi e la loro educazione. Sarà loro chiaro che diventeranno prima assistenti e poi donatori, andando cosi a chiudere il loro ciclo: capiranno che sono dei cloni. Kathy, l’io narrante, è la prima a lasciare il Cottage, cominciando la vita di assistente. Proprio al termine di questo ciclo inizia a raccontare la sua storia. La loro storia d’amicizia, d’amore: la storia di Kathy, Tommy e Ruth, separati e riuniti dal destino, giusto in tempo per chiarirsi, per riempire il vuoto che il tempo delle parole non dette aveva generato in loro, per colmare una distanza che troverà una dolorosa consapevolezza e una ragione che non ammette sogni, speranze, vie di fuga pur presentite, auspicate, comunque sognate. E allora Kathy ci racconta una storia umana, talmente umana che sorprende se la si immagina narrata da un clone; una storia che parla di anime, li dove l’anima non aveva diritto di cittadinanza. Ci parla di un sentimento, di un amore che sorprende chi, nelle ultime pagine, arriva a soddisfare i suoi interrogativi esistenziali: Chi sono veramente? Cosa possono attendersi da questa vita di categoria inferiore, mai veramente umana? Perché proprio loro? Perché l’amore no, per quale motivo non è stato contemplato? I tre bambini sono assai diversi: iroso e solitario Tommy, esuberante e prepotente Ruth, riservata e persa nel suo mondo immaginifico Kathy. Tommy e Kathy hanno un legame evidente, il loro amore è vivo sin dal principio, ma il destino lo sublimerà solo nei pressi dell’epilogo, quando Tommy è già in procinto della sua terza donazione. Nei fatti è Ruth che li aveva divisi. Ma l’amicizia, il sentimento principe che lega i tre, è oltre. Nelle parole di Kathy: “Poi quando ci ripenso, sento che quell’immagine di noi il primo giorno, stretti in gruppo davanti alla casa colonica, non è poi cosi strana dopotutto. Perché forse, in un certo senso, non ci eravamo lasciati alle spalle quello che ritenevamo di aver abbandonato. Perché, sotto sotto, una parte di noi rimase sempre cosi: timorosa del mondo intorno e – non importa quanto ci disprezzassimo per questo – incapaci di staccarci l’uno dall’altra”. (P.126)
L’arte come specchio dell’anima, come indizio per comprendere una coscienza inconoscibile, per svelare il mistero dei cloni, sul finire del ventesimo secolo. Non lasciarmi è un titolo emblematico che, congruente con lo stile di scrittura dell’opera, sintetizza con un’ immagine inequivocabile il senso profondo del libro in questione: più le circostanze sembrano dividere, più è avverso il destino, più la ricerca dei legami importanti, unici, indissolubili, diventa ragione di vita ultima e imprescindibile. L’ultimo saluto tra Tommy e Kathy, la consapevolezza raggiunta, le risposte trovate e comunque inaccettabili per qualsiasi essere dotato d’emozione e di vita, sono un monito di Ishiguro a guardarci intorno, ma soprattutto a guardarci dentro: cosa c’è di più prezioso delle emozioni e dei ricordi quando la possibilità del futuro non esiste? Che mondo è quello che pensa di poter manipolare i corpi, crearne ex novo, senza pensare alle conseguenze che ciò comporta? Ed è interessante notare come Ishiguro faccia corrispondere al concetto di anima una “sostanza” appresa e non innata. L’anima umana nasce dall’interazione, dai libri, dall’arte, dalla natura che percepiamo, dalla nostra interiorizzazione della bellezza che ci circonda. Ecco che anche i cloni hanno un’anima, perché interagiscono, leggono, trasformano, creano, amano. Ecco che le lacrime, sempre pudicamente trattenute dai personaggi lungo la narrazione, si manifestano, con dolce malinconia, nell’ultima riflessione di Kathy, oramai rimasta sola, senza meta, consapevole del triste destino che la attende: “Pensavo ai rifiuti, alla plastica che sventolava tra i rami, alla linea di strane cose intrappolate lungo il reticolato, e allora chiusi quasi gli occhi e immaginai che quello fosse il punto in cui tutto ciò che avevo perduto negli anni dell’infanzia era stato gettato a riva; adesso mi ritrovo lì, e se avessi aspettato abbastanza, una minuscola figura sarebbe apparsa all’orizzonte in fondo al campo, e a poco a poco sarebbe diventata più grande, finché non mi fossi resa conto che era Tommy, e lui mi avrebbe fatto un cenno di saluto con la mano, forse mi avrebbe chiamata. La fantasia non andò mai al di là di questa immagine – non glielo permisi – e sebbene le lacrime mi rotolassero lungo le guance, non singhiozzavo né mi sentivo disperata. Aspettai un poco, poi tornai verso l’auto e mi allontanai, ovunque fossi diretta”. (p.291)
Non lasciarmi è al contempo un dramma cupo e agghiacciante, una fiaba gotica, una storia d’amore commovente e un vero e proprio anatema contro le derive bioetiche del mondo moderno; narrato con grazia, senza toni accesi, mantenendo nel lettore un sottile filo di aspettativa continua per un evento definito e spiazzante che in sostanza arriva solo nella terza parte, prima dell’epilogo. Una scrittura piena di evocazioni, di aperture e di continui rimandi, che irretisce e cattura senza artifici. Questa è la sua forza, procede facendoci interiorizzare un orrore di fondo che, se avesse fatto leva sull’impatto immediato, visto il tema, sarebbe stato difficilmente sopportabile. Era dai tempi della sua opera più celebrata, Quel che resta del giorno, che Ishiguro non ci regalava un grande romanzo. Questo lo è decisamente, ed è propedeutico per la riscoperta di un autore che negli ultimi anni sembrava aver perso l’ispirazione.
Federico Magi, marzo 2007.
Edizione esaminata e brevi note
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