Némirovsky Irene

Come le mosche d’autunno

Pubblicato il: 6 Novembre 2007

“Se ne stava immobile per ore, con le mani incrociate sul grembo, a fissare il vuoto, attonita. Era curva, quasi piegata in due, la pelle del viso bianca, esangue, con vene bluastre rigonfie all’angolo degli occhi. Spesso, quando la chiamavano, non rispondeva, limitandosi a serrare ancora di più la piccola bocca incavata. Eppure non era sorda. Ogni volta che uno di loro si lasciava sfuggire, sia pure a voce bassa, quasi un sospiro, un riferimento al loro Paese, lei trasaliva…..” (pp.80-81)

Esistono figure di valenza emblematica, persone che resistono al tempo e paiono raccogliere in sé, nel loro stesso atteggiamento, tutte le memorie del passato per custodirle e tramandarle. Tale è Tat’jana Ivanovna, la vecchia njanja che ha allevato più generazioni della famiglia Karin: ha visto il progenitore e i suoi figli e i figli dei figli, è un punto di riferimento e una confidente per tutti, ascolta, osserva, parla poco, medita tra sé e sé, prega per tutti.

Vedi i giovani Kirill e Jurij partire, in una notte gelida e scura, per la guerra – siamo nel 1918 – e traccia un segno di croce sopra la slitta che li porta via; lei rimarrà a custodire la grande casa, un tempo viva e allegra, quando i suoi proprietari saranno costretti a fuggire a causa della rivoluzione. Sarà ancora lei ad accogliere Jurij che torna braccato e sfinito. Né si farà intimorire dal lungo viaggio quando dovrà raggiungere i suoi padroni a Odessa per consegnare loro i diamanti che ha cuciti nell’orlo della gonna e che serviranno per espatriare prima a Marsiglia e poi a Parigi.

Lei seguirà la sorte dei Karin, esuli come tanti altri possidenti. Disorientati, non abituati a lavorare per sopravvivere, s’ingegnano col commercio e sfruttando le ricchezze che sono riusciti a trafugare. I vecchi cercano di non pensare troppo al passato per non soffrire, i giovani s’abituano alla vita nella nuova nazione, ma tendono a buttarsi via, a lasciarsi andare con disperazione a un’esistenza fatua e dissipata. È la decadenza di un intero ceto sociale in esilio che sta perdendo identità e radici, i Karin sono come le mosche d’autunno “allorchè, passati il caldo e la luce dell’estate, svolazzano a fatica, esauste e irritate, sbattendo contro i vetri e trascinando le ali senza vita”. (p.60)

L’unica che vuole ricordare è la balia, questa figura ieratica, solenne e discreta, dalle mani “minute, dure come corteccia”, che prova una struggente nostalgia per la patria russa, per la casa, la tenuta, per la neve e il gelo invernale, così lontani dal clima francese, che non le sembra mai troppo freddo.

Pur invecchiando Tat’jana Ivanovna sembra non mutare mai, come una statua. La sua intera esistenza pare essersi svolta sempre e solo presso i Karin. In realtà ha avuto, in un lontano passato, un marito e un figlio: scomparsi entrambi, sono figure che si perdono nella notte dei tempi a vantaggio di quelli che sono diventati a tutti gli effetti i suoi figli.

E sollecitudine materna, di commovente bellezza, c’è nei gesti con cui Tat’jana Ivanovna accoglie Jurij di ritorno dalla guerra, esausto, nel suo porgergli del cibo che sapeva piacergli, nel suo rispolverare oggetti ricchi di memorie, nel preparare con cura la tavola. Si tratta di attenzioni frutto d’amore, quell’amore che si dà solitamente ai figli naturali e che l’anziana balia riversa su quella che è ormai la sua famiglia a tutti gli effetti.

Depositaria di tradizione e di memoria, Tat’jana Ivanovna appare anche la custode della spiritualità: è lei che sa pregare per i vivi e per i morti senza ricadere nell’egocentrismo come gli altri, è lei che s’affida a Dio: “Sì, tutto finisce, tutto è nelle mani di Dio” (p.24) in una dimensione che potrebbe adombrare un certo fatalismo, una rassegnazione diffusa in chi è stato colpito dalla vita negli affetti più cari. Spiace che l’Autrice non abbia approfondito di più questo aspetto del personaggio, che avrebbe dato luogo a fertili riflessioni.

A chi scrive piace immaginare Tat’jana non come semplice custode di una tradizione religiosa, ma come donna di fede autentica.

Romanzo breve, dove i fatti corrono veloci, “Come le mosche d’autunno” reca sullo sfondo le vicende della rivoluzione russa vista, in questo caso, dalla parte dell’aristocrazia. L’interesse dell’Autrice non è storico, ma rivolto ai personaggi e al loro comportamento, anche se non mancano indicazioni delle conseguenze (carestia) della rivoluzione e soprattutto della violenza gratuita che ha scatenato. Un intero mondo, che si credeva al sicuro e nel giusto, si ritrova sotto processo, disorientato e travolto da una furia che a stento comprende e si avvia o all’esilio o alla morte. Pur adattandosi a una nuova patria, permane un senso di sottile nostalgia per il passato così ben incarnato da Tat’jana Ivanovna.

articolo apparso su lankelot.eu nel novembre 2007

Edizione esaminata e brevi note

Irene Némirovsky, (Kiev 1903-Auschwitz 1942) scrittrice ucraina in lingua francese. Figlia di un ricco ebreo russo di origini francesi, ex commerciante di granaglie e divenuto uno dei più potenti banchieri di tutte le Russie, si appassiona alla letteratura – soprattutto francese – in giovanissima età. Impara il francese dalla sua governante, ma parla anche il polacco, il russo, l’inglese, il basco, il finlandese e capisce lo yiddish.

Nel 1917 a causa della rivoluzione la Némirovsky lascia in fretta San Pietroburgo con la famiglia per rifugiarsi in Francia, dove si sistema definitivamente. Il suo primo romanzo “David Golder” (1929), pubblicato da Grasset, riscuote grande successo. Nel 1926 sposa Michel Epstein, giovane ingegnere, dal quale avrà due figlie. Negli anni successivi a causa dell’antisemitismo si converte al cristianesimo e fa battezzare le figlie, nella speranza di salvarsi dalla furia nazista. Arrestata, morirà ad Auschwitz, il marito avrà la stessa sorte poco tempo dopo.

Opere: “Il ballo” (1930); “Come le mosche d’autunno”(1931); “L’Affaire Courilof” (1933); “Le vin de solitude” (1935); “Suite francese “ (postumo nel 2004, pubblicato dopo il ritrovamento del manoscritto).

Irene Némirovsky, Come le mosche d’Autunno, Milano, Adelphi 2007. Titolo originale “Les mouches d’automne”. Traduzione di Graziella Cillario.

Links: Sito ufficiale dell’autrice:

http://pagesperso-orange.fr/guillaumedelaby/in_index.htm

http://www.zam.it/home.php?id_autore=2684