Pasolini Pier Paolo

Le ceneri di Gramsci

Pubblicato il: 30 Maggio 2007

La raccolta “Le ceneri di Gramsci”, pubblicata nel 1957, contiene undici poemetti articolati in capitoli e sezioni nei quali Pasolini elabora una lieve trama-racconto in cui s’inseriscono elementi autobiografici, riflessioni politiche e ideologiche, descrizioni fortemente pittoriche sul modello della critica d’arte (Pasolini all’università fu allievo del critico Roberto Longhi) sia del paesaggio sia del sottoproletariato delle borgate romane che tanto l’affascinava per l’originaria naturalezza e la genuinità popolare non ancora corrotta dal capitalismo e dalle sue mode.

La lirica è ricca di quei contrasti e quelle contraddizioni che il poeta viveva a volte drammaticamente in sé stesso: c’è da un lato l’adesione appassionata, vitalistica, viscerale, pura a un mondo popolare – contadino prima, legato alla materna terra friulana, poi sottoproletario – dall’altro alla razionale ideologia marxista che analizza le forze della storia per cambiarla.

I poemetti risultano densi di considerazioni, vitalità, bellezza che Pasolini riesce comunque a ritrovare nonostante il disincanto che apertamente manifesta.

Quadri di un’Italia costituita da città piene di tesori e arcaiche scene bucoliche (il mulo coi cesti d’uva che risale la collina, Roma coi lungoteveri e le “sentinelle del sesso battono in spossanti attese intorno a terree latrine”, il pastore che dorme col suo gregge) si presentano fin dal primo poemetto “L’Appennino”, dove il paesaggio si dipana sotto la luce d’una luna alternativamente “muta, cocente, intera, attonita, umana”, mentre silenziosa e ieratica rimane la statua della giovinetta morta Ilaria, con le sue palpebre chiuse.

Già Roma si delinea “ruderi alessandrini e barocchi indora alla luna, e disfatte borgate irreligiose, dove tutto si ignora che non sia sesso, grotte abitate da feci e fanciulli”. E il popolo, quel popolo che però resta spesso fermo al passato, intona canti reazionari (“Il canto popolare”) nella sua inconsapevolezza, nella sua leggerezza ancora incosciente “la luce di chi è ciò che non sa”.

Il senso di vitalità spunta anche nel “Comizio” fascista: “Ecco chi sono gli esemplari vivi, vivi, di una parte di noi che, morta, ci aveva illuso d’esser nuovi – privi d’essa per sempre”; “Un tempo morto che torna inaspettato, odioso, quasi i bei giorni della vittoria, i freschi giorni del popolo, fossero essi, morti”. Mentre il poeta s’aggira estraniato e angosciato fra questa folla incontra improvvisamente lo sguardo d’un compagno e sente vicina la presenza di Guido, il fratello partigiano morto giovinetto “Egli chiede pietà, con quel suo modesto, tremendo sguardo, non per il suo destino, ma per il nostro…”. Autobiografismo e storia s’intersecano e paiono per un tratto proseguire insieme.

L’intera raccolta vive nell’oscillazione tra i due poli d’un Paese umile, semplice, spontaneo, selvaggio, sfolgorante d’una luminosità mitica, evocata con toni elegiaci e la necessità di capire per fare, agire e cambiare. L’azione è rivoluzionaria, la passione è più regressiva, è intenerimento – con echi pascoliani – di fronte ai semplici, è simpatia istintiva per gli umili.

I vertici più alti vengono raggiunti ne “Le ceneri di Gramsci” e ne “Il pianto della scavatrice”.

Di fronte alla spoglia tomba di Gramsci nel cimitero acattolico di Roma, il poeta uomo e artista si pone a dialogare con quelle spoglie “non padre, ma umile fratello” (come a negare un distacco da una figura paterna borghese che Pasolini aveva realmente avuto). Lì c’è un Gramsci che pare solitario e indifeso. L’atmosfera che si respirava e si respira nel cimitero è di per sé lirica. Chi ancor’oggi, a mezzo secolo dai versi, dovesse varcare il cancello s’immergerà in un altro mondo. Le mura hanno il potere d’isolare quel luogo di memoria dall’incessante fluire del traffico che attorno si scatena. Negli anni Cinquanta la ressa meccanica non c’era, pulsava assai più il quartiere operaio di Testaccio di cui, sotto il Monte dei Cocci, s’ascoltavano voci e rumori. Al posto delle decine di bottegucce e laboratori dove si riparava quello che mai si sarebbe gettato via, ora l’economia del consumo – di cui il poeta coglieva contraddizioni e contaminazioni – ha piazzato alcuni ritrovi gastronomici e musicali.

E se resiste “lo straccetto rosso, come quello arrotolato al collo dei partigiani” che il tempo o mani militanti hanno potuto conservare accanto alle ceneri di Gramsci, il rapporto fra il padre del comunismo italiano e il mondo proletario del vicino quartiere delle cooperative di muratori, nel tempo s’è sfaldato. All’epoca dei versi c’era nella memoria del poeta la vicinanza a una realtà sociale che lui, nato borghese, conobbe e visse per un periodo sulla pelle “come i poveri povero, mi attacco come loro a umilianti speranze, come loro per vivere mi batto ogni giorno”. Del mondo degli umili, di cui in Friuli aveva conosciuto e amato le radici rurali, aveva trovato similitudini nella borgata romana di Ponte Mammolo verso Rebibbia (abitata e frequentata per l’insegnamento) o al Testaccio (che attraversava per raggiungere la successiva casa di Monteverde). Degli umili condivideva la precarietà, i pochi denari, la salita della vita che è solo sopravvivenza e lotta.

Come loro viveva di passioni e pulsioni sessuali, le sue verso gli adolescenti ”il giovinetto ciociaro che dorme col membro gonfio tra gli stracci un sogno goethiano” che tanto scandalo facevano nella bigotta società clerico-fascista e nello stesso Partito Comunista. Dal quale fu espulso nel ‘49 per “un’indegnità morale” legata più alla sua omosessualità che alla presunta pedofilia.

Mentre toni elegiaci s’alternano ad altri argomentativi e l’attenzione si sposta alternativamente verso l’io poetico e verso Gramsci, preso e lasciato più volte, nel sensibile animo del poeta brucia la contraddizione “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere; – dal mio paterno stato traditore – nel pensiero, in un’ombra d’azione mi so ad esso attaccato nel calore degli istinti, dell’estetica passione; attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza; è la forza originaria dell’uomo, che nell’atto s’è perduta, a darle l’ebbrezza della nostalgia, una luce poetica: ed altro più io non so dirne, che non sia giusto ma non sincero, astratto amore, non accorante simpatia…”

Neppure l’ideologia della liberazione, della nascita dell’uomo nuovo gli è amica offrendogli una libertà sessuale che è al di là da venire. E che quando sarebbe giunta – coi capelloni del Sessantotto – avrebbe avuto risvolti egualmente omologati, come l’intera società nata dal consumismo. E la coscienza di avere strumenti per comprendere tutto ciò e di padroneggiarlo con la cultura non alleggerisce l’angoscia “io possiedo la storia, ne sono illuminato ma a che serve la luce?”

Eppure le tante antinomie non smorzano l’amore per il popolo. L ’immagine della tiepida sera testaccina è d’una struggente bellezza, diversa e simile per l’eccelso lirismo ai versi leopardiani “Me ne vado, ti lascio nella sera che, benché triste, così dolce scende per noi viventi, con la luce cerea… Il rotolìo dei tram, i gridi umani… la corporea, collettiva presenza… la sopravvivenza nel cui arcano orgasmo non ci sia altra passione che per l’operare quotidiano …”.

A via Zabaglia, a via Franklin… manca poco alla cena… i rari autobus del quartiere brillano con grappoli d’operai agli sportelli… e i militari vanno, senza fretta, verso il monte che cela fra mucchi secchi d’immondizia, rintanate zoccolette che aspettano irose sopra la sporcizia afrodisiaca… e non lontano i ragazzi leggeri come stracci giocano alla brezza primaverile”.

Quale quadro è più sacro e profano di questo scorcio di mondo per niente contraffatto ? Com’è lontana la stucchevole ipocrisia di certo realismo socialista letterario d’impronta zdanoviana, voluto da Togliatti, Amendola e certa ufficialità di Partito, tutto rivolto a esaltare le sorti migliori e progressive per il futuro delle classi subalterne. Per costoro le immagini pasoliniane diventavano decadenti come e più di quelle che Alicata aveva contestato a Vittorini e al suo “Il Politecnico” e soprattutto non si poteva sopportare l’insinuarsi del dubbio che tanto assillava il poeta.

A una prima domanda “mi chiederai tu, morto disadorno, d’abbandonare questa disperata, passione di essere nel mondo?” segue quella angosciosa dell’ultima terzina “con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita?”. Essa diventa insieme un monito e un grido di dolore coi quali Pasolini ha già compreso la condanna che gli amati proletari e lui medesimo sono destinati a subire.

Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto. Dà angoscia il vivere di un consumato amore. L’anima non cresce più”. Quale incipit è più concreto, realista, addolorato e al tempo fiducioso nella poesia civile che per Pasolini è poesia d’amore, di questo del “Pianto della scavatrice” ?

Il tema autobiografico prosegue con forte tensione, nello scenario del rione proletario ardente di energia e vita (rincasano i giovani sui motorini coi compagni sui sellini, al bar chiacchierano gli avventori). Alla solitudine del poeta si contrappone la socialità dei ragazzi ma anche la crudezza e la durezza del vivere “Stupenda e misera città, che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini…, come andare duri e pronti nella ressa delle strade, rivolgersi a un altro uomo senza tremare…, a difendermi, a offendere…, a capire che pochi conoscono le passioni in cui io sono vissuto…”

È frequentando il semplice e coriaceo popolo delle borgate e mescolandosi a esso che il poeta s’è fatto adulto e ha iniziato a guardare la vita con altri occhi. È stata un’apertura verso un mondo sconosciuto, una profonda lezione esistenziale e quelle scoperte l’uomo Pasolini non le dimenticherà mai. “Povero come un gatto del Colosseo, vivevo in una borgata tutta calce e polverone, lontano dalla città e dalla campagna, stretto ogni giorno in un autobus rantolante… era un calvario di sudore e di ansie… di borgate tristi, beduine, di gialle praterie sfregate da un vento senza pace…, di deperiti e duri ragazzini stridenti nelle canottiere a pezzi…, i soli africani, le piogge agitate che rendevano torrenti di fango le strade, gli autobus ai capolinea affondati nel loro angolo…, era il centro del mondo, com’era al centro della storia il mio amore per esso”.

Ora il tempo è passato, il poeta rincasa lungo i viali del Gianicolo fino a via Fonteiana e s’interroga con un senso di pena e fallimento, quasi di rimpianto per gli anni in cui era più povero e non inserito nella società costituita. Nella solitudine e nelle difficoltà si formava la sua coscienza “Si moltiplicava per mille la gioia del conoscerlo – come ogni uomo, umilmente, conosce. Marx o Gobetti, Gramsci o Croce, furono vivi nelle vive esperienze… I pochi amici che venivano da me, nelle mattine o nelle sere dimenticate sul Penitenziario, mi videro dentro una luce viva: mite, violento rivoluzionario nel cuore e nella lingua”.

Nei nuovi quartieri in divenire fra sterri che vedono lo strabordare della “civiltà della palazzina” compare, inanimata, la scavatrice “che pena m’invade, davanti a questi attrezzi supini, sparsi qua e là nel fango, davanti a questo canovaccio rosso che pende a un cavalletto… Piange ciò che ha fine e ricomincia. Ciò che era area erbosa, aperto spiazzo, e si fa cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch’è rancore…”, quella stessa immagine che ritornerà alla fine del poemetto, quando la scavatrice sarà in movimento e lancerà le sue vibrazioni nel sole mattutino. Il pianto della scavatrice, dunque, diventa il simbolo di uno sviluppo storico che si compie attraverso la lacerazione del passato ed è dunque sofferenza. È l’urlo del passato che muore anche se gli operai innalzano pur sempre “il loro rosso straccio di speranza”.

In “Recit” l’ossimoro ritorna ossessivamente “Com’era nuovo nel sole Monteverde vecchio!” e nel poemetto vengono riesumati i settenari doppi di Jacopo Martello, un verso famigerato per il suo ritmo picchiettante che lo trasfigura dall’interno. Ricorrono situazioni coeve alla vita del poeta: la notizia della condanna per oscenità del romanzo “Ragazzi di vita” ambientato in buona parte in quel quartiere che, portata da un altro poeta e amico Attilio Bertolucci “fu più umana, Attilio, l’umana ingiustizia se prima di ferirmi è passata per te, e il primo moto di dolore che fece sera del giorno, fu pel tuo dolore”. E delle propaggini di Monteverde, sul confine con la zona industriale dell’Ostiense dato dalla stazione ferroviaria di Trastevere, anche nei versi compare la Ferro-Beton (Ferrobedò per la combriccola di Riccetto) e la raffineria Permolio, che ha lanciato luride zaffate in aria sino alla fine dei Sessanta.

In “Una polemica in versi” la diatriba diventa appunto poesia nella contrapposizione fra Pasolini e i teorici del prospettivismo, come il filosofo e politologo Lukàcs definì la posizione culturale nei partiti comunisti ortodossi che si rifaceva a Zdanov e esaltando un’omogeneità teorica e ideologica diventava mera propaganda. Pasolini additato dalla rivista “Ragionamenti” come estremista culturale sostiene di non temere l’accusa e scrive Non si dà cultura, cioè ricerca scienza verità, se non estremista, se non persuasa della propria decisività. L’opportunismo e la diplomazia non sono né storicismo né dialettica”. Ai severi custodi dell’ortodossia di Partito le riflessioni del poeta sulla classe e la sua lotta non piacciono l’ora è confusa, e noi come perduti la viviamo…, mi mormoravi, amaro, disilluso di ciò che hai avuto per dieci anni dentro, così chiaro che tra mondo e mente quasi era un idillio:…” “Hai voluto che la tua vita fosse una lotta. Ed eccola ora sui binari morti, ecco cascare le rosse bandiere, senza vento.”

Pasolini ha ben presente i fastidi del suo intervenire “E io… io cedo: posso soltanto appassionarmi, come sempre: pazzo, ché dovrei tacere, non offrire il fianco…” “E’ già vecchio il piano di lotta di ieri, cade a pezzi sui muri il più fresco manifesto.” Quindi l’affondo contro la burocrazia, il conservatorismo di Partito, la rivendicazione a malapena economica “vi siete assuefatti, voi servi della giustizia, leve della speranza, ai necessari atti che umiliano il cuore e la coscienza… Avete, accecati dal fare, servito il popolo non nel suo cuore ma nella sua bandiera: dimentichi che deve in ogni istituzione sanguinare …”

E la chiusura con una panoramica sulla Festa (di Partito, dell’Unità?) “si riapre nel rosso sole del meriggio d’autunno ancora afoso, in un’aria di morte, la vostra festa…” ossimoro essa stessa perché è triste e dimessa come i suoi partecipanti: ragazzi che masticano gomme americane, famiglie con la sporta della merenda, uomini con gambe vacillanti e la voce rauca del manovale ubriaco. Innaturale festa: il palco vuoto, il silenzio che affiora ”non resta nulla di vivo: neanche i colpi acerbi dei giovani pugili…”.

Rimane la nostalgia dei vecchi tempi, di ciò che si faceva e sperava solo un decennio prima. Comunque il sentimento del poeta non tradisce l’ideale, l’ultima strofa afferma: “in questa malinconia è la vita”.

Dal punto di vista metrico-stilistico questi poemetti risultano innovativi e sperimentali, pur rifacendosi alla tradizione precedente. La terzina viene deformata, resa irregolare con rime imperfette e variabili e un inseguirsi degli enjambements a formare frasi dilatate, allungate. Da un lato sembra esservi la nostalgia per il poemetto neoclassico, dall’altro vi sono l’ansia di sperimentare, l’uso di termini aulici e popolari, l’argomentare quasi prosastico-giornalistico e gli squarci lirico-elegiaci. Se talvolta c’è enfasi populistica d’ascendenza carducciana la stessa è filtrata attraverso Pascoli, resa comunque personalissima dal proprio originale sentire.

Articolo apparso su lankelot.eu nel maggio 2007

Edizione esaminata e brevi note

Pier Paolo Pasolini (Bologna 1922 – Roma 1975) poeta, saggista, regista, narratore italiano.

Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti, 1976.

Approfondimento in rete: Pagine corsare – Vita e opere di Pasolini / Pasolini-Casarsa / Italica Rai.

Bibliografia critica sull’autore:

Gian Carlo Ferretti, Letteratura e ideologia, Editori Riuniti, Roma, 1964.
Alberto Asor Rosa,
Scrittori e popolo, Roma, Samonà e Savelli, 1965.
Enzo Siciliano,
Prima della poesia, Firenze, Vallecchi, 1965.
Giuliano Manacorda, in
Storia della letteratura italiana, Roma, Editori Riuniti, 1967.
Carlo Salinari, in
Preludio e fine del realismo in Italia, Napoli, Morano, 1967.
Ferdinando Camon, in
La moglie del tiranno, Roma, Lerici, 1968.
Gian Carlo Ferretti,
La Letteratura del rifiuto, Milano, Mursia, 1968.
Angelo Guglielmi, in
Vero e falso, Milano, Feltrinelli, 1968.
Geno Pampaloni, in
Storia della letteratura italiana – Il Novecento, Milano, Garzanti, 1969.
Carlo Lazagna,
Pasolini di fronte al problema religioso, Bologna, Ed. Devoniane, 1970.
Paolo Volponi,
Pasolini maestro e amico in Perché Pasolini, Guaraldi, Firenze, 1978.
Enzo Siciliano,
Vita di Pasolini, Rizzoli, Milano, 1978.
N. Naldini,
Pasolini, una vita, Einaudi, Torino, 1989.

G.D’Elia, L’eresia di Pasolini, Milano, edizioni Effigie 2005.

Marina Monego, Enrico Campofreda, ottobre 2005