Vassalli Sebastiano

Marco e Mattio

Pubblicato il: 27 Novembre 2006

Tra le Dolomiti esiste una valle, la valle di Zoldo, oggi famosa per i suoi gelatai, cui si giunge dalla strada statale 251, quella che da Longarone va a Selva di Cadore e che una volta era detta il Canal. Andando a destra in direzione della diga del Vajont ci s’inoltrerebbe verso Erto, il paese di Mauro Corona, andando a sinistra invece si risale, attraverso una strada tuttora stretta e tortuosa, dominata dall’ombra di montagne e foreste, la val Zoldana.

Bosconero, Spitz di Mezzodì, la Moiazza, la splendida Civetta circondano la vallata, oggi luogo di villeggiatura, un tempo terra sperduta, traforata dalle miniere di ferro, flagellata dalla fame, dalla miseria, dalla superstizione, dallo sfruttamento.

Con precisione di storico e fantasia d’artista Vassalli ricostruisce vita, vicende, usi e costumi della valle alpina e contemporaneamente riesce a dar voce a personaggi il cui ricordo sarebbe andato smarrito o dimenticato in qualche vecchio archivio polveroso.

Così la storia di Mattio Lovat, il figlio dello scarper di Casal, morto nel 1806 a Venezia a San Servolo, l’isola dei matti, s’intreccia con quella della val Zoldana, dapprima territorio della Serenissima – riserva di ferro e di legno –successivamente dominio dei francesi e poi ceduta agli austriaci, senza che sostanzialmente nulla cambi per le plebi, sempre più sfruttate, sempre più miserabili, costrette infine all’emigrazione per l’impossibilità di sopravvivere nella loro terra.

Popoli senza voce, cui l’Autore, compiendo ricerche sui documenti rimasti, presta la propria, raccontando una storia e la Storia, così come essa attraversa angoli sperduti di mondo.

Tutto ha inizio nella Pieve di Zoldo nel 1775: arriva un misterioso forestiero, vestito da tirolese. Si dice prete e chiede ospitalità al pievano locale. Porta una lettera del vescovo di Belluno, cui si era presentato con una missiva del vescovo di Bressanone, nella quale si domandava venisse accolto per l’estate in una parrocchia di montagna, essendo stato malato di tisi e volendo perfezionare la conoscenza della lingua italiana e lo studio delle scienze.

Don Marco, questo il suo nome, è un uomo colto e stravagante, scienziato, astronomo, erborista, medico, ha viaggiato molto ed è ricco d’esperienza, non si comporta come un prete e va all’osteria, gioca ai dadi, cerca le antiche miniere sopra Fusine (=fucine), che un tempo avevano fatto ricca la valle.

Le sue caratteristiche di diverso, di straniero, di custode di altre conoscenze (cattura le vipere per estrarne il veleno) suscitano la diffidenza e il sospetto dei valligiani dalla mentalità chiusa, ma scatenano l’interesse e la curiosità di alcuni adolescenti, soprattutto di Mattio Lovat, all’epoca quattordicenne.

I destini di questi due personaggi iniziano ad intrecciarsi e per certi versi a contrapporsi.

Don Marco è una sorta di ebreo errante, compare in diverse epoche con molti nomi e Mattio stesso avrà modo di riconoscerlo in varie occasioni della sua vita, fino alla fine, quando il mistero della scomparsa di quest’essere apparentemente immortale s’intreccerà con il destino dello stesso Mattio, il matto «buono» contrapposto al malvagio, ironico e «maledetto» Marco. Proprio Mattio consentirà infine a Marco di morire ponendo fine al suo infinito errare.

Di Mattio sono rimaste notizie diffuse poiché fu considerato uno dei primi casi clinici della psichiatria moderna: un «matto» – e ai matti il libro è dedicato – convinto di dover salvare il mondo, la cui vita è simile a un romanzo e si lega a quella della sua terra.

Ecco allora che Vassalli ricrea la mentalità dei montanari, racconta usanze e costumi.

Durante il dominio della Serenissima, quando ancora in val Zoldana si riusciva a vivere, i vari gruppi famigliari si riunivano la sera, nelle stalle, per il filò: gli uomini da un lato a parlare dei loro affari e le donne dall’altro a far la calza e, le più giovani, a guardare di nascosto i giovanotti. Erano le occasioni in cui si combinavano fidanzamenti e matrimoni e ci si raccontavano storie paurose o aneddoti divertenti, pronti ad aggrapparsi alla seppur minima novità che potesse movimentare la vita monotona del paese.

Un piccolo mondo chiuso e diffidente, fatto di popolo e di signorotti locali spesso appena più ricchi dei loro subalterni. Un mondo dove le gerarchie sono date dalle varie cariche locali, volute dalla Serenissima: il capitanio o governatore, il marigo o sindaco, i fanti, una sorta di vigili urbani, la cernide o milizia territoriale per la difesa della valle.

Accanto ad un quadro delle usanze e della vita locale Vassalli offre una galleria di personaggi originali e stravaganti, che influenzano e accompagnano Mattio nella sua parabola esistenziale. Figure d’un secolo che va morendo, come il terribile don Tomaso, il sopranista, prete castrato capace di terrorizzare l’intero paese con le sue prediche apocalittiche, oppure il giocatore idealista Giacomo Doglioni, sperperatore del patrimonio proprio e della consorte.

Religione e superstizione formano un intrico inestricabile, avvalorato comunque dal clero che, basandosi sulla paura dei divini castighi e sull’ignoranza, fomenta una religiosità doloristica, incline al fatalismo e alla sottomissione. Casi di anoressia divengono «santità» (mentre i genitori della «santa» arricchiscono con le offerte dei pellegrini).

Contemporaneamente circolano le leggende sull’om salvarech, lo yeti delle Dolomiti e sulla smara, folletto di sesso femminile, che va attorno col buio a fare i dispetti. Terre attanagliate dalla povertà, dove i bambini troppo vivaci o un poco diversi dal solito vengono considerati indemoniati e portati dai frati che, naturalmente previo pagamento, li guariscono. Sacro e profano, religione e magia coesistono e, laddove i rimedi canonici falliscono, si può sempre appellarsi al crociato, sorta di veterinario-medico-erborista-stregone, che vive come un eremita, mangiando persino carne di serpente arrostita.

Si favoleggia di antiche miniere di ferro, che avevano reso un tempo ricca la valle, fornendo a Venezia ferri da gondola, armi e molto altro.

Le fusine, a Zoldo, erano effettivamente un mondo a sé, rispetto al resto della valle: un mondo notturno, che per secoli era stato collegato con un altro mondo notturno, quello delle miniere, ormai scomparso all’epoca della nostra storia. Erano luoghi di tenebra perpetua in cui s’accendevano luci improvvise, così intense che l’occhio non poteva sostenerne la vista, e di rumori assordanti, così cadenzati e continui da alterare l’udito e la ragione dei disgraziati che dovevano lavorarci per moltissime ore ogni giorno” (p. 25).

Direttamente collegati alle fusine erano i forgnàcoi, il popolo dell’abisso, sempre neri di fuliggine, una comunità separata dagli altri abitanti della valle.

Dissoluti e violenti, estromessi dalla vita collettiva e dal consorzio religioso, avevano pessima fama e pare si dedicassero a orge sfrenate con prostitute giunte apposta per loro.

Le fusine erano un “avamposto dell’Inferno” per il clero locale e per tutti i valligiani.

Di tutto questo non è rimasta traccia nel paesaggio della valle, osserva Vassalli: le foreste sono ricresciute, non vi sono più i mucchi di detriti, al frastuono dei magli è subentrato il silenzio e l’aria è diventata limpida, non più fumosa per i fuochi delle mille fucine.

Come la mitica Campigno presso Marradi, cantata dal maggior poeta italiano del Novecento, Dino Campana, anche Zoldo non è un paese né una valle che prende il nome dal suo fiume ma è –o, per meglio dire, era – una dimensione dello spirito. Un’entità globale, che comprendeva tutto: i villaggi, il cielo, la gente, le montagne…” (p. 74).

La dimensione della memoria, del ricordo storico attraversa tutto i libro: la figura di Mattio Lovat, con le sue vicende individuali, è anche riflesso della storia di un’intera popolazione, coinvolta nella Storia, talvolta stritolata tra le sue pieghe, segnata da un’unica costante: la fame, contro la quale si dimostrano vani anche i tentativi di rimedio attraverso la proposta di coltivazione della patata. I diffidenti montanari la rifiutano o rubano da sottoterra il prezioso tubero ai pochi che avevano osato piantarlo, mangiandoselo crudo senza dargli il tempo di germinare. Lunga è la via per un cambiamento di mentalità.

Se inizialmente, a fine Settecento, nella valle ancora prosperano botteghe artigiane e la terra viene coltivata, col tempo – già durante la fine del dominio della Serenissima – la zona s’impoverisce e diviene terra d’emigrazione, regno della pellagra o pellarina o male della miseria, causata da un’alimentazione sbilanciata e insufficiente costituita essenzialmente da polenta di granturco.

Tra le numerose conseguenze di questa malattia si ha la distruzione del sistema nervoso e quindi la follia.

Seguire la vita di Mattio Lovat è anche accompagnare un montanaro alla scoperta di Venezia, la Dominante: dal viaggio in zattera lungo il Piave, allora fiume vero e non rigagnolo imbrigliato dalle chiuse, fino all’aprirsi della laguna e all’approdo alla Sacca della Misericordia, in periferia. Lì gli emigranti entravano in città, non certo dalla porta principale del bacino san Marco.

Venezia appare a Mattio come il paese di Cuccagna, traboccante di cibo e di botteghe, è una metropoli viva, un immenso mercato popolato da ambulanti, maghi, giocolieri, saltimbanchi, ciarlatani, imbonitori, prostitute, profeti, imbroglioni.

Città piena di meraviglie e di bellezza, quasi un luogo di favola e capace di suscitare un senso di straordinario stupore nel montanaro abituato alle ristrettezze e all’austerità del suo paese.

È una Venezia, quella vista da Mattio, che non esiste più, morta dopo la fine della Repubblica e l’invasione del turismo, che l’ha trasformata in una grande fiera e privata dei suoi abitanti e delle sue botteghe caratteristiche.

Tornando poi a piedi al suo paese, Mattio, che a Venezia ha lasciato il fratello Antonio a fare il garzone presso un orafo, si rende conto ancora di più della miseria della sua valle: “Vide la sua valle con occhi nuovi: per la prima volta, si rese conto di quant’era povera, e di quant’erano infelici quelli che ci vivevano; e poi anche si accorse di altre cose, che riguardavano la sua famiglia. Vide sua madre un po’ingobbita…” (pp. 161-62).

Le vicende storiche si susseguono, passano i francesi, qualche speranza s’accende, sebbene il fatalismo renda il popolo sostanzialmente diffidente nei confronti delle novità ed incredulo verso un possibile cambiamento, poi vengono gli austriaci, la fame resta. Una rivolta porta i montanari ad invadere Belluno e ad allearsi con una sorta di Robin Hood locale, il bandito Luserta, che finirà ammazzato in un tranello. Si tratta di un’altra figura tipica, dalla fama circoscritta, ma che influenzò la vita di queste terre.

Il popolo giungerà a dire che “si stava meglio quando si stava peggio” tanto le sue condizioni si faranno difficili. E mentre si svolgono questi fatti matura la pazzia di Mattio, che da tempo si è ammalato di pellarina e sviluppa una strana insensibilità al dolore fisico, oltre che la capacità di vivere in un mondo tutto suo, come molti altri malati come lui.

Nessuno, allora, lo sapeva o se ne rendeva conto, ma quegli uomini e quelle donne che tutti compiangevano in realtà erano felici, molto più felici di quanto possa esserlo una persona normale: perché il male misterioso che li aveva colpiti, li rendeva immuni al dolore fisico e faceva naufragare il loro pensiero in un sogno infinito, in un’ultima sconfinata avventura – grande quanto l’immaginazione di ciascuno di loro! – in cui loro stessi erano i protagonisti” (p. 258).

Mattio si convince di dover salvare il mondo come un secondo Gesù Cristo ed allora agisce di conseguenza…e finisce i suoi giorni a San Servolo, intrecciando la sua sorte con quella del misterioso don Marco incontrato da ragazzino.

Pellarina, male di vivere: Vassalli ritiene che una mistione di entrambi abbia costituito la malattia di questo stranissimo personaggio vissuto due secoli fa. Quello che è certo è che con lui, nel 1806, si chiude un’epoca e se ne dischiude una nuova, presente, più ricca e votata al benessere.

Dopo Mattio la miseria e la fame iniziarono a scemare dalle valli e dalle campagne per poi scomparire e lasciare posto all’era del gelato e delle villette eleganti, delle automobili e del turismo.

L’unica cosa che il tempo non è riuscito a far sparire del tutto, nel caso di Mattio come in quello di Gesù di Nazareth, è una traccia che gli uomini – non tutti, fortunatamente, ma nemmeno pochi! – si lasciano dietro come le lumache si lasciano la bava, e che è il loro segno più tenace e incancellabile. Una traccia di parole, cioè di niente. Gli edifici crollano e vengono ricostruiti, le città muoiono, le montagne sprofondano: solamente la parola, di tanto in tanto, riesce a darci un’illusione d’immortalità che contrasta con tutto ciò che vediamo e conosciamo, e con la nostra stessa ragione. Come scrivere sull’acqua, o scolpire il vento…” (p. 289)

Vassalli ha ridato vita, voce, parola e dignità all’antico Mattio e all’inquietante Marco, ha interrogato documenti, ricercato tracce, ricostruito scenari, raccontato una storia con grande sensibilità e rispetto.

Il «matto» Lovat suscita interrogativi ed inquieta per la sua granitica vocazione al sacrificio e alla salvazione del mondo ed è una figura fatta emergere dalle nebbie del tempo, sottratta alla mera casistica psichiatrica e risuscitata nella sua semplice e immediata umanità.

Forse Mattio ha saputo guardare oltre, oltre la sua angusta vallata e la sua stessa vita, verso quei milioni di stelle che Marco gli aveva insegnato ad osservare e Vassalli, da grande narratore, l’ha compreso.

articolo apparso su lankelot.eu nel novembre 2006

Edizione esaminata e brevi note

Sebastiano Vassalli (Genova 1941) scrittore italiano. Tra le sue opere: Sangue e suolo, L’alcova elettrica, L’oro del mondo, La chimera.

Sebastiano Vassalli, “Marco e Mattio”, Einaudi Tascabili, Torino 1992.

Altri libri di Vassalli recensiti in Lankelot: “Mareblù”, “La notte del lupo”, “Stella avvelenata” (a cura di Franchi), “La notte della cometa” (a cura di Monego).

In rete: “La gazzetta del mezzogiorno” / “Novara Online”.

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