“Mami, non vedi che sto annegando? Certo tesoro, certo che lo vedo, sto venendo ad aiutarti, non aver paura, amore, mamma ti aiuterà, mamma non ti lascerà annegare! Urlava Stella, ma a chi? Chi mai poteva sentirla? Nessuno; la sua voce echeggiava sotto una volta piena di ombre, e non c’era nessuno a risponderle, nessuna presenza amica usciva dal buio per prenderle la mano, e rassicurarla, e dirle che andava tutto bene, era stato solo un sogno”. (p.272)
Per certi versi un romanzo agghiacciante. Follia, forse l’opera più nota e fortunata dell’inglese Patrick McGrath, sceglie da subito una forma di narrazione inusuale, allorché immagina uno psichiatra raccontarci in prima persona l’inquietante e doloroso caso clinico di Stella Raphael, moglie di un collega prossimo a diventare il nuovo direttore di un manicomio criminale vittoriano. Dall’interno delle mura del tetro edificio, Peter Cleave, l’io narrante, comincia a tratteggiare una vicenda angosciante e – a sentir lui – poco frequente: l’ossessione sessuale di una donna bella e agiata per un relitto della collettività, un paziente che aveva massacrato in maniera efferata la moglie in un malsano impeto di gelosia. L’uxoricida è Edgar Stark, uno scultore corpulento, un’artista per cui il confine tra arte e passione, tra amore e morte, sembra essersi assottigliato fino a scomparire, probabilmente ancor prima del folle gesto. Siamo in Inghilterra, non lontani da Londra, sul finire dei Cinquanta, e lo scultore è un’ospite del manicomio criminale, in cura dallo stesso Cleave. Il regime di semilibertà gli consente di svolgere mansioni manuali: gli viene assegnato il ruolo di giardiniere nella tenuta dei Raphael, situata accanto alla struttura medico carceraria. E qui scatta la devastante passione che rivoluzionerà la vita di Stella e il destino dell’intera famiglia Raphael, composta dalla donna, da Max, il marito psichiatra, e dal figlio preadolescente. In un vortice tempestoso e autodistruttivo, Stella consumerà carnalmente e emotivamente la passione per Edgar, lo aiuterà a fuggire dal manicomio e fuggirà anche lei, alla volta di Londra, per non farsi più trovare e per vivere il suo grande amore. Un amore più che mai tormentato, che risveglia in Edgar impeti di gelosia, di follia pura. E poi c’è Charlie, il figlio di Stella, abbandonato senza rimpianto alcuno? Forse no. Per Max nessun rimpianto, anzi, ma per le sorti del ragazzo qualche nube nella coscienza di Stella si annidava. Eppure la passione era più forte, oltre la ragione e il buonsenso, oltre la consuetudine, miraggio di vita vera, forse fino ad allora mai vissuta. Stella era un fiore che sfioriva dentro, prima di conoscere Edgard, a dispetto di una persistente bellezza esteriore, paradossalmente venuta meno proprio nel soggiorno londinese con l’amato artista, viste le condizioni di vita precarie cui era costretta. Sempre nascosta, ma colma d’amore, fino al sopraggiungere della gelosia dell’artista, immotivata, malsana e pericolosa, spettro di una pericolosa nevrosi ossessiva di ritorno. Di qui la fuga della donna, comunque innamorata e speranzosa di poterlo ritrovare, quell’amore, sempre con Edgard e in un altrove che, evidentemente, non poteva essere di questo mondo. Ritrovata dalle forze dell’ordine, restituita alla famiglia, Stella cade in un profonda e irreversibile depressione, che investe inevitabilmente i destini del marito e del figlio, fino a tragiche conseguenze. Fino al ricovero, nello stesso manicomio in cui il marito, finito in Galles e con la carriera rovinata, sarebbe dovuto divenire direttore. Ed ecco che entra in gioco Peter Cleave, l’io narrante, che prende in cura Stella fino quasi a riportarla alla “normalità”, proponendole addirittura di sposarla. Rimorso, angoscia e depressione erano però gli unici, reali compagni di viaggio di Stella, oramai prossima ad essere rimessa in libertà, con la prospettiva di un po’ di serenità. Certo, il passato recente le aveva lasciato un vero macigno interiore da rimuovere, la “colpa” più grave: un figlio perduto nelle circostanze più tragiche. Eppure, quello che muove in lei, ciò che la riempie e la annienta, è un solo, unico pensiero: Edgar. Tanto vicino quanto irraggiungibile: unica ragione per vivere, unica ragione per morire.
Un romanzo che avvince, che abilmente trascina il lettore sui sentieri tracciati da McGrath, tanto da “distrarlo” dalla congruenza di molti dei fatti narrati. Questo il gioco illusionistico del romanziere inglese, che oltre a possedere una narrazione fluida conosce benissimo le tecniche che solleticano le corde inconsce del lettore. E non a caso il tema in questione è narrato in prima persona da uno psichiatra il quale, dal suo punto di vista clinico, orienta la storia per raccontarci dei fatti, senza esprimere però un vero giudizio di fondo. Rapiti dalla narrazione non ce ne accorgiamo, ma il nodo è proprio questo: non ci racconta semplici fatti, ma punti di vista, narrazione alterata dall’empatia, da una percezione unilaterale di una vicenda evidentemente complessa. Perché vi rimarco questo punto? Perché il libro sembra aver la pretesa di fornirci l’analisi di un caso clinico, quando invece ci racconta “solo” una triste quanto intricata vicenda – romanzata, come testimonia lo stesso McGrath. Le suggestioni arrivano dall’infanzia dell’autore, figlio d’un medico psichiatra (ha vissuto coi malati di mente), quindi a contatto con casi d’isteria, depressione, nevrosi, solitamente segni di una possibile follia in arrivo. McGrath dà prova di sapersi ben addentrare nell’animo umano, disegnando credibili psicologie dei personaggi (aiutato anche da un minimo d’esperienza e da un professionista del settore), come raramente avviene in forma letteraria. Eppure, avendo scelto questa forma cosi affascinante ma allo stesso tempo rischiosa di narrazione, si espone al giudizio di chi per mestiere padroneggia queste incandescenti materie, risultando evidentemente approssimativo nel momento in cui viene descritta la riabilitazione della paziente, nonché le sedute d’analisi. Ma forse è pecca di poco conto, essendo un romanzo, essendo comunque una forma, pur qualitativa, di intrattenimento, piuttosto che un trattato di psichiatria. E, da questo punto di vista, l’operazione costruita da McGrath tiene, facendo leva sull’immedesimazione-repulsione a cui rimanda il personaggio di Stella. Lui par non schierarsi, al contrario invitando il lettore, come in ogni buona opera che si rispetti, a prender le parti di Stella o di Max, a trovare il possibile feedback coi personaggi, come ripeto ottimamente caratterizzati. A voler cercare qualcosa che sostanzi la mia affermazione di congruenza limitata di alcuni fatti, però, c’è la figura dell’artista folle e uxoricida, il quale improvvisamente sparisce nella seconda parte della narrazione, lasciando comunque l’idea d’esser presenza non solo psichica, nella mente dell’amata, ma anche fisica, di lei in ricerca. Tutto poco verosimile, ve ne accorgerete leggendo, se non sarete troppo immersi nel turbinio emotivo della protagonista.
La questione forte è comunque l’amour fou, cosi devastante e incontrollabile da annichilire il resto delle tematiche presenti. Nell’opera di McGrath, in modo inequivocabile, eros e thanatos si fondono e si confondono, destabilizzando il lettore, allontanando dalla narrazione ogni possibile forma di giudizio morale:
“Bastò questo a eccitarli. Un bacio, e si stavano già strappando i vestiti di dosso. Era proprio quella specie di voracità, di lussuria famelica a spaventare Stella. Odiava essere costantemente preda di qualcosa che non riusciva a dominare” (p.144)
E qui torniamo al tema evocato al principio, la forma di narrazione da me definita inusuale, non certo per lo stratagemma dell’io narrante, molto abusato dalla letteratura contemporanea, ma per la posizione che il romanzo vorrebbe affidare al lettore: non semplice fruitore, ma indagatore, cercando il nostro punto di vista nel momento in cui ce ne viene esposto un altro, quello dell’io narrante. Come ripeto, è un espediente di intrattenimento abbastanza furbo, perché il romanzo ce lo beviamo in un sol sorso: alla fine, però, un po’ di domande vi sorgeranno spontanee.
Vi risulterà chiaro ora che il confronto cui andrà incontro il lettore, sarà quello tra sé e la personalità di Stella, catalizzatrice di tutte le suggestioni contenute nella narrazione. E McGrath, pur non schierandosi, propone un personaggio estremo, nei cui riguardi può esistere solo solidarietà o disprezzo: nessuna via grigia. Può l’amore annichilire il resto? Può l’amore che porta alla follia e alla morte essere la fonte adrenalinica più grande possibile? Irrinunciabile approdo dell’esistenza per spiriti in cerca di luce. E ciò può essere solo privilegio degli artisti o di chi incontra anime che hanno l’arte in sé? Certo, perché l’amore folle descritto da McGrath par essere estraneo ai grigi, ai mediocri, ai piccolo borghesi, a chi non conosce il lato dionisiaco della vita: il lato animale, istintuale, che si fonde con quello metafisico, spirituale. Ecco che, pur non volendo esternar giudizi palesi (fa di tutto per gettare macigni “morali” sul personaggio di Stella, in sostanza depistando il lettore), scopriamo che lo scrittore inglese, indirettamente, ponendoci tra le righe le domande or ora formulate, quell’amore che vive oltre il consueto lo considera perlomeno un’importante fonte d’ispirazione letteraria. Evidenza di un’ arte che non può che essere ispirata da forti passioni, come quelle che bruciano in queste quasi trecento pagine che restano, unitamente a quelle di Spider (altra opera di McGrath, dalla quale è tratto il film omonimo di David Cronenberg), quelle più riuscite e suggestive della sua bibliografia. Un libro di sicuro interesse, destabilizzante e coinvolgente che, nel corso del tempo, ha trovato parecchi lettori e altrettanti estimatori. Un viaggio nei tortuosi labirinti della follia che rimanda, evidentemente, ad un mistero ancor più oscuro e imperscrutabile: lo sconvolgimento interiore provocato dal sopraggiungere di quella passione ingovernabile che annulla e rigenera, che per brevità chiamiamo amore.
“ “Già, l’amore” dissi. “Parliamo di questo sentimento che non riuscivi a dominare. Come lo descriveresti?” Qui Stella fece un’altra pausa. Poi, con voce stanca, riprese “ Se non lo sai non posso spiegartelo”. “Allora non si può definire? Non se ne può parlare? È una cosa che nasce, che non si può ignorare, che distrugge la vita delle persone. Ma non possiamo dire nient’altro. Esiste, e basta”. “Queste sono parole, Peter” mormorò Stella”. (p.249)
Federico Magi, agosto 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Patrick McGrath, scrittore britannico, Londra, Gran Bretagna, 7 Febbraio 1950. Il padre lavorava come psichiatra nel manicomio criminale di Broadmor, dove il giovane padre passa la maggior parte della sua infanzia. Nel 1971 si trasferisce in Canada per lavorare nell’ospedale di Oakridge. Malgrado i desideri del padre non diventerà pero mai psichiatra, preferendo la letteratura. Attualmente vive tra Londra e New York. Oltre al romanzo in questione, ricordiamo tra le sue opere, Grottesco (1989, Adelphi), Spider (1990, Bompiani), Il morbo di Haggard (1993, Adelphi). L’ultimo suo libro è La città fantasma (2005, Bompiani).
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