Stefan Zweig ha iniziato a scrivere “Ungeduld des Herzens” (“L’impazienza del cuore”) nel 1936, ha terminato il romanzo nel 1938 e lo ha pubblicato, per le edizioni Bermann-Fischer, nel 1939. In quel frangente, lo scrittore di origini ebraiche aveva già abbandonato l’Austria per via delle persecuzioni naziste e si trovava nella città di Stoccolma. “L’impazienza del cuore” ha ottenuto immediato successo ed è stato tradotto ed “esportato” quasi immediatamente in Inghilterra e negli Stati Uniti.
Volendo procedere con i richiami letterari, “L’impazienza del cuore” di Stefan Zweig mi ha ricordato, in maniera quasi automatica, un altro piccolo capolavoro in lingua tedesca ossia “Il sottotenente Gustl” di Arthur Schnitzler apparso nel 1900, prima opera della storia della letteratura tedesca a ricorrere al “flusso di coscienza”. Anche nel più corposo e complesso romanzo di Zweig, infatti, ci troviamo di fronte alla denudata coscienza e alle intime confessioni di un militare austriaco, l’intendente Hofmiller. L’uomo, noto per essere un eroe della Grande Guerra, famoso per le sue gesta e per il suo coraggio, sceglie di raccontarsi, nella finzione letteraria voluta da Zweig, allo stesso autore a seguito di un casuale incontro avvenuto nel 1938: “la vicenda che mi accingo a narrare mi è stata confidata, quasi per intero e nel più impensato dei modi, proprio nella forma qui proposta“.
Il ritratto di Hofmiller che scaturisce dal libro di Zweig non è molto dissimile da quello del citato sottotenente Gustl: il protagonista de “L’impazienza del cuore”, infatti, è un uomo vile e mediocre proprio come il militare descritto da Schnitzler. Durante il suo lungo racconto l’uomo, ormai ultraquarantenne, compie un viaggio a ritroso nel tempo confessando quelle debolezze e quelle fragilità che, solo per alcuni scherzi del destino, lo hanno poi condotto a divenire il valoroso combattente che tutti conoscono.
Tutto inizia nel 1913: il sottotenente Anton Hofmiller è d’istanza in una guarnigione presso i confini con l’Ungheria. Grazie ad un conoscente riesce ad essere invitato nella casa del ricco possidente della provincia, l’aristocratico Von Kekesfalva. L’uomo, ormai attempato e molto cordiale, ha perso la moglie da tempo ma ha una figlia adolescente di nome Edith. La ragazza è paraplegica e vive costantemente chiusa in casa. Tra il venticinquenne sottotenente e la giovane Kekesfalva nasce un’amicizia. Anton, sospinto da un sentimento di profonda compassione, tanto ben descritto e sviscerato dalla penna del sapientissimo Zweig, si reca ogni giorno a far visita alla povera Edith la quale mostra di essere fin da subito una creatura capricciosa, prepotente e particolarmente volubile. Tutti cercano di non farla arrabbiare e di accontentarla. La pietà di Hofmiller è però completamente equivocata dalla ragazza la quale si innamora del giovane militare. Lui, per viltà e per paura, sa di non poter ricambiare quei sentimenti ma, non avendo la determinazione necessaria né il coraggio per affrontare la realtà, prima lascia che il suo fidanzamento con Edith venga ufficializzato e poi, dopo aver meditato invano il suicidio, accetta di essere trasferito altrove abbandonando la giovane al suo tragico destino.
La voce narrante dell’intero romanzo è quella di Hofmiller. A lui Zweig lascia il compito di descrivere, nei minimi dettagli, quel sentimento di compassione che, in alcuni momenti e per alcune situazioni, è più dannoso e pericoloso di ogni altro. E’ però alla bocca del dottor Condor, colui che segue le inutili cure di Edith, che lo scrittore austriaco affida una distinzione essenziale: “Ci sono due tipi di compassione. L’una, quella debole e sentimentale, che a ben guardare è soltanto impazienza del cuore, vuole solo sbarazzarsi il più in fretta possibile della penosa commozione prodotta dall’altrui infelicità; è una compassione che non è affatto con-passione, ma solo un’istintiva reazione di difesa del proprio animo di fronte alla sofferenza del prossimo. E poi c’è l’altra, l’unica che conti: la compassione non sentimentale, ma fattiva, quella che sa ciò che vuole, quella decisa a sopportare tutto con pazienza e comprensione, fino allo stremo delle proprie forze e anche oltre. Solo se si è capaci di andare fino in fondo, fino all’estremo, amaro fondo, si può aiutare il prossimo. E solo se, nel farlo, si è disposti a sacrificare anche se stessi: soltanto allora!“.
Anton è vittima del primo genere di compassione, quella istintiva, quella che nasce dall’urgenza di difendersi dal male patito dal prossimo. Una compassione che altro non è che vuota pietà, egoistica predisposizione a sentirsi necessari a qualcuno, sentimento deleterio e pericolosissimo. Proprio come dimostra Zweig in questo romanzo. Opera scritta con una particolare raffinatezza, quasi a rendere ancora più tangibili le sofisticate atmosfere dell’ambiente aristocratico austro-ungarico e il rigido ed austero formalismo di un esercito legato ad un Impero che, da lì a poco, dovrà affrontare la propria disgregazione. Un romanzo potente e pieno di amarezza che trasmette tutto il disincanto di uno splendido scrittore che, da lì a qualche anno, sceglierà di togliersi la vita in un Paese straniero nel quale era stato costretto a rifugiarsi.
Edizione esaminata e brevi note
Stefan Zweig nasce a Vienna nel 1881 da una ricca famiglia ebraica. Si laurea in Filosofia nel 1904. Appassionato viaggiatore, ha modo di conoscere numerosi luoghi del mondo e di incontrare alcuni tra i più importanti esponenti della cultura del tempo: Auguste Rodin, Hermann Hesse, James Joyce, Ferruccio Busoni. Zweig diviene famoso come romanziere, traduttore, biografo e librettista. La sua produzione letteraria è ricca e molto varia, anche se in Italia non tutti i suoi libri sono stati tradotti. Nel 1934 Zweig lascia l’Austria per spostarsi in Inghilterra e nel 1940 si trasferisce definitivamente negli USA al pari di tanti altri esuli ebrei. Il 22 febbraio del 1942, a Petrópolis, cittadina a nord di Rio de Janeiro, Stefan Zweig muore suicida assieme alla seconda moglie Lotte Altmann.
Stefan Zweig, “L’impazienza del cuore”, Frassinelli, Torino, 2004. Traduzione di Umberto Gandini. Titolo originale “Ungeduld des Herzens” (Bermann-Fischer, 1939).
Da questo romanzo di Stefan Zweig sono stati tratti due film. Il primo, una produzione britannica del 1946, intitolato “Beware of pity” per la regia di Maurice Elvey con Lilli Palmer, Albert Lieven e Cedric Hardwicke; il secondo, “La Pitié dangereuse“, realizzato per la TV francese nel 1979 con Marie-Hélène Breillat, Mathieu Carrière per la regia di Édouard Molinaro.
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