“Dovrebbe arrivare da Siracusa anche quella nuova domestica, gli hanno riferito, che chiamano “la sciocca”, o meglio “‘a babba”, e dicono corta di pensiero ma fresca di cosce e di petto“. Nel 1847 Lucia Salvo ha sedici anni, due occhi come “mandorle dure” e vive con sua madre a Siracusa dove tutti sanno che è pazza. La chiamano “babba“, infatti. “Babba” perché certe volte il suo corpo cade e si contorce, perché schiuma bava e rivolta gli occhi e nessuno sa spiegarselo. Nemmeno lei stessa. Lucia sa che il “fatto”, quel “fatto”, è meglio non nominarlo nemmeno tanto cure non ce ne sono. Vale solo la pena sperare che non si presenti troppo spesso anche se “aleggia sulla vita di Lucia come una soglia, un’imminenza sempre prossima a manifestarsi, e lei pure ha finito per considerarlo così“. Un certo John Hughlings Jackson ha definito per primo lo stato di “epilessia” ma gli accademici siculi del tempo la pensano diversamente: “Non è meglio parlare di impressionabilità ed eccessi, di debolezze di donne, di congenite impossibilità di piegarsi alla vita? Non è meglio ascrivere piuttosto queste patogene manifestazioni dell’anima a quel magma di stimmate e resurrezione che anche gli antichi, a Dio piacendo, apostrofano come pazzia?“.
La fama del “fatto” la circonda e la precede. Anche quando Lucia lascia Siracusa per andare a Palermo. Deve recarsi a servizio presso il Conte figlio di Casa Ramacca. Sua madre ha avuto per lei raccomandazioni esplicite: “sorridi e nascondi le mani, ché sono tutte tagliate. E se il Conte figlio ti tiene a servizio o ti prende nel letto, ringrazia tutti i santi del Paradiso“. Pare che le voglie carnali del Conte figlio, infatti, siano sempre molto vivaci e i suoi appetiti in fatto di donne sempre alquanto esuberanti. Il nano Minnalò gli procura servette e prostitute ma nessuna dura più del tempo di un amplesso o due. Non c’è quiete nel letto e nell’anima del Conte figlio. Nessuna donna lo sazia, nessuna donna lo appaga. Lucia, la serva appena arrivata da Siracura, “‘a babba“, è bella e giovane e Minnalò la ripulisce e la prepara per il suo padrone. Lucia non sa neppure immaginare cosa voglia il Conte figlio da lei, “non ha dimestichezza con corteggiamenti o affari di donne né sa come un uomo si unisca all’altro sesso“. E’ mossa da una mistura di istinto e paura e quando il Conte figlio si avvicina, Lucia gli sferra un morso feroce, un “morso da furetto“, un morso da animaletto selvatico e furibondo. Il Conte figlio sanguina e ride di gola sorpreso, finalmente, dalla ritrosia di una donna che non si sottometta in silenzio alle sue pretese: “Una novità succosa – Dio benedica, sorride estasiato – in tanta Palermo impura e sverginata, in cui è un miracolo trovare una donna che dica “no”. Una bella novità pure per i tempi, in cui a una fimmina pare non resti altro che servire o amare fintanto che le cosce le restano alte, non ancora ammalorate dai parti“.
Tutto cambia a partire da quel morso. Cambiano l’atteggiamento e il mondo del Conte figlio, rianimato da una femmina che gli si nega, e cambia anche il destino di Lucia che, senza volerlo, si ritroverà a svolgere un ruolo fondamentale durante i moti rivoluzionari del 1848. La storia, quella vera, vuole che Lucia Salvo sia esistita realmente come racconta Luigi Natoli nelle sue “Cronache e leggende di Sicilia” (Flaccovio editore, Palermo, 1987). Ce lo spiega nella “Nota storica” finale la stessa Lo Iacono. La scrittrice-magistrato si è ispirata alla figura di una giovane vissuta in Sicilia nella seconda parte dell’ottocento. Il suo romanzo fiorisce infatti attorno al personaggio e alle vicende di Lucia, immaginata e ridestata dal torpore del tempo. Una storia tutta siciliana che, inevitabilmente, mi riporta alla mente alcune figure “minime” ma luminosissime dei libri di Sciascia che alla riscoperta di personaggi dissolti nei secoli ha dedicato pagine e passione. La scrittura della Lo Iacono, che avevo già apprezzato con “Effatà” prima e con “Le streghe di Lenzavacche” poi, merita stima ed apprezzamenti. Mi piace il suo stile un po’ barocco ma comunque dinamico e sferzante, uno stile che prende forza dall’amore che la Lo Iacono mostra di nutrire per la sua terra e per la sua lingua. Il romanzo riluce di personaggi ben pensati e ben costruiti; le vicende sono ordite con intelligenza e lucidità e tutto conduce ad un esito narrativo di sicuro valore. “Il morso” è un buon libro, una lettura amabile.
Edizione esaminata e brevi note
Simona Lo Iacono è nata a Siracusa nel 1970. Lavora come magistrato da diversi anni: dirige la sezione distaccata di Avola, tribunale di Siracusa. E’ autrice di diversi racconti e collabora con magazine e riviste. Con il suo lavoro tende spesso a coniugare letteratura e diritto. Il suo primo romanzo si intitola “Tu non dici parole” (Perrone Editore, 2008) col quale ha vinto il Premio Vittorini Opera Prima. Nel 2010, in collaborazione con Massimo Maugeri, ha pubblicato un racconto lungo dal titolo “La coda di pesce che inseguiva l’amore” (Sampognaro & Pupi). Nel 2011 arriva “Stasera Anna dorme presto” (Cavallo di Ferro) col quale si è aggiudicata il Premio Ninfa Galatea. Nel 2012 ha pubblicato il racconto storico “Il cancello” e nel 2013 è uscito “Effatà” (Cavallo di Ferro) vincitore del Premio Martoglio e del premio Donna siciliana 2014 per la letteratura. Nel 2016, per i tipi di Edizioni E/O, pubblica “Le streghe di Lenzavacche”, finalista al Premio Strega, e nel 2017 esce per Neri Pozza il romanzo “Il morso”. Simona Lo Iacono cura una rubrica fissa sul blog “Letteratitudine” di Massimo Maugeri, conduce un format letterario (BUC) sul digitale terrestre e cura la rubrica “Scrittori allo specchio”. Come volontaria, presta servizio nel carcere di Brucoli, tenendo corsi di scrittura, letteratura e teatro.
Simona Lo Iacono, “Il morso“, Neri Pozza, Vicenza, 2017.
Pagine Internet su Simona Lo Iacono: Blog / Editoria siciliana (intervista)
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