Bedeschi Giulio

Il peso dello zaino

Pubblicato il: 15 Settembre 2012

Nella quarta di copertina leggiamo: “Questo romanzo è la naturale integrazione e l’indispensabile complemento di Centomila gavette di ghiaccio”. E fin qui tutti d’accordo, soprattutto nel definirlo romanzo. Mentre la più celebre opera di Bedeschi è stata definita anche “testimonianza” e comunque un racconto di vita nel quale, pur con i nomi dei reali protagonisti reinventati dall’autore, prevaleva la tragica esperienza diretta della ritirata di Russia, nel successivo “Peso dello zaino” (prima edizione 1966) le cose non stanno proprio così. E’ vero che la prima stesura di “Centomila gavette di ghiaccio” comprendeva anche le vicende dei reduci fino al drammatico spartiacque dell’8 settembre 1943, ma poi le scelte editoriali – col senno di poi azzeccate –  hanno fatto sì che di quanto accaduto agli alpini dal momento del ritorno in patria fino allo sbandamento seguente all’annuncio dell’armistizio, sia stata dedicata un’opera specifica. Appunto “Il Peso dello zaino”. Seguiamo quindi le vicende dei superstiti che, dopo essere stati ricoverati, spesso amputati per congelamento, dopo essere tornati per un breve periodo presso le loro famiglie, vengono ricondotti ai loro reparti e schierati al confine con i territori jugoslavi. Qui l’armistizio dell’8 settembre li sorprenderà ed ognuno di loro, a tu per tu con la propria coscienza, deciderà il da farsi, se semplicemente tornare a casa e lasciarsi alle spalle la vita militare, se salire sui monti con i partigiani, se accodarsi alle nascenti brigate repubblichine.

Se “Centomila gavette di ghiaccio” era soprattutto lo spaventoso racconto della ritirata di Russia, dove la lotta per la sopravvivenza a quasi cinquanta gradi sotto zero veniva mostrata con una drammaticità che non abbiamo trovato neppure nel più celebre “Sergente nella neve” di Rigoni Stern, nella seconda opera di Bedeschi il dramma, in assenza di situazioni ambientali limite e di combattimenti all’ultimo sangue, diventa soprattutto un conflitto interiore. Anche se non possiamo dimenticare, soprattutto nella prima parte del libro, le descrizioni drammatiche, raccapriccianti, degli amputati e delle prime vittime dei bombardamenti alleati: “soffermò infine con decisione le pupille a quegli estremi lembi ove le quattro rossigne cicatrici insaccavano e conchiudevano il tronco […] Condannato a giacere, abbandonato a sé dei presenti impietriti, sul lettino il ragazzo ora sussultava a scatti, emettendo a intervalli un gemito sempre uguale”. E poi descrivendo gli esiti di un bombardamento a Bologna: “ma a farsi vicino si constatava che non c’era tombino, il busto di don Antonio poggiava tutto su una pozza del proprio sangue e poi direttamente sulla pietra; qualcuno forse, non scorgendo nulla più che quel torace reciso netto alla base, non aveva saputo fare meglio che rimetterlo a diritto in quel modo perché il volto del prete era sorridente e cordiale, colorito da parer vivo”.

“Il peso dello zaino”, nonostante questi passaggi drammatici che sono coerenti con quanto subito fisicamente dagli alpini durante la ritirata di Russia, contiene anche pagine piene di ironia – tipo i siparietti vernacolari con Scudrèra – che in minima parte abbiamo letto nel fluviale “Centomila gavette di ghiaccio”. Quindi una struttura meno compatta rispetto la precedente opera, e soprattutto un racconto che a ragione è stato definito “seguito ideale”, soprattutto per l’aggettivo “ideale”. Mentre la vicenda “Centomila gavette di ghiaccio” era stata vissuta minuto per minuto in prima persona da Bedeschi, con “Il peso dello zaino” i reduci alpini, ovvero il già citato Scudrèra, Pilòn, Serri (Bedeschi), Bartolan e tanti altri si disperdono per tutta la penisola, lontano dagli occhi del narratore: emerge un evidente passaggio narrativo dal vero al verosimile. Oppure proprio al racconto di fantasia, seppur significativo nel rappresentare gli stati d’animo di coloro che dopo l’8 settembre si sono ritrovati abbandonati senza un chiaro riferimento ideale e politico.

In questo senso è importante leggere con attenzione l’introduzione, “Il perché di un libro”, scritta dallo stesso Bedeschi: l’autore racconta le vicissitudini editoriali che, dopo molti tentativi, hanno poi portato alla pubblicazione delle sue memorie di guerra; e di come la scelta di concludere il racconto di “Centomila gavette di ghiaccio” al momento del rientro degli alpini in Italia si sia rivelata azzeccata; salvo poi dover riscrivere in un secondo momento quelle memorie dei reduci, con alcune aggiunte di fantasia, ma perfettamente coerenti con quello sbandamento delle coscienze che l’autore voleva esprimere.

Mi riferisco a Bernard Haring, un sacerdote tedesco che Bedeschi incontrò nel 1964 in un convegno presso la “Cittadella cristiana” di Assisi e che gli raccontò la sua stupefacente vicenda: quando Paulus decise la resa ai russi, il sacerdote, aiutante di sanità (i nazisti non tolleravano cappellani militari), decise di tornare a casa prendendo il comando dei suoi commilitoni, pretendendo che durante la ritirata non sarebbero state usate le armi e imponendo il rispetto, peraltro ottenuto, nei confronti della popolazione russa. Salvo poi venire rinchiuso dai nazisti in un campo di concentramento per non essersi arreso ai russi. Nel racconto Bernard Haring diventa Flad. E Flad nelle ultime pagine del racconto incontrerà – in un episodio del tutto immaginario – Reitani  (realmente disperso durante la ritirata), che, dalla Sicilia, all’indomani dell’8 settembre e arruolato nelle milizie di Graziani, deciderà di tornare in Russia e di morirci, coerente fino in fondo con la sua idea di onore. Questo senso dell’onore, diversamente interpretato dagli alpini sbandati, inevitabilmente rappresenta un leit motiv che caratterizza le pagine di Bedeschi.

Con questo romanzo, o testimonianza che dir si voglia, l’autore, nelle vesti del capitano medico Serri, si racconta fino al momento nel quale, di ritorno a casa in bicicletta dopo l’8 settembre, incontra delle donne che lo vedono e parlano di lui: “E’ vestito elegante, è di città. Un ufficiale di sicuro. – In blu con la rigetta chiara – incalzò un’altra. – Comodo scappare –aggiunse la terza, più vecchia. – E pensare che nell’altra guerra mio marito si è fatto ammazzare al suo posto. Questi invece scappano. Mi si rimescola il sangue”. […] “Fu come se lo frustassero. Con quali parole spiegare? Sentì la vergogna salirgli dal profondo, fu incerto se gridare o fuggire”. Da questo momento Serri-Bedeschi,ormai consapevole delle prossime contrapposizioni tra italiani, scompare e lascia spazio alle vicende degli altri suoi commilitoni, alcuni convinti ad unirsi alla nascente resistenza, altri sotto il comando delle milizie fasciste.

Serri-Bedeschi scompare dal romanzo e la cosa, soprattutto dopo quell’episodio significativo, ha un suo perché e potrebbe rappresentare una sorta di giustificazione delle reali scelte del Bedeschi militare e reduce della campagna di Russia. Una scomparsa, almeno dalle cronache del dopoguerra, che fu reale, ottenuta con un voluto silenzio e in qualche modo giustificata nelle parole presenti nel “Peso dello zaino”: l’autore all’indomani dell’armistizio si iscrisse al Partito Fascista Repubblicano e comandò la XXV Brigata Nera “Arturo Capanni”. di Forlì. Un buco nero della sua vita che solo recentemente è stato indagato grazie alle ricerche di Benito Gramola col suo saggio «La 25° brigata nera “A. Capanni” e il suo comandante Giulio Bedeschi». Una scelta che lo storico interpreta come motivata probabilmente da un tornaconto economico piuttosto che da profondi ideali, e che forse rende la vicenda biografica del nostro autore, pur non priva di ambiguità, in qualche modo meno incoerente rispetto quanto testimoniato nel suo “Centomila gavette di ghiaccio”. Per quanto sia fa pensare un autore che ha raccontato gli orrori della ritirata di Russia, la tronfia retorica dei generali che mandarono a morire decine di migliaia di uomini, poi sodale di coloro che sono stati responsabili di un tale scempio. Evidentemente l’ideologia, un tornaconto, o un certo modo di interpretare il senso dell’onore furono più forti di ogni altra considerazione.  Contraddizioni che trascendono la biografia dell’autore; non fosse altro che le pagine del “Peso dello zaino”, proprio come esplicitato molto chiaramente nella prefazione, contengono una continua tensione tra il senso di responsabilità dei soldati, diciamo pure il loro senso del dovere e dell’onore, e l’aspirazione ad un mondo senza violenza, coerente con gli insegnamenti cristiani, qui rappresentati soprattutto grazie al memorabile personaggio del sacerdote soldato Flad-Haring.

“Le pagine di Bedeschi sono pagine di una tragica cronaca del passato prossimo ma che non si esauriscono nell’ambito di quel tempo e di quegli uomini e ci riportano a ragioni e domande che fanno parte della nostra storia assoluta, qual è quella del cuore umano, nel dolore e nella morte” (Carlo Bo).

Edizione esaminata e brevi note

Giulio Bedeschi (Arzignano, 1915 – Verona, 1990), medico e scrittore italiano. Alpino. «Centomila gavette di ghiaccio» (1963) fu la sua opera prima, premiata nel 1964 col Bancarella. Collaborò con «L’Europeo», «Gente», «Storia illustrata». Nel 1972 dà alle stampe due nuovi titoli: La rivolta di Abele e La mia erba è sul Don. Negli anni Settanta e Ottanta cura per Mursia la serie «C’ero anch’io», monumentale raccolta di testimonianze di coloro che combatterono sui fronti della Seconda guerra mondiale. Nel settembre del 1990 torna in Veneto, a Verona, dove morirà nel dicembre dello stesso anno. Nel 2003 è stata pubblicata la raccolta di scritti Il Natale degli alpini e nel 2004 Il segreto degli alpini. Tutte le opere di Giulio Bedeschi sono edite in Italia da Mursia.

 Giulio Bedeschi, “Il peso dello zaino”, Mursia, Milano 2007, pag. 232

Luca Menichetti. Lankelot, settembre 2012

Recensione già pubblicata il 15 settembre 2012 su ciao.it e qui parzialmente modificata.